RIMINI TRIBUNALE DIAGNOSI MALASANITA’ PERDITA CHANCE

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RIMINI TRIBUNALE DIAGNOSI MALASANITA’ PERDITA CHANCE

ritardo nella diagnosi della patologia tumorale

un tempestivo e corretto inquadramento diagnostico-terapeutico costituito da un precoce intervento chirurgico di isteroannessioctomia, avrebbe certamente limitato la possibilità di una eventuale diffusione metastatica della neoplasia, risparmiando alla paziente la sopraggiunta necessità di subire impegnativi interventi di chirurgia toracica e di sottoporsi ad elevate dosi di radioterapia, ma, soprattutto, garantendo maggiore concrete chances di sopravvivenza e, quanto meno, un percorso terapeutico assai meno impegnativo”. In altre parole, l’evento dannoso allegato consiste nella perdita di possibilità maggiori di remissione completa della malattia tumorale e, quindi, nella perdita di chance di una maggiore quantità e qualità di vita. RISOLVI ORA IL TUO DANNO D A MALASANITA’ .

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OMESSO IL MONITORAGGIO POST INTERVENTO: COLPEVOLE IL CHIRURGO

 

Il medico non può limitarsi alla sola esecuzione dell’operazione. Necessario che egli segua il paziente anche nelle fasi successive

Omesso il monitoraggio post intervento: colpevole il chirurgo

Colpevole il medico che si limita all’esecuzione dell’operazione chirurgica, senza provvedere a fornire al paziente le necessarie informazioni per un successivo, indispensabile monitoraggio. Nel caso preso in esame dai giudici i riflettori sono puntati sulla morte di un uomo affetto da melanoma. Il decesso è addebitato al medico che ha eseguito l’operazione per la rimozione del melanoma – che era al primo stadio e quindi consentiva di ipotizzare fortissime probabilità di guarigione – ma non ha provveduto al necessario monitoraggio, che, invece, se eseguito, avrebbe potuto consentire di individuare le sopravvenute metastasi linfonodali ascellari in stato iniziale, in una fase curabile con maggiore efficacia, aumentando in modo significativo le possibilità di sopravvivenza del paziente. Se il medico non avesse dimenticato il monitoraggio del paziente, quest’ultimo avrebbe avuto maggiori possibilità di evitare la morte. I giudici sottolineano che l’attività del medico non può essere limitata all’operazione chirurgica affidatagli, ma deve ritenersi estesa, in coerenza con l’esigenza di tutela della salute del paziente, alle informazioni per il doveroso monitoraggio. (Sentenza 13509 del 29 aprile 2022 della Corte di Cassazione)

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un tempestivo e corretto inquadramento diagnostico-terapeutico costituito da un precoce intervento chirurgico di isteroannessioctomia, avrebbe certamente limitato la possibilità di una eventuale diffusione metastatica della neoplasia, risparmiando alla paziente la sopraggiunta necessità di subire impegnativi interventi di chirurgia toracica e di sottoporsi ad elevate dosi di radioterapia, ma, soprattutto, garantendo maggiore concrete chances di sopravvivenza e, quanto meno, un percorso terapeutico assai meno impegnativo”. In altre parole, l’evento dannoso allegato consiste nella perdita di possibilità maggiori di remissione completa della malattia tumorale e, quindi, nella perdita di chance di una maggiore quantità e qualità di vita.

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L’inadempimento (o l’inesatto adempimento) delle prestazioni dovute implica, pertanto, la responsabilità (diretta e autonoma)
della struttura per i danni conseguenti, secondo lo schema dell’art. 1218 c.c., al pari di ogni responsabilità che scaturisce dall’inadempimento di obbligazioni derivanti da «altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento» (art. 1173 c.c.). Da tali considerazioni discende che, laddove – come in questo caso – il danneggiato agisca in giudizio nei confronti della sola struttura sanitaria (e non anche del medico), non assume alcun rilievo la previsione dell’art. 3, I co., della legge sopra richiamata, che si riferisce esclusivamente all’esercente la professione sanitaria.

Secondo Cassazione civile sez. VI, 26/05/2021, n.14453 È insufficiente a giustificare il diniego della risarcibilità del danno non patrimoniale da fatto-reato la sola constatazione che esso non abbia leso l’integrità psicofisica del danneggiato,

È insufficiente a giustificare il diniego della risarcibilità del danno non patrimoniale da fatto-reato la sola constatazione che esso non abbia leso l’integrità psicofisica del danneggiato, occorrendo anche valutare se comunque esso abbia leso interessi della persona tutelati dall’ordinamento diversi da quello all’integrità psico-fisica, ancorché privi di rilevanza costituzionale, quale ben può essere quello al corretto adempimento dei compiti istituzionali affidati al funzionario pubblico ove posti a diretto servizio dell’utenza.

