Violenza sessuale, attendibilità del minore (Cass.13129/20)
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di istruzione dibattimentale, il giudice può legittimamente desumere elementi di prova dall’esame del consulente tecnico di cui le parti abbiano chiesto ed ottenuto l’ammissione, stante l’assimilazione della sua posizione a quella del testimone, senza necessità di dover disporre apposita perizia se, con adeguata e logica motivazione, dimostri che essa non è indispensabile per essere gli elementi forniti dall’ausiliario privi di incertezze, scientificamente corretti e basati su argomentazioni logiche e convincenti (Sez. 3, n. 4672 del 22/10/2014, dep. 2015, L., Rv. 262469; Sez. 3, n. 8377 del 17/01/2008, Scarlassare, Rv. 239281; Sez. 2, n. 3383 del 28/02/1997, Santilli, Rv. 207411).
in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A, e a., Rv. 270936).
La sentenza (pagg. 7-9) analizza compiutamente, con argomentazioni logiche ed articolate, la consulenza tecnica del pubblico ministero, la ritiene scientificamente corretta ed esaustiva e legittimamente reputa non necessaria la perizia, dando anche conto del fondato giudizio sulla non suggestionabilità della bambina reso dalla consulente, sicchè appare del tutto generica – oltre che ipotetica, e tale motivatamente ritenuta dalla sentenza impugnata (pag. 11) – la necessità di ulteriormente verificare se fossero intervenuti condizionamenti esterni tali da modificare o alterare il suo ricordo dei fatti.
2.2. Escluso il dedotto vizio di illogica motivazione, deve aggiungersi che in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), è possibile contestare la mancata assunzione di una prova soltanto se si tratti di una prova a discarico richiesta ai sensi dell’art. 495 c.p.p., comma 2, e se essa sia decisiva. La perizia, tuttavia, non è una vera e propria prova a discarico e non è mai, comunque, decisiva.
Ed invero, è consolidato l’orientamento secondo cui è decisiva quella prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323; Sez. 2, n. 21884 del 20/03/2013, Cabras, Rv. 255817). Con particolare riguardo all’accertamento peritale sulla capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale, questa Corte nella sua più autorevole composizione ha poi di recente affermato che il suo mancato espletamento non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A, e a., Rv. 270936).
Violenza sessuale attendibilità del minore
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
(ud. 28/02/2020) 28-04-2020, n. 13129
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACETO Aldo – Presidente –
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –
Dott. REYNAUD Gianni F. – rel. Consigliere –
Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
H.A., nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza del 27/02/2019 della Corte di appello di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Gianni Filippo Reynaud;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Spinaci Sante, che non si è opposto al rinvio richiesto dalla difesa e, nel merito, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
- Con sentenza del 27 febbraio 2019, la Corte d’appello di Trieste, accogliendo parzialmente il gravame proposto dall’odierno ricorrente con riguardo alla revoca di taluni effetti penali della condanna, ha nel resto confermato la pronuncia con cui l’imputato è stato condannato alla pena di anni dodici e mesi sei di reclusione in ordine al reato continuato di cui all’art. 609 bis c.p. e art. 609 ter c.p., comma 1, n. 1, (nel testo vigente prima delle modifiche apportate con L. 19 luglio 2019, n. 69) per aver ripetutamente costretto a subire atti sessuali una bambina che da poco aveva compiuto i dieci anni di età, commettendo altresì nei suoi confronti atti di violenza privata per costringerla a non rivelare ai genitori gli abusi subiti.
- Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, deducendo, con il primo motivo, violazione dell’art. 190 c.p.p. e art. 495 c.p.p., comma 2, art. 111 Cost. e art. 6, lett. d), c.e.d.u., nonchè vizio di motivazione, con riguardo alla mancata ammissione della perizia, richiesta sin dal giudizio di primo grado, volta ad accertare la capacità a testimoniare della persona offesa minorenne. Il fatto che tale accertamento fosse stato unilateralmente compiuto dal pubblico ministero, a mezzo di proprio consulente, non era sufficiente a consentire l’esercizio del diritto di difesa sul punto, considerato, inoltre, che detto consulente non aveva condotto indagini per verificare se la minore avesse in precedenza raccontato ad altri degli abusi e non aveva tenuto conto che ella aveva assistito al racconto degli stessi fatto dalla madre ad una pediatra, potendo così rimanerne suggestionata nella successiva narrazione in sede processuale. In ogni caso, avendo la sentenza impugnata fatto ampio riferimento a detta consulenza tecnica, il richiesto approfondimento peritale non poteva essere ritenuto superfluo.
