Successioni, legittimazione attiva, figlio, chiamato all’eredità
Cassazione civile, sez. III, sentenza 13/06/2008 n° 16002
il recupero di un credito della madre, aveva tacitamente accettato l’eredità,
sicché la verifica della coincidenza tra il soggetto che aveva agito e
l’affermato titolare del diritto offriva un risultato positivo sulla base della stessa domanda.
Ciò alla luce del principio – che va contestualmente enunciato – secondo il quale non può ravvisarsi il difetto di legittimazione attiva del figlio che faccia giudizialmente valere un credito del genitore defunto per il solo fatto che egli non se ne affermi anche erede, in quanto il chiamato all’eredità, qual è necessariamente il figlio del defunto ai sensi dell’art. 536 c.c., agendo giudizialmente nei confronti del debitore del de cuius per il pagamento di quanto dichiaratamente al medesimo dovuto, compie un atto che, nella consapevolezza della delazione dell’eredità, “presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede”, così realizzando il paradigma normativo dell’accettazione tacita dell’eredità di cui all’art. 476 c.c., che risulta integrato quante volte la domana non rientri fra quelle che il chiamato ha il potere di proporre come tale, ai sensi dell’art. 460 c.c.
Posto, invero, che con l’atto di citazione il ricorrente A. G. si qualificò figlio della defunta L. G., il fatto stesso di aver agito in giudizio per il rendiconto ed il versamento di somme dovute alla madre defunta a seguito di atti asseritamene posti in essere dal convenuto quale mandatario con rappresentanza della stessa, aveva comportato, per il chiamato necessario, l’accettazione tacita dell’eredità, essendo irrilevante che l’attore si fosse qualificato solo come figlio, e non anche come erede della defunta, giacché aveva esercitato un’azione che, per gli affetti di cui all’art. 476 c.c., travalicava il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente all’atto dell’apertura della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse (art. 460 c.c. ) .
La sentenza impugnata è, dunque, errata in diritto laddove ha escluso la legittimazione attiva dell’attore A. G. per non aver espressamente agito nella qualità di erede, giacché per un verso egli s’era qualificato in atto di citazione come figlio della madre defunta e come tale necessariamente chiamato all’eredità, e per altro verso, agendo per il recupero di un credito della madre, aveva tacitamente accettato l’eredità, sicché la verifica della coincidenza tra il soggetto che aveva agito e l’affermato titolare del diritto offriva un risultato positivo sulla base della stessa domanda
AVVOCATO SERGIO ARMAROLI
ESPERTO SUCCESSIONI DIVISIONI EREDITARIE IMPUGNAZIONI TESTAMENTI
051 6447838
Ciò alla luce del principio – che va contestualmente enunciato – secondo il quale non può ravvisarsi il difetto di legittimazione attiva del figlio che faccia giudizialmente valere un credito del genitore defunto per il solo fatto che egli non se ne affermi anche erede, in quanto il chiamato all’eredità, qual è necessariamente il figlio del defunto ai sensi dell’art. 536 c.c., agendo giudizialmente nei confronti del debitore del de cuius per il pagamento di quanto dichiaratamente al medesimo dovuto, compie un atto che, nella consapevolezza della delazione dell’eredità, “presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede”, così realizzando il paradigma normativo dell’accettazione tacita dell’eredità di cui all’art. 476 c.c., che risulta integrato quante volte la domana non rientri fra quelle che il chiamato ha il potere di proporre come tale, ai sensi dell’art. 460 c.c.
Risulta conseguentemente assorbito il profilo di censura che fa leva sul pacifico principio secondo il quale, nell’interpretare la domanda, il giudice deve ricercare l’effettiva volontà della parte; dal quale discende quello, ulteriore, che il contraddittorio in ordine al contenuto della domanda così enucleato è correttamente integrato tutte le volte che quel contenuto appaia inequivocamente comprensibile dal destinatario della domanda in base a criteri di buona fede.
2.2. Sulla base dei rilievi svolti sub 2 è invece infondato il secondo motivo, col quale è posto un problema che consiste nello stabilire se, emessa una sentenza nei confronti di una parte defunta nel corso del processo di primo grado ma la cui morte non sia stata dichiarata dal procuratore costituito, abbia legittimazione ad impugnare per il padre il figlio, a sua volta già parte del processo di primo grado, che riproponga le stesse domande formulate in prime cure ed ometta di qualificarsi come erede, neppure dichiarando l’intervenuta morte del padre.