(Nella specie, un uomo aveva chiesto il risarcimento del danno morale alla guardia medica che rifiutò la richiesta di visita domiciliare, nonostante i riferiti sintomi di un malore, che successivamente risultò un infarto al miocardio risoltosi positivamente).

 

Secondo Corte appello Genova sez. II, 21/05/2021, n.559 Nell’ambito della responsabilità professionale sanitaria, la previsione dell’art. 1218 c.c. solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore,ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento; chi invoca il risarcimento, pertanto, deve sempre dimostrare che il peggioramento dello stato di salute del paziente sia dipeso dalla condotta dei sanitari.

 

Secondo Tribunale L’Aquila sez. I, 12/05/2021, n.335 Sulla responsabilità sanitaria, il nesso causale fra il comportamento del sanitario ed il danno subito dal paziente è configurabile qualora, attraverso un criterio eminentemente probabilistico, si accerti che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe evitato il danno. In sostanza è necessario accertare che il comportamento diligente e perito del sanitario avrebbe prevenuto o eliso le conseguenze dannose concretamente verificatesi, secondo un criterio di probabilità non meramente statistica, ma di natura logico – razionale.

Al contrario, sussiste il nesso causale tra la condotta colposa del sanitario e l’evento lesivo qualora si accerti che se fosse stata tenuta la condotta diligente, prudente e perita da parte del medico, l’evento dannoso non si sarebbe verificato.

Secondo Cassazione penale sez. IV, 29/04/2021, n.18347

Per i termini prescrizione della prescrizione per lesioni personali colpose Nel reato di lesioni personali colpose provocate da responsabilità medica la prescrizione inizia a decorrere dal momento di insorgenza della malattia in fieri, anche se non ancora stabilizzata in termini di irreversibilità o di impedimento permanente.

Cassazione penale sez. IV, 29/04/2021, n.18347

Secondo Tribunale Perugia sez. I, 12/04/2021, n.558

  Circa  l’onere probatorio nella responsabilità medica nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere del paziente danneggiato provare un inadempimento qualificato del medico, ossia una condotta inadempiente astrattamente efficiente alla produzione del danno. In particolare, il paziente deve dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio penalistico del “più probabile che non”, causa del danno: ciò comporta che non basta riferire semplicemente il mancato raggiungimento dell’esito voluto oppure allegare l’aggravamento delle condizioni di salute, ma bisogna dimostrare che gli eventi lamentati discendano, secondo un criterio di regolarità causale, dalla condotta colposa del sanitario.

 

 

Secondo una importante sentenza Corte appello Napoli sez. VIII, 12/04/2021, n.13 il danno morale patito dai genitoriAi fini della sussistenza del danno non patrimoniale (danno morale) patito dai genitori per le conseguenze del trattamento sanitario cui il figlio neonato è stato sottoposto, devono essere prese in considerazione, accertata la responsabilità medica, la giovane età dei genitori, la tenerissima età del bambino e la presenza di altri figli minori nel nucleo familiare. Tali condizioni, ragionevolmente consentono di far nascere nei genitori sentimenti di profonda prostrazione ed angoscia nell’apprendere delle precarie condizioni di salute del figlio e dell’esito incerto della condizione patologica con la prospettiva di una vita penosa per il bambino con possibili conseguenze su tutto il nucleo familiare. Il patema d’animo sofferto dai genitori, può ragionevolmente ritenersi cessato solo in concomitanza del completo recupero delle condizioni di salute del bambino.

L’omessa diagnosi delle malformazioni del feto Cassazione civile sez. III, 16/03/2021, n.7385

 

In tema di responsabilità medica, l’omessa diagnosi delle malformazioni del feto determina la lesione del diritto all’autodeterminazione procreativa della gestante consistente non solo nella opportunità di valutare se interrompere o meno la gravidanza, ma altresì nella possibilità di prepararsi, psicologicamente e materialmente, alla nascita di un bambino affetto da gravi patologie e pertanto necessitante di particolare accudimento.