- Con il secondo motivo di ricorso si deducono inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 530 c.p.p., violazione delle linee guida della c.d. Carta di Noto e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione per essere stato ritenuto che le pur riconosciute inosservanze dei protocolli – con particolare riguardo alla conduzione dell’esame della minore – non avessero influito sulla genuinità della prova, peraltro valorizzandosi le già criticate conclusioni della consulenza tecnica del pubblico ministero. Del resto, al di là delle dichiarazioni della bambina, non vi erano altri elementi univoci di prova, non essendo tale la riscontrata presenza di ragadi anali, potendo la patologia avere una causa diversa dalla contestata penetrazione.
- Con l’ultimo motivo di ricorso si deducono violazione degli artt. 132, 133, 81 e 62 bis c.p., nonchè art. 27 Cost., comma 2, per essere stata determinata la pena nel massimo edittale senza adeguata motivazione, negandosi le circostanze attenuanti generiche senza tener neppure conto della richiesta di perdono fatta dall’imputato ai genitori della bambina e della sua incensuratezza. Si era dunque omessa qualsiasi valutazione in ordine alla capacità a delinquere dell’imputato ed alla funzione rieducativa della pena.
- Con richiesta trasmessa prima dell’udienza, il difensore dell’imputato, del Foro di Gorizia, allegando copia dell’ordinanza contingibile ed urgente, recante Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-2019, adottata il 23 febbraio u.s. dal Ministro della Salute e dal Presidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, ha addotto il proprio legittimo impedimento, a tutela del diritto di salute, ad effettuare il viaggio da Gorizia a Roma e quindi a comparire all’udienza, richiedendo pertanto il rinvio del processo.
Motivi della decisione
- Rileva preliminarmente il Collegio che l’istanza di rinvio del processo per legittimo impedimento del difensore non sia meritevole d’accoglimento.
Dall’ordinanza contingibile ed urgente addotta a giustificazione dell’istanza di rinvio si ricava che, alla data della richiesta, nessun caso di contagio da COVID-19 era stato rilevato nella regione Friuli Venezia Giulia, dandosi soltanto atto di 25 casi accertati invece nella vicina regione Veneto.
Nessuna delle misure precauzionali adottate dall’ordinanza allegata incide sulla trattazione dei procedimenti giudiziari, sull’utilizzo dei mezzi di trasporto o sulla libertà di circolazione all’interno della Regione o da questa verso zone non identificate dall’O.M.S. come a rischio epidemiologico. Com’è noto, poi, alcuna, analoga, restrizione era stata adottata, nel periodo in cui si è tenuta l’udienza del presente procedimento, nella città di Roma, ove non erano stati accertati focolai di epidemia, sicchè l’udienza pubblica fissata il giorno 28 febbraio u.s. presso questa Corte Suprema si è regolarmente tenuta con la trattazione di tutti i procedimenti e la partecipazione – oltre che dei componenti l’Ufficio, molti dei quali residenti in altre regioni – di numerosi avvocati provenienti dalle più disparate aree del Paese.
La prudente, ed insindacabile, decisione del difensore di rinunciare al programmato trasferimento aereo da Trieste a Roma, senza che sia stato addotto alcun particolare motivo di salute di carattere personale/familiare, che sarebbe altrimenti stato adeguatamente considerato (cfr. Sez. 4, n. 18069 del 10/02/2015, Saluci, Rv. 263438), non può pertanto integrare – alla data di trattazione del procedimento e con riguardo alla situazione al momento in atto nelle aree geografiche interessate quali sopra indicate – un assoluto impedimento a comparire rilevante ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5.