La risposta negativa è imposta dal rilievo che, in mancanza finanche di enunciazione dell’intervenuta morte della parte, difetta nel diverso soggetto appellante la coincidenza tra il colui che propone la domanda (nella specie A. G.) e colui che nella domanda stessa è indicato come titolare del diritto (nella specie E. G.).
Deve dunque affermarsi che l’appellante che intenda far valere in appello un diritto che nel giudizio di primo grado si appuntava in capo ad un altro soggetto e nei confronti del quale la sentenza sia stata emessa, deve dedurre di averne acquistato la legittimazione in ragione di una sopravvenuta situazione idonea a fondarla, restando altrimenti indimostrato uno dei fatti costitutivi del diritto ad impugnare (cfr. la citata Cass., n. 6132/2008, in motivazione).
Va poi, per completezza d’esame, rilevato che l’omesso riferimento nell’atto d’appello di A. G. alla sua qualità di erede di E. G. elide lo stesso presupposto dell’accettazione del contraddittorio da parte del convenuto, che evidentemente non può concernere una situazione non prospettata o prospettata (nella comparsa d’intervento in appello, dopo l’ordine di integrazione del contraddittorio) con un atto ritenuto inammissibile per tardività (con statuizione non censurata sul punto).
Correttamente, pertanto, la corte d’appello ha ritenuto che la sentenza di primo grado era passata in giudicato nei confronti di E. G..
- Col terzo motivo – col quale è dedotta violazione di norme di diritto sostanziale, in relazione all’art. 360, n. 5 (sic), c.p.c. – il ricorrente si duole che, negando la sua legittimazione ad agire quale erede della madre, la corte d’appello abbia omesso ogni pronuncia sul collegamento dell’estinzione del mandato per morte del mandante con la permanenza degli obblighi del mandatario.
3.1. Il motivo è inammissibile sia perché la denuncia di violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale non è compatibile con la prospettazione di un’ipotesi di omessa pronuncia, sia perché né l’uno né l’altro vizio sono denunciabili in riferimento all’art. 360, n. 5, c.p.c, sia perché difetta l’interesse del ricorrente a dolersi che la corte non abbia statuito su un punto che era precluso dal tipo di statuizione adottata e che restava dunque assorbito
AVVOCATO SERGIO ARMAROLI
ESPERTO SUCCESSIONI DIVISIONI EREDITARIE IMPUGNAZIONI TESTAMENTI
051 6447838
- Per le stesse ragioni è inammissibile il quarto motivo, col quale una censura analoga a quella formulata col terzo è rivolta alla sentenza per avere la corte territoriale “omesso ogni pronuncia sulla chiesta condanna del mandatario T. a rendere conti, documenti e somme in dipendenza dei mandati conferitigli da G. L. e G. E., pronunciandosi invece limitatamente all’an debeatur nei confronti di G. E.” .
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 23 maggio – 13 giugno 2008, n. 16002
(Presidente Di Nanni – Relatore Amatucci)
Svolgimento del processo
- Nel settembre del 1992 E. G., A. G. ed E. G. – qualificandosi rispettivamente come marito, figlio e sorella della defunta L. G. in G., deceduta il 29.5.1986 – convennero in giudizio M. T. chiedendo che, previo rendiconto del suo operato quale mandatario di E. G. (che con la sorella gli aveva anche conferito, nel 1981 e nel 1984 due procure per la vendita di tre immobili) e di E. G. (che gli aveva conferito, nel 1983 e nel 1985 due procure per la vendita di altri immobili), egli fosse condannato a rimettere ai mandanti le somme ricevute dagli acquirenti dei beni venduti ed a risarcire il danno che aveva loro procurato per non averlo fatto.
Il convenuto resistette, sostenendo di aver svolto unicamente le funzioni di mediatore e che, al di là del fatto di aver partecipato alla stipulazione degli atti pubblici come procuratore speciale dei mandanti, essi stessi avevano seguito le trattative e ricevuto i prezzi versati dagli acquirenti.