Secondo Cassazione penale sez. IV, 04/03/2021, n.11719 In tema di responsabilità medica relativa alle conseguenze di un intervento chirurgico, il giudice deve valutare, anche ai fini del giudizio sul rispetto o meno delle linee guida o delle buone pratiche, la complessiva condotta del medico correlata all’intervento oggetto di addebito, comprese le attività di controllo post operatorio. (In applicazione di tale principio la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che aveva dichiarato non punibile, ai sensi dell’art. 3 del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, il reato di lesioni colpose in relazione ad un intervento di interruzione della gravidanza, in quanto il giudice di merito aveva valutato l’aderenza del comportamento dell’imputato alle linee guida soltanto con riguardo alla stretta fase dell’intervento e non anche a quelle del cd. “curettage” della cavità intrauterina e della successiva visita di controllo).

Secondo la cassazione su accertamenti tecnici non ripetibili Cassazione penale sez. IV, 28/01/2021, n.20093

 

In tema di accertamento tecnico non ripetibile, gli avvisi di cui all’art. 360, comma 1, c.p.p., sono dovuti solo in presenza di consistenti sospetti di reato, sia sotto il profilo oggettivo che in ordine alla sua attribuibilità.

(In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto utilizzabile, in un processo per omicidio colposo da responsabilità medica, l’esame autoptico eseguito senza previo avviso al difensore del ricorrente, in quanto gli indizi a suo carico erano emersi solo a seguito dell’espletamento dell’accertamento tecnico).

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Al di là, infatti, delle recenti pronunce della Corte di Cassazione in senso contrario (si vedano Cass., n. 4030/13 e ord. n. 8940/14, a mente della quale “l’articolo 3, comma 1, della legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792/2013)”), si osserva che la norma in esame non pare concernere la responsabilità della struttura sanitaria (sia essa pubblica, convenzionata o privata), la quale, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione (espressosi, tra le altre, nelle sentenze rese a Sezioni unite, n. 9556/02 e n. 577/08) può sempre essere ricondotta alla responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c., scaturendo da(ll’inadempimento di) un contratto atipico (c.d. di “spedalità”) concluso con l’accettazione del paziente presso la struttura, in virtù del quale quest’ultima è tenuta ad adempiere sia prestazioni (principali) di carattere sanitario, sia prestazioni (accessorie) di altro tipo, attraverso il personale medico ed ausiliario legato alla struttura da un rapporto di lavoro subordinato o da un distinto contratto. Per le strutture sanitarie inserite nel S.S.N. (quale quella parte della presente causa) l’obbligo di prestare l’assistenza sanitaria potrebbe discendere dalla stessa legge n. 833/78 (istitutiva del servizio sanitario nazionale). L’inadempimento (o l’inesatto adempimento) delle prestazioni dovute implica, pertanto, la responsabilità (diretta e autonoma)
della struttura per i danni conseguenti, secondo lo schema dell’art. 1218 c.c., al pari di ogni responsabilità che scaturisce dall’inadempimento di obbligazioni derivanti da «altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento» (art. 1173 c.c.). Da tali considerazioni discende che, laddove – come in questo caso – il danneggiato agisca in giudizio nei confronti della sola struttura sanitaria (e non anche del medico), non assume alcun rilievo la previsione dell’art. 3, I co., della legge sopra richiamata, che si riferisce esclusivamente all’esercente la professione sanitaria.