- Venendo al contenuto del ricorso, il primo motivo va ritenuto infondato.
2.1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di istruzione dibattimentale, il giudice può legittimamente desumere elementi di prova dall’esame del consulente tecnico di cui le parti abbiano chiesto ed ottenuto l’ammissione, stante l’assimilazione della sua posizione a quella del testimone, senza necessità di dover disporre apposita perizia se, con adeguata e logica motivazione, dimostri che essa non è indispensabile per essere gli elementi forniti dall’ausiliario privi di incertezze, scientificamente corretti e basati su argomentazioni logiche e convincenti (Sez. 3, n. 4672 del 22/10/2014, dep. 2015, L., Rv. 262469; Sez. 3, n. 8377 del 17/01/2008, Scarlassare, Rv. 239281; Sez. 2, n. 3383 del 28/02/1997, Santilli, Rv. 207411).
La sentenza (pagg. 7-9) analizza compiutamente, con argomentazioni logiche ed articolate, la consulenza tecnica del pubblico ministero, la ritiene scientificamente corretta ed esaustiva e legittimamente reputa non necessaria la perizia, dando anche conto del fondato giudizio sulla non suggestionabilità della bambina reso dalla consulente, sicchè appare del tutto generica – oltre che ipotetica, e tale motivatamente ritenuta dalla sentenza impugnata (pag. 11) – la necessità di ulteriormente verificare se fossero intervenuti condizionamenti esterni tali da modificare o alterare il suo ricordo dei fatti.
2.2. Escluso il dedotto vizio di illogica motivazione, deve aggiungersi che in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), è possibile contestare la mancata assunzione di una prova soltanto se si tratti di una prova a discarico richiesta ai sensi dell’art. 495 c.p.p., comma 2, e se essa sia decisiva. La perizia, tuttavia, non è una vera e propria prova a discarico e non è mai, comunque, decisiva.
Ed invero, è consolidato l’orientamento secondo cui è decisiva quella prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323; Sez. 2, n. 21884 del 20/03/2013, Cabras, Rv. 255817). Con particolare riguardo all’accertamento peritale sulla capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale, questa Corte nella sua più autorevole composizione ha poi di recente affermato che il suo mancato espletamento non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495 c.p.p., comma 2, si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A, e a., Rv. 270936).
2.3. Nè ha pregio il rilievo secondo cui sarebbe mancata la possibilità di esercitare il contraddittorio sui temi affrontati dal consulente tecnico del pubblico ministero. Del tutto correttamente, infatti, la sentenza impugnata osserva che la difesa aveva controesaminato il consulente in giudizio e che aveva avuto la possibilità, di fatto non esercitata, di nominare un proprio consulente di parte, qualora avesse voluto sottoporre al giudice contrari elementi tecnici di valutazione.
- Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato e generico.
3.1. In diritto, va premesso che, anche laddove sia stato effettuato l’accertamento tecnico sulla capacità a testimoniare del minore persona offesa di reato sessuale, le risultanze peritali vanno calate nel contesto delle altre prove assunte e occorre che il giudice tenga adeguatamente conto di tutte le circostanze concrete che possono influire su tale valutazione (Sez. 3, n. 39405 del 23/05/2013, B., Rv. 257094; Sez. 3, n. 29612 del 05/05/2010, R. e aa, Rv. 247740). E’ in particolare necessario che il racconto del minore sia inquadrato nel più ampio contesto sociale, familiare e ambientale del medesimo, al fine di escludere l’intervento di fattori inquinanti in grado di inficiarne la credibilità (Sez. 3, n. 8057 del 06/12/2012, dep. 2013, v. e a., Rv. 254741), ciò che va necessariamente fatto anche laddove, con l’accertamento peritale di cui all’art. 196 c.p.p., comma 2, sia stata accertata la capacità di comprendere e riferire i fatti della persona offesa minorenne (Sez. 3, n. 8057 del 06/12/2012, dep. 2013, S., Rv. 254741). Per altro verso, la valutazione di attendibilità del teste minorenne vittima di reati sessuali è compito esclusivo del giudice, che deve procedere direttamente all’analisi della condotta del dichiarante, della linearità del suo racconto e dell’esistenza di riscontri esterni allo stesso, non potendo limitarsi a richiamare il giudizio al riguardo espresso da periti e consulenti tecnici, cui non è delegabile tale verifica, ma solo l’accertamento dell’idoneità mentale del teste, diretta ad appurare se questi sia stato capace di rendersi conto dei comportamenti subiti, e se sia attualmente in grado di riferirne senza influenze dovute ad alterazioni psichiche (Sez. 3, n. 47033 del 18/09/2015, F., Rv. 265528; Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F. Rv. 251662).