Con sentenza del 24.10.2001 l’adito tribunale di Alessandria dichiarò il difetto di legittimazione attiva di A. G. (per non aver conferito alcuna procura al T. e) per aver agito come figlio di E. G., senza spendere la qualità di erede della madre, e rigettò le domande degli altri due attori.
- La sentenza fu appellata da E. G. e da A. G. con atto notificato il 15.11.2002. Ordinata l’integrazione del contraddittorio nei confronti del non appellante E. G., con comparsa del 5.3.2003 intervenne A. G., in qualità di erede di E. G., deceduto nel 2000, facendo proprie le istanze avanzate dagli appellanti. Il T. resistette .
Con sentenza n. 1226 dell’8.10.2003 la corte d’appello di Torino respinse l’appello di A. G., ne dichiarò tardivo l’intervento quale unico erede di E. G. e dispose, in accoglimento dell’appello di E. G., che il processo proseguisse quanto al relativo rapporto processuale.
Ritenne, per quanto in questa sede interessa:
- a) che la sentenza di primo grado, depositata il 24.10.2001 e non notificata, non era stata impugnata da E. G. entro il termine di un anno e quarantasei giorni scadente il 10.12.2002, sicché era passata in giudicato quando (il 5.3.2003) era stato svolto l’intervento di A. G. quale erede del padre E., essendo il litisconsorzio tra E. G. ed E. G. solo facoltativo in relazione all’autonomia delle rispettive posizioni (procure distinte a vendere immobili diversi) e non avendo A. G., con l’atto d’appello del 15.11.02, appellato la sentenza come erede del padre E. G., il cui decesso era intervenuto il 27.9.2000 ma era stato reso noto solo con atto di notorietà del 19.3.2003;
- b) che A. G., il quale non aveva rilasciato alcuna procura, si era bensì qualificato figlio, ma non anche erede, di E. G., sicché era sotto ogni aspetto privo di legittimazione attiva.
- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione A. G., come erede di entrambi i genitori, affidandosi a quattro motivi.
Non ha svolto attività difensiva M. T., al quale il ricorso è stato notificato presso il procuratore, domiciliato presso la cancelleria della corte d’appello in Torino in difetto di elezione di domicilio in quel circondario.
Motivi della decisione
1.1. Il primo motivo di ricorso attiene al capo della sentenza d’appello che, condividendo sul punto la sentenza di primo grado, ha ritenuto che A. G. fosse privo di legittimazione attiva per aver agito come figlio e non come erede della madre L. G..
La sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 100, 163 c.p.c, 475, 476, 565, 459 c.c., in relazione agli artt. 360, nn. 3 e 5, c.p.c, sotto un triplice profilo:
- a) per non avere la corte d’appello considerato che, per il fatto stesso che il ricorrente aveva agito in giudizio quale figlio della madre, domandando il rendiconto relativo ad atti per il compimento dei quali da parte del convenuto non egli ma la madre aveva rilasciato procure, aveva anche, quale chiamato alla successione, posto in essere un atto di gestione incompatibile con la volontà di rinunciare all’eredità e non altrimenti giustificabile se non nella qualità di erede, così tacitamente accettando l’eredità;
- b) per aver omesso di conferire rilievo alle sintomatiche circostanze che egli stesso nella lettera del 22.6.1990 ed il suo legale nella raccomandata del 3.5.1991, spedite entrambe al convenuto T. e prodotte in atti, avevano fatto riferimento alla sua qualità di coerede della madre L. G.;
- c) per avere, in siffatto contesto, adottato una linea interpretativa della domanda improntata ad assoluto formalismo, mentre si sarebbe dovuto dare prevalenza alla ricerca della sostanziale volontà della parte, che era palesemente quella di recuperare, quale erede della madre, somme che non le erano state corrisposte.
1.2. Col secondo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione delle norme menzionate nel primo motivo, nonché dell’art. 1 della legge n. 742/69, in riferimento all’art. 3 60, n. 3, c.p.c. – il ricorrente si duole che la corte d’appello abbia ritenuto che l’atto d’appello proposto il 15.11.02 da A. G. e da E. G. non sia valso ad impedire il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nei confronti di E. G..