6. La prima voce di pregiudizio invocata dall’attrice (e, oggi, iure hereditatis dai suoi familiari) è il danno da perdita di chance di una più lunga (e qualitativamente migliore) sopravvivenza. In realtà – come già s’è accennato alla fine del primo paragrafo – l’attrice aveva prospettato nell’atto di citazione due tipologie di danno da perdita di chance, a ben vedere logicamente contraddittorie. Affermando che “un tempestivo trattamento [le] avrebbe consentito (..)
possibilità sicuramente maggiori di remissione completa della malattia tumorale”, l’attrice appariva riferire la chance alla guarigione. Ciò – ipotizzando come tenuto il comportamento omesso, e favorevolmente concretizzata la chance nel “bene della vita finale” – equivale a dire, da un lato, che alla tempestiva diagnosi (e cura) del tumore sarebbe conseguita la scomparsa dello stesso; e, specularmente, che l’omissione diagnostica (rectius, il ritardo) aveva – in definitiva – causato la ricomparsa del tumore. Tale prospettazione, in effetti, sembrerebbe trovare pendant nella domanda spiegata dai familiari della G in seno all’atto di intervento nel processo, successivo alla morte di costei. I signori B, richiedendo il risarcimento del danno da c.d. perdita del rapporto parentale (con esplicito richiamo, in ordine alla quantificazione del risarcimento, agli importi contemplati dalla Tabella di Milano), mostravano infatti – inequivocabilmente – di ritenere che il ritardo nella diagnosi della patologia tumorale aveva determinato, in ultima analisi, la morte della propria moglie e madre. Tanto che, descrivendo il pregiudizio invocato, essi asserivano che “la sopravvenuta morte della signora G ed il lungo e travagliato periodo di sopravvivenza della stessa hanno determinato un vero e proprio sconvolgimento della vita degli istanti (..)” (pag. 7 della comparsa di intervento). In una seconda “declinazione”, la chance viene, invece, correlata alla maggiore lunghezza e migliore qualità del periodo di sopravvivenza: ciò che implica – all’evidenza – l’esclusione di un rapporto eziologico tra l’omissione e la morte. Il ragionamento può esplicitarsi nei seguenti termini: posto che il decesso (dovuto al carcinoma) non si sarebbe potuto evitare neppure se il tumore fosse stato diagnosticato tempestivamente, il ritardo nella diagnosi (e nella successiva attivazione della terapia) cagionò un peggioramento delle condizioni di vita della paziente, per il tempo che le restava da vivere, e/o un accorciamento del periodo di sopravvivenza. Pur a fronte delle contrarie dichiarazioni del procuratore degli attori, in sede di discussione orale della causa, non può farsi a meno di sottolineare il contegno processuale di questi ultimi i quali, nelle note conclusive, hanno fatto riferimento unicamente alla “maggior quantità e qualità di vita”, di cui la G avrebbe potuto godere “in ipotesi di tempestivo intervento” (pag. 6), non facendo alcun cenno (né nel corpo dell’atto, né nelle conclusioni finali) al danno patito iure proprio per la perdita della moglie/madre. In ogni caso, ammesso che ciò fosse stato consapevolmente affermato dagli attori, dalla consulenza tecnica è emerso inequivocabilmente che la morte della sig.ra G non è stata causata dalla tardiva diagnosi del tumore, dal momento che una diagnosi più tempestiva non avrebbe potuto in alcun modo evitarla (né – come si vedrà – si può dire che avrebbe potuto posticiparla con consistente probabilità).



7. Oltre al danno da perdita di chance di più lunga (o “migliore”) sopravvivenza, gli attori hanno prospettato un danno biologico della de cuius, quantificato nell’atto di citazione nella percentuale del 15% di invalidità permanente, oltre a complessivi 210 giorni di invalidità temporanea (120 totale, e 90 parziale). Si legge, a tal proposito, a pag. 4 delle note conclusive depositate dagli attori: “l’intervento, effettuato in Aprile 2008 e non già nel precedente Settembre, è risultato, data l’estensione della massa tumorale sviluppata nel corso dei mesi, ben più demolitorio, comportando un danno biologico del 15% (asportazione di utero ed ovaie) e un danno temporaneo pari a 120 giorni di inabilità totale e 90 di inabilità parziale, considerati i successivi ricoveri dovuti alla ripresentazione del tumore”. Non è chiaro donde gli attori traggano la conclusione della natura “ben più demolitoria” dell’intervento, posto che nell’atto introduttivo del processo si erano limitati a formulare una mera ipotesi in tal senso (“l’intervento chirurgico, ove eseguito con immediatezza, avrebbe potuto essere anche meno demolitorio”: pag. 7); ipotesi che, peraltro, è rimasta smentita dalle risultanze della consulenza tecnica svolta in corso di causa dal dr. Gian Luca Moroni. A pag. 10 della relazione di quest’ultimo si legge, infatti: “il trattamento del tumore primitivo è stato corretto e di solito in questi casi non ha esiti invalidanti; (..) una diagnosi più precoce non avrebbe evitato un trattamento radioterapico post-operatorio né modificato la tecnica chirurgica effettuata”. Non è esplicitato (né dagli attori, né dalla loro consulenza di parte prodotta sub doc. 18), inoltre, se il danno biologico in discorso fosse stato (doverosamente) rapportato, in misura “differenziale”, alla menomazione che sarebbe comunque conseguita, a carico della G, per effetto dell’intervento (asseritamente “meno demolitivo”, ma pur sempre necessitato) che avrebbe dovuto subire alcuni mesi prima. Senza dire che pare esservi contraddizione tra l’affermazione di un danno (“certo”) alla salute, patito per effetto di un intervento chirurgico ritardato, e la prospettazione solo eventuale (per l’appunto, in termini di chance) di una migliore “condizione di vita” per l’ipotesi in cui tale intervento fosse stato eseguito prima. Tale voce di danno non può, pertanto, essere riconosciuta.