Sotto altro profilo, va richiamato il principio, più volte ribadito, secondo cui in tema di testimonianza del minore vittima di abusi sessuali, il giudice non è vincolato, nell’assunzione e valutazione della prova, al rispetto delle metodiche suggerite dalla Carta di Noto, salvo che non siano già trasfuse in disposizioni del codice di rito con relativa disciplina degli effetti in caso di inosservanza, di modo che la loro violazione non comporta l’inutilizzabilità della prova così assunta; tuttavia, il giudice è tenuto a motivare perchè, secondo il suo libero ma non arbitrario convincimento, ritenga comunque attendibile la prova dichiarativa assunta in violazione di tali metodiche, dovendo adempiere ad un onere motivazionale sul punto tanto più stringente quanto più grave e patente sia stato, anche alla luce delle eccezioni difensive, lo scostamento dalle citate linee guida (Sez. 3, n. 648/2017 del 11/10/2016, L.P.M., Rv. 268738; Sez. 3, n. 39411 del 13/03/2014. G., Rv. 262976).
3.2. La sentenza impugnata, reputa il Collegio, ha fatto certamente buon governo di tali principi, rendendo una motivazione analitica, attenta e del tutto logica circa l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato per i gravissimi fatti ascrittigli, che non presta il fianco a censure di sorta.
Ed invero, la sentenza impugnata (pagg. 11 ss.) ha analizzato l’unico profilo di violazione della Corta di Noto segnalato dall’appellante – e nuovamente riproposto in ricorso – vale a dire l’insistenza con cui l’esaminatrice, in sede di incidente probatorio, aveva chiesto alla bambina “se fosse sicura” quando, in prima battuta, aveva negato che l’imputato le avrebbe messo “il pisello nel culetto”.
La sentenza osserva, tuttavia, come si trattasse dell’estrapolazione di un unico passaggio di un esame che aveva avuto notevole durata ed ampiezza e che, nel resto, non aveva dato adito a contestazioni circa la proposizione di domande suggestive o manipolatrici. Rende, inoltre, ragione del fatto che, nello stesso esame, la bambina aveva chiaramente mostrato di non essere suggestionabile, non avendo timore di contraddire la persona che la stava intervistando, sicchè non v’era ragione per non crederle quando aveva affermato di aver subito una parziale penetrazione anale e anche vaginale. Il racconto della minore era caratterizzato da coerenza intrinseca, chiarezza, logicità del narrato, riferito con dovizia di particolari.
La sentenza attesta, inoltre, come la penetrazione anale trovasse ulteriore conferma nei dolori che la minore aveva rappresentato nel defecare e, soprattutto, nel fatto che l’ispezione effettuata presso l’ospedale infantile aveva riscontrato non già semplici ragadi anali, ma plurime abrasioni all’interno dell’orifizio anale indicate, in referto, come “altamente suggestive per sospetto abuso sessuale”. Del pari erano state riscontrate “a livello del margine imenale posteriore…due piccole incisure a V che non raggiungono la base dell’impianto…compatibili con la tipologia della localizzazione del dolore indicati dalla minore, nel momento in cui ha ricordato che il membro dell’imputato, da lei avvertito come rigido, aveva spinto sui suoi genitali, per entrarvi, nonostante le sue resistenze, tanto da farle trovare sangue nelle mutandine”.