La corte di merito ha in proposito ritenuto che dovesse escludersi che A. G. avesse agito anche come unico erede del padre, in quanto tale qualità né era espressa nell’atto introduttivo d’appello né era desumibile dalla pretesa identità tra le domande riproposte dal medesimo e le stesse domande già proposte in prime cure da E. G., giacché in primo grado E. G. ed il figlio A. G. avevano agito come persone distinte.
A tanto il ricorrente oppone che le procure rilasciate dal padre erano diverse da quelle rilasciate dalla madre e che dunque, quanto alla domanda che afferiva alle prime, egli non avrebbe potuto agire che come erede del padre E. G., sicché in secondo grado s’era ripresentata la stessa situazione già illustrata col primo motivo; il convenuto inoltre, nulla contestando a seguito della comparsa d’intervento del 5.3.2003 nella quale A. G. era intervenuto come erede di E. G., aveva accettato il contraddittorio pur dopo l’acquisita consapevolezza della morte di E. G..
- All’esame dei due motivi è comune la premessa che la legittimazione attiva costituisce una condizione dell’azione che consiste nella titolarità del diritto potestativo di ottenere dal giudice una sentenza sul rapporto giuridico sostanziale dedotto e, dunque, di promuovere il giudizio: il suo difetto comporta l’inammissibilità della domanda in quanto, al di fuori dei casi di sostituzione processuale, non è consentito far valere in giudizio un diritto altrui; la sua ricorrenza va affermata o negata sulla base della stessa affermazione della parte e sussiste sol che vi sia coincidenza tra il soggetto che propone la domanda ed il soggetto che nella domanda stessa si afferma titolare del diritto, prima ed indipendentemente dalla verifica che davvero lo sia, giacché tale aspetto attiene al merito (cfr. da ultimo diffusamente, ex plurimis, Cass., n. 6132/2008).
Corollario ne è che il difetto di legittimazione è rilevabile d’ufficio, in quanto attinente alla regolare costituzione del contraddittorio, per cui resta del tutto ininfluente che la questione sia stata o meno sollevata dalla controparte (Cass. cit., cui adde Cass., nn. 222444/06, 13685/06, 3756/02, 226/01, 1114/01, 3299/00, 944/98, 10022/97).
2.1. Alla luce di tali premesse, il primo motivo si rivela fondato.
Posto, invero, che con l’atto di citazione il ricorrente A. G. si qualificò figlio della defunta L. G., il fatto stesso di aver agito in giudizio per il rendiconto ed il versamento di somme dovute alla madre defunta a seguito di atti asseritamene posti in essere dal convenuto quale mandatario con rappresentanza della stessa, aveva comportato, per il chiamato necessario, l’accettazione tacita dell’eredità, essendo irrilevante che l’attore si fosse qualificato solo come figlio, e non anche come erede della defunta, giacché aveva esercitato un’azione che, per gli affetti di cui all’art. 476 c.c., travalicava il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente all’atto dell’apertura della successione e la mera gestione conservativa dei beni compresi nell’asse (art. 460 c.c. ) .
La sentenza impugnata è, dunque, errata in diritto laddove ha escluso la legittimazione attiva dell’attore A. G. per non aver espressamente agito nella qualità di erede, giacché per un verso egli s’era qualificato in atto di citazione come figlio della madre defunta e come tale necessariamente chiamato all’eredità, e per altro verso, agendo per il recupero di un credito della madre, aveva tacitamente accettato l’eredità, sicché la verifica della coincidenza tra il soggetto che aveva agito e l’affermato titolare del diritto offriva un risultato positivo sulla base della stessa domanda.