8. Venendo a trattare il danno da perdita di chance in senso stretto, s’impongono alcune considerazioni di ordine generale, sulla natura di tale voce di danno e sul suo rapporto con l’elemento della fattispecie di responsabilità, rappresentato dal nesso causale. Siamo al cospetto di una figura di matrice giurisprudenziale, nata in ambito “lavoristico” e successivamente sviluppatasi, prevalentemente, in quello della responsabilità professionale (soprattutto dell’avvocato e, per quanto in questa sede interessa, del medico). L’operazione teorica su cui s’impernia consiste essenzialmente nella elevazione della possibilità di consecuzione dell’utilità futura a bene giuridico “attuale”, dalla cui lesione/compromissione scaturisce il diritto al risarcimento del danno. La chance, si dice, è un’entità patrimoniale a sé stante, autonoma rispetto ad un risultato (il bene giuridico finale) che non v’è alcuna certezza si realizzerà. Come tale, la chance, nel momento in cui l’evento dannoso si verifica, è (di già) presente nella sfera giuridica del danneggiato. Per evitare, tuttavia, che la “regressione” verso coefficienti di probabilità molto bassi schiudesse le porte al risarcimento di danni obiettivamente incerti, la Corte di Cassazione, nella seconda pronuncia intervenuta sul tema (la prima era stata la sentenza n. 6906 del 1983), ebbe cura di affermare che “in tema di procedure di concorso costituisce fonte di risarcimento del danno il comportamento del datore di lavoro che escluda illegittimamente il lavoratore aspirante al posto dalla partecipazione alle prove del concorso ove determini la perdita della possibilità di conseguire il superamento della selezione, possibilità che deve essere provata dal lavoratore e va valutata secondo criteri di verosimiglianza alla stregua dell’id quod plerumque accidit in relazione alla percentuale di probabilità superiore a quella relativa all’evento sfavorevole, costituito dal mancato superamento della selezione stessa; l’ammontare del danno, che costituisce danno emergente, va commisurato non alla perdita del risultato(ossia alle retribuzioni che avrebbe percepito il lavoratore in caso di assunzione), bensì alla mera possibilità di conseguirlo, da determinare in base alle dette retribuzioni ma con un coefficiente di riduzione delle stesse, ovvero facendo ricorso alla liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c.”. Si richiedeva, dunque, che la chance esprimesse una probabilità di conseguimento del risultato superiore al 50%. Ma di fronte all’obiezione che, in tal modo, si facevano refluire sul “giudizio di spettanza” (l’an debeatur) problemi afferenti al successivo momento della liquidazione del danno (quantum debeatur), la Suprema Corte prese a sostenere che “nell’ipotesi di inadempimento del datore di lavoro che abbia comportato la perdita della “chance” di promozione, il danno risarcibile al lavoratore va ragguagliato alla probabilità di conseguire il risultato utile – al qual fine è sufficiente la ragionevole certezza dell’esistenza di una non trascurabile probabilità favorevole (non necessariamente superiore al cinquanta per cento) – e può essere determinato applicando al parametro costituito dalle retribuzioni che sarebbero spettate in caso di promozione un coefficiente di riduzione che tenga conto di quella probabilità, oppure, ove questo o altro criterio risulti di difficile utilizzazione, ricorrendo alla valutazione equitativa, la quale esige una congrua ed adeguata motivazione, che non può esaurirsi nell’apodittica e tautologica affermazione della giustezza od equità della determinazione adottata” (Cass., n. 4725/93). Non sfuggirà – già ad un esame sommario – il cortocircuito logico che si annida nell’espressione “ragionevole certezza dell’esistenza di una non trascurabile probabilità favorevole”. In ogni caso, a voler essere conseguenti con le premesse, la configurazione in tal guisa della chance non tollera, sul piano logico, alcuna “franchigia” risarcitoria. E invero, se la chance è un bene suscettibile di valutazione economica, tale resta indipendentemente dal valore che, volta a volta, essa venga ad assumere in concreto: questo rileverà soltanto in ordine alla determinazione del quantum del danno. Se si è in presenza di un danno emergente, l’incertezza in ordine al raggiungimento del risultato finale, per quanto consistente possa essere, non dovrebbe escludere il risarcimento, sibbene incidere unicamente sulla sua quantificazione, da rapportarsi alla percentuale (financo infinitesimale) che esprime la probabilità (in tal senso sembra opinare Cass., n. 15759/01, secondo cui, “in tema di responsabilità professionale (nella specie, di un dottore commercialista), la negligenza del professionista che abbia causato al cliente la perdita della “chance” di intraprendere o di proseguire una lite in sede giudiziaria determina un danno per il quale non può, di regola, porsi alcun problema di accertamento sotto il profilo dell'”an” – una volta accertato l’inadempimento contrattuale sotto il profilo della ragionevole probabilità che la situazione lamentata avrebbe subito, per il cliente, una diversa e più favorevole evoluzione con l’uso dell’ordinaria diligenza professionale -, ma solo, eventualmente, sotto quello del “quantum”, dovendo tale danno liquidarsi in ragione di un criterio prognostico basato sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili, ed assumendo, come parametro di valutazione, il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo (deducibile, quest’ultimo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta), ovvero ricorrendo a criteri equitativi ex art. 1226 cod. civ.”). È perciò arduo conciliare tale ricostruzione con le statuizioni giurisprudenziali che richiedono che la chance, per assurgere al rango della risarcibilità, abbia una qualche consistenza, e non sia quindi irrisoria (Cass., n. 10748/96, sempre in tema di progressioni di carriera, richiede la prova che il lavoratore “avrebbe avuto possibilità non distanti da quelle degli altri aspiranti positivamente valutati”; Cass., n. 8468/00 parla di “ragionevoli probabilità di ottenere un risultato utile”; Cass., n. 14074/00 di “perdita di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato utile”).