Questi oggettivi, forti, riscontri del racconto fatto dalla minore, osserva poi la sentenza impugnata, hanno trovato definitiva conferma nella confessione stragiudiziale fatta dall’imputato alla mamma della bambina, allorquando, informata dell’accaduto della piccola, ella l’aveva verbalmente aggredito, provocando, da parte sua, l’ammissione dei fatti e la richiesta di perdono, successivamente reiterata con una messaggio trasmesso via Facebook. Su queste, significative, circostanze in punto valutazione della penale responsabilità il ricorso è del tutto silente, salvo valorizzare la confessione nell’ambito delle doglianze svolte con riguardo al trattamento sanzionatorio.
- Venendo, dunque, all’ultimo motivo di ricorso, proprio a tal riguardo proposto, reputa il Collegio che lo stesso non sia fondato.
Nel confermare il trattamento sanzionatorio inflitto in primo grado, negando le circostanze attenuanti generiche e muovendo dalla pena massima edittale di dodici anni di reclusione – prevista nel caso di violenza sessuale commessa in danno di infraquattordicenne dall’art. 609 ter c.p., comma 1, n. 1, nel testo vigente all’epoca della commissione dei fatti – applicando quindi un contenuto aumento di quattro mesi di reclusione per la continuazione interna al reato di violenza sessuale di cui al capo a) e di due mesi di reclusione per il reato continuato di violenza privata contestato al capo b), la Corte territoriale ha effettuato una valutazione di merito non censurabile in questa sede di legittimità.
Vanno sul punto richiamati i consolidati principi secondo cui, in tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269). Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, peraltro, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).
Quanto alla pena base, la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), sicchè può essere censurata in sede di legittimità soltanto sul piano del soddisfacimento dell’obbligo di motivazione. Se per assolvere a tale onere, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), altrettanto non è consentito fare allorquando la pena sia stata inflitta in termini prossimi al massimo edittale (Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Pasquali, Rv. 258356; Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, Denaro, Rv. 245596). In tali casi, vi e più laddove, come nella specie, la pena base sia stata fissata nel massimo edittale, è invece necessaria una attenta e rigorosa motivazione che mostri la corretta applicazione dei criteri di legge previsti dall’art. 133 c.p. (cfr. Sez. 5, n. 35100 del 27/06/2019, Torre, Rv. 276932; Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, Monterosso, Rv. 255153), senza che, tuttavia, la Corte di legittimità possa sovrapporre la propria eventualmente diversa – valutazione a quella fatta dai giudici di merito e sorretta da logica e congrua motivazione.
4.1. Già il giudice di primo grado aveva giustificato in modo articolato e non certo illogico l’uso del proprio potere discrezionale nell’irrogare la pena nel massimo edittale, osservando che: la condotta aveva raggiunto la massima gravità possibile, tanto nelle minacce (effettuate anche con l’uso di un coltello e addirittura estrinsecatesi in un quid pluris che aveva giustificato l’ulteriore contestazione di violenza privata), quanto nella lesione dell’integrità sessuale della bambina, ripetutamente penetrata per via vaginale e anale, con lesioni accertate dai medici e di cui più sopra si è detto; all’epoca dei fatti la bambina aveva compiuto dieci anni da soli due mesi, sicchè la sua età era prossima a quella che avrebbe altrimenti giustificato il considerevole aumento di pena previsto dall’art. 609 ter c.p., u.c.; gli atti erano stati non solo offensivi della sfera sessuale della minore, ma ne avevano mortificato l’infanzia, compromettendone il sereno sviluppo; l’imputato, con condotta pervicacemente reiterata, aveva mostrato la particolare intensità del dolo, calpestando brutalmente il sentimento di fiducia che i genitori della piccola avevano in lui riposto, accogliendolo e ospitandolo in casa propria; ancora nel processo egli aveva mostrato carattere proditorio e spregiudicata capacità a delinquere, non limitandosi a difendersi, ma accusando la bambina di essere portatrice di una non meglio chiarita “acredine” nei propri confronti.