Ciò alla luce del principio – che va contestualmente enunciato – secondo il quale non può ravvisarsi il difetto di legittimazione attiva del figlio che faccia giudizialmente valere un credito del genitore defunto per il solo fatto che egli non se ne affermi anche erede, in quanto il chiamato all’eredità, qual è necessariamente il figlio del defunto ai sensi dell’art. 536 c.c., agendo giudizialmente nei confronti del debitore del de cuius per il pagamento di quanto dichiaratamente al medesimo dovuto, compie un atto che, nella consapevolezza della delazione dell’eredità, “presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede”, così realizzando il paradigma normativo dell’accettazione tacita dell’eredità di cui all’art. 476 c.c., che risulta integrato quante volte la domana non rientri fra quelle che il chiamato ha il potere di proporre come tale, ai sensi dell’art. 460 c.c.[wpforms id=”21592″ title=”true” description=”true”]
Risulta conseguentemente assorbito il profilo di censura che fa leva sul pacifico principio secondo il quale, nell’interpretare la domanda, il giudice deve ricercare l’effettiva volontà della parte; dal quale discende quello, ulteriore, che il contraddittorio in ordine al contenuto della domanda così enucleato è correttamente integrato tutte le volte che quel contenuto appaia inequivocamente comprensibile dal destinatario della domanda in base a criteri di buona fede
AVVOCATO SERGIO ARMAROLI
ESPERTO SUCCESSIONI DIVISIONI EREDITARIE IMPUGNAZIONI TESTAMENTI
051 6447838
2.2. Sulla base dei rilievi svolti sub 2 è invece infondato il secondo motivo, col quale è posto un problema che consiste nello stabilire se, emessa una sentenza nei confronti di una parte defunta nel corso del processo di primo grado ma la cui morte non sia stata dichiarata dal procuratore costituito, abbia legittimazione ad impugnare per il padre il figlio, a sua volta già parte del processo di primo grado, che riproponga le stesse domande formulate in prime cure ed ometta di qualificarsi come erede, neppure dichiarando l’intervenuta morte del padre.
La risposta negativa è imposta dal rilievo che, in mancanza finanche di enunciazione dell’intervenuta morte della parte, difetta nel diverso soggetto appellante la coincidenza tra il colui che propone la domanda (nella specie A. G.) e colui che nella domanda stessa è indicato come titolare del diritto (nella specie E. G.).
Deve dunque affermarsi che l’appellante che intenda far valere in appello un diritto che nel giudizio di primo grado si appuntava in capo ad un altro soggetto e nei confronti del quale la sentenza sia stata emessa, deve dedurre di averne acquistato la legittimazione in ragione di una sopravvenuta situazione idonea a fondarla, restando altrimenti indimostrato uno dei fatti costitutivi del diritto ad impugnare (cfr. la citata Cass., n. 6132/2008, in motivazione).
Va poi, per completezza d’esame, rilevato che l’omesso riferimento nell’atto d’appello di A. G. alla sua qualità di erede di E. G. elide lo stesso presupposto dell’accettazione del contraddittorio da parte del convenuto, che evidentemente non può concernere una situazione non prospettata o prospettata (nella comparsa d’intervento in appello, dopo l’ordine di integrazione del contraddittorio) con un atto ritenuto inammissibile per tardività (con statuizione non censurata sul punto).
Correttamente, pertanto, la corte d’appello ha ritenuto che la sentenza di primo grado era passata in giudicato nei confronti di E. G..
- Col terzo motivo – col quale è dedotta violazione di norme di diritto sostanziale, in relazione all’art. 360, n. 5 (sic), c.p.c. – il ricorrente si duole che, negando la sua legittimazione ad agire quale erede della madre, la corte d’appello abbia omesso ogni pronuncia sul collegamento dell’estinzione del mandato per morte del mandante con la permanenza degli obblighi del mandatario.
3.1. Il motivo è inammissibile sia perché la denuncia di violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale non è compatibile con la prospettazione di un’ipotesi di omessa pronuncia, sia perché né l’uno né l’altro vizio sono denunciabili in riferimento all’art. 360, n. 5, c.p.c, sia perché difetta l’interesse del ricorrente a dolersi che la corte non abbia statuito su un punto che era precluso dal tipo di statuizione adottata e che restava dunque assorbito.
- Per le stesse ragioni è inammissibile il quarto motivo, col quale una censura analoga a quella formulata col terzo è rivolta alla sentenza per avere la corte territoriale “omesso ogni pronuncia sulla chiesta condanna del mandatario T. a rendere conti, documenti e somme in dipendenza dei mandati conferitigli da G. L. e G. E., pronunciandosi invece limitatamente all’an debeatur nei confronti di G. E.” .
- Conclusivamente, accolto il primo motivo e respinti gli altri, la sentenza va cassata con rinvio alla stessa corte d’appello in diversa composizione, perché si pronunci sull’appello nella parte afferente alla posizione di A. G. come erede di L. G. e regoli anche le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione accoglie il primo motivo e rigetta gli altri, cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Torino in diversa composizione.