9. Si allinea al filone inaugurato in materia “concorsuale” anche la sentenza che segna il debutto (nella giurisprudenza di legittimità) del danno da perdita di chance nel “sotto-sistema” della responsabilità sanitaria (Cass., n. 4400/04). Pur non vagliando nel merito la fattispecie (atteso che l’attore non aveva formulato una specifica domanda in tal senso), la Cassazione afferma, in primo luogo, che “in una situazione in cui è certo che il medico ha dato alla patologia sottopostagli una risposta errata o in ogni caso inadeguata, è possibile affermare che, in presenza di fattori di rischio, detta carenza (che integra l’inadempimento della prestazione sanitaria) aggrava la possibilità che l’esito negativo si produca”; ribadendo, di poi, che “la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale”. Il rischio di sovrapposizioni concettuali è legato al fatto che la chance implica, per così dire, ontologicamente un riferimento alle probabilità di realizzazione del risultato finale, per cui appare distonico rispetto al sistema affermare la risarcibilità di ciò che si accerta avere scarse (o scarsissime) probabilità di verificazione. Nel campo del danno non patrimoniale, assume un rilievo anche il requisito della c.d. serietà del pregiudizio, elevato dalle sentenze delle Sezioni unite della Cassazione dell’11 novembre 2008 a presupposto di risarcibilità di tale tipo di pregiudizio, in ossequio ai principi di tolleranza e di solidarietà nei rapporti tra consociati.

10. Ma il terreno sul quale la nozione giuridica di chance entra in crisi è quello del nesso di causa.



Invero, la selezione delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili avviene, sotto l’egida dell’art. 1223 c.c. (richiamato, per la responsabilità extracontrattuale, dall’art. 2056 c.c.), in virtù di quello che viene usualmente denominato rapporto di “causalità giuridica”. Scomponendo la fattispecie nei tre elementi del fatto illecito, dell’evento lesivo e delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi nella sfera giuridica del danneggiato, si suole, infatti, distinguere il rapporto di causalità “materiale” (che lega i primi due tra gli elementi suddetti) da quello di causalità “giuridica” (che avvince il secondo al terzo). Il nesso di causalità materiale esprime una regola interna alla fattispecie (che contribuisce a delineare il fatto illecito, imputandolo al suo agente); quello di causalità giuridica vale, invece, a collegare la fattispecie ai suoi effetti, connotandone la rilevanza giuridica sub specie di danni risarcibili. La chance si pone quale anello intermedio della catena: la sua compromissione rappresenta l’evento lesivo, originato dal fatto illecito (o dall’inadempimento), che a sua volta determina il manifestarsi di conseguenze pregiudizievoli (patrimoniali o non patrimoniali) nella sfera giuridica della vittima. Come noto, nella c.d. sentenza Franzese (del 10.7.2002), le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione avevano adottato, in merito al nesso causale, il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale, affermando che “non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza probatoria disponibile”. A partire dalla fondamentale sentenza n. 21619 del 2007, la Cassazione civile si discostò da tale modello, per rimanere coerente con i peculiari principi (civilistici) dell’atipicità dell’illecito, dell’ingiustizia del danno, della centralità della figura del danneggiato, e del rilievo che l’aumento del rischio assume nell’illecito civile: “il sottosistema della responsabilità civile diventa, così, un satellite sperimentale di ingegneria sociale (che si allontana definitivamente dall’orbita dello speculare sottosistema penalistico)”. La pronuncia (relativa proprio ad una fattispecie di responsabilità medica) prospettava una sorta di scala discendente, che dalla “quasi certezza” penalistica muove verso la “causalità civile ordinaria”, attestata “sul versante della probabilità relativa (o “variabile”), caratterizzata (..) dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale” (la regola del “più probabile che non”); per approdare infine alla causalità da perdita di chance, “attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute”. La “regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”” venne poi definitivamente consacrata dalla Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 567/08. L’interferenza tra chance e causalità si apprezza, dunque, sul terreno della probabilità, che da un lato sostanzia “ontologicamente” la chance, e dall’altro esprime il parametro di riferimento elettivo per l’accertamento del nesso causale (“più probabile che non”). Ma come si combinano queste due declinazioni della probabilità nella ricostruzione della fattispecie di responsabilità? Se un determinato grado di probabilità nella consecuzione degli eventi non venga ritenuto, in concreto, sufficiente per istituire un nesso causale giuridicamente rilevante, la conseguenza obbligata dovrebbe essere l’impossibilità di riconoscere un danno risarcibile. Non si potrebbe sfuggire, insomma, dalla logica binaria del “tutto o niente”. Invece, quella misura inferiore di probabilità viene “recuperata”, sul terreno della perdita di chance, per attribuire comunque alla vittima un risarcimento (che generalmente riproduce, nel quantum, tale misura probabilistica).

Emblematica delle incertezze che vigono nella materia è proprio la pronuncia della Cassazione del 2007 (sopra citata). Un subacqueo era dovuto risalire troppo rapidamente in superficie per il cattivo funzionamento della bombola d’ossigeno, restando vittima di un’embolia gassosa. Per negligenza del medico di guardia che per primo lo aveva visitato, l’attore era stato condotto nella camera iperbarica con circa sei ore di ritardo, riportando, infine, un’invalidità permanente del 60%. La Corte di Appello, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva opinato nel senso che il ritardo nel trattamento, se pur non potesse considerarsi causa del danno biologico permanente riportato dalla vittima, aveva determinato una perdita di chance di un esito diverso (nell’an e nel quantum) della malattia. E, sebbene non fosse possibile quantificare l’entità di tale chance (secondo le conclusioni dei consulenti tecnici), aveva liquidato il danno nel 50% del controvalore di quello corrispondente alla percentuale di invalidità riportata. La Cassazione, pur non entrando nel merito del criterio utilizzato per la liquidazione, corresse la motivazione della sentenza impugnata, rilevando che “il giudice del merito [aveva] mostra[to] chiaramente di ritenere (..) “più probabile che non” l’esistenza del nesso di causa tra il comportamento omissivo del sanitario e le lesioni subite dal[l’attore]”. La singolarità sta nel fatto che, dopo avere prospettato teoricamente la “causalità da perdita di chance” come distinta da quella fondata sul “più probabile che non”; e sulla base della mera prospettazione dell’esistenza di probabilità di un esito diverso (espressamente dichiarate non quantificabili dai giudici di merito), la Corte arrivò a istituire un nesso causale tout court rispetto al pregiudizio dedotto in giudizio dall’attore, così implicitamente riconoscendogli il diritto a pretendere il risarcimento per l’intero danno patito

Tribunale di Rimini

Sezione Civile

Sentenza 4 novembre 2016

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di RIMINI

Sezione Unica CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Luigi La Battaglia ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c.

la seguente

SENTENZA


nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 4316/2012 promossa da:

B., con il patrocinio dell’avv. GAETANO GRIECO; elettivamente domiciliati presso lo studio dell’avv. A. GRASSI, in via XXII Giugno n. 11, Rimini;

ATTORI

contro

AUSL – RIMINI (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. BOCCARDI ERCOLE e BOCCARDI MONICA, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Corso D’Augusto n.14, Rimini;

CONVENUTA

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza del 25.10.2016.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione


1. Il presente processo era stato inizialmente instaurato da G., con domanda risarcitoria per i danni (patrimoniali e non patrimoniali) subiti. A seguito del decesso della medesima (avvenuto in data 15.12.2012), il processo veniva interrotto (all’udienza ex art. 183 c.p.c.), per essere quindi riassunto dai suoi eredi (il marito ed i cinque figli) con ricorso ex art. 302 c.p.c., depositato in cancelleria il 2.7.2013. Successivamente (precisamente in data 23.10.2013), gli stessi eredi depositavano una comparsa di intervento volontario, nella quale avanzavano una domanda di risarcimento del danno (non patrimoniale) da perdita del rapporto parentale. Affermavano, in particolare, che “la sopravvenuta morte della signora G. ed il lungo e travagliato periodo di sopravvivenza della stessa [avevano] determinato un vero e proprio sconvolgimento della vita degli istanti, in quanto la de cuius era persona estremamente dinamica e costituiva un concreto puntuale centro di riferimento per tutte le esigenze dell’intero nucleo familiare di tipo tradizionale, molto unito” (pag. 7 della comparsa di intervento). Concludevano, quindi, nel senso di “condannare l’AUSL di Rimini al risarcimento di ogni danno, patrimoniale e non patrimoniale, jure proprio e jure successionis, patito dagli odierni istanti nelle misure richieste o in quelle che risulteranno di giustizia, oltre rivalutazione ed interessi dall’evento al soddisfo”.

2. Sotto il profilo processuale, l’intervento volontario spiegato dai signori B non può considerarsi ammissibile, difettando la condizione di “terzietà” rispetto alle parti della causa. Essi, proseguendo il processo ai sensi dell’art. 110 c.p.c., ne sono infatti divenuti parti a tutti gli effetti; né rileva la spendita, nell’atto di intervento, della diversa qualità di “congiunti”, trattandosi pur sempre dei medesimi soggetti che hanno agito in nome proprio, e nei confronti dei quali si produrranno gli effetti della presente sentenza. Si deve ritenere, quindi, che mediante la comparsa depositata il 23.10.2013, gli attori abbiano veicolato nel processo un’altra domanda (diversa ed ulteriore rispetto a quella avanzata dalla G nell’atto di citazione), il cui fatto costitutivo (vale a dire la morte della loro congiunta) si è verificato nel corso del processo medesimo. Da tale angolo visuale, una volta “riqualificato” in tal guisa l’atto di “intervento”, la domanda in discorso può ritenersi ammissibile, alla luce del recente orientamento delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, secondo cui “la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (“petitum” e “causa petendi”), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali” (Cass., s. u., n. 12310/15). Nel caso di specie, la richiesta di risarcimento dei danni patiti iure proprio è stata formulata prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c., consentendo pertanto alla controparte ampi margini di difesa (all’udienza medesima, e poi nelle memorie ex art. 183, VI co., c.p.c.). Del resto, anche a volere ipotizzare che gli attori fossero decaduti dal potere di proporre quella domanda, nell’ottica dell’art. 153 c.p.c. parrebbero comunque sussistere i presupposti della rimessione in termini, essendosi verificato il fatto costitutivo in discorso (rectius, uno dei fatti costitutivi) dopo la notificazione dell’atto di citazione. Il discorso non può valere, però, per quelle voci di risarcimento basate sugli stessi identici fatti costitutivi allegati dall’attrice a fondamento della propria originaria domanda. Il riferimento è al danno da (non già perdita, bensì) compromissione del rapporto parentale, correlato alle sofferenze patite dai familiari per avere visto la salute (e/o la serenità morale) della propria congiunta peggiorare in conseguenza del fatto illecito. Su tale “voce” di danno il procuratore degli attori si è soffermato in sede di discussione della causa, osservando che “il richiamo alle tabelle milanesi non implica che l’evento posto a base del danno sia la morte del congiunto, potendo bene consistere nella sofferenza derivata dalla perdita di chance occorsa alla madre/moglie”. È evidente, tuttavia, che tale pregiudizio sarebbe potuto essere invocato dagli attori sin dall’(epoca dell’)atto di citazione, non dipendendo in alcun modo dalla morte della propria congiunta, ed anzi concorrendo con il danno “diretto” patito da costei. Ove, quindi, gli attori avessero proposto una domanda di tal genere (le conclusioni dell’