Il ricorrente – il quale, sia detto per inciso, non ha inteso in alcun modo optare per scelte processuali che, nel denegato caso di condanna, avrebbero consentito di fruire di benefici premiali capaci di attenuare il rigoroso trattamento sanzionatorio che la legge prevede per reati gravissimi come quello di violenza sessuale in danno di infraquattordicenne (trattamento peraltro di recente inasprito con la ricordata L. n. 69 del 2019) – rappresenta che, con l’atto di appello, si era doluto della valutazione fatta dal primo giudice sul rilievo che i fatti non avessero raggiunto la massima gravità possibile, che la reiterazione non poteva dirsi provata, che le valutazioni sulla capacità a delinquere e sul carattere proditorio dell’imputato non trovavano riscontro in atti.
La Corte territoriale, nel confermare il trattamento sanzionatorio inflitto in primo grado richiamando e condividendo i rilievi svolti dal tribunale, ha respinto il motivo di gravame proposto sul punto ritenendo che: i fatti erano di estrema gravità e le penetrazioni vaginali e anali, sia pur parziali, erano state incontestabilmente provate; le condotte erano state reiterate nel tempo e avevano avuto apprezzabile durata; il giudizio sulla personalità era certamente sfavorevole per aver l’imputato approfittato dell’ospitalità offertagli nell’abitazione dai genitori della bambina per violentare ripetutamente la piccola e nell’averla minacciata, anche con un coltello, per compiere i reati e ottenerne il silenzio. La sentenza impugnata esclude, poi, la sussistenza di favorevoli elementi di valutazione che consentano di ridurre la pena – e tantomeno di concedere le circostanze attenuanti generiche – negando rilievo alla mera incensuratezza ed alla partecipazione dell’imputato al processo, come pure al fatto che egli non aveva accusato la bambina ma si era limitato, secondo quanto sostenuto dallo stesso appellante, a “riportare un episodio dal quale, a suo parere, emergeva come la minore non gradisse la sua presenza in casa in assenza del padre”. Neppure poteva essere favorevolmente valutata la richiesta di perdono fatta stragiudizialmente ai genitori della bambina, non essendo stata la stessa spontanea, ma indotta dal fatto di essere stato scoperto, dovendosi per contro ritenere che, se la minore non si fosse finalmente confidata con la madre, gli abusi sarebbero continuati.
4.2. Reputa il Collegio, che le argomentazioni esposte diano logicamente conto dell’applicazione dei criteri delineati nell’art. 133 c.p. sulla gravità del reato e sulla capacità a delinquere del reo e giustifichino, pertanto, l’uso del potere discrezionale esercitato dal giudice di merito sia quanto al giudizio sull’eventuale concessione delle circostanze attenuanti generiche, sia quanto alla determinazione della pena base nel massimo edittale (peraltro coniugato ad un contenuto aumento, come pure si è rilevato, a titolo di continuazione).
Le poche, specifiche, doglianze mosse sul punto dal ricorrente sono infondate e non scalfiscono la tenuta logica delle articolate motivazioni esposte.
Ed invero:
– che le condotte non abbiano raggiunto la massima gravità possibile è un giudizio di fatto ovviamente insuscettibile di valutazione in questa sede di legittimità e va comunque rilevato come il trattamento sanzionatorio per il reato continuato – che avrebbe potuto giungere sino al triplo del massimo edittale previsto per il reato più grave, come statuito dall’art. 81 c.p. – sia rimasto ben lontano dal massimo consentito;
la doglianza circa il fatto che la richiesta di perdono dimostrerebbe una scarsa capacità a delinquere trova convincente smentita nelle riportate argomentazioni della sentenza impugnata e, comunque, si tratta di atteggiamento tenuto soltanto nell’iniziale fase preprocessuale ed immediatamente abbandonato – in modo, ovviamente, del tutto legittimo – nella successiva fase processuale, caratterizzata da una radicale negazione dei fatti, con veemenza sostenuta ancora in questa sede;
– non dirimente, alla luce della evidenziata gravità dei fatti, è lo stato di incensuratezza del ricorrente, peraltro ancor meno significativo se rapportato alla giovane età;
– del tutto generici, e sganciati rispetto alle particolarità del caso di specie, sono i richiami alla funzione rieducativa della pena.
- Il ricorso, complessivamente infondato, va pertanto rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).
Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52 che – a tutela dei diritti o della dignità degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.
Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 28 aprile 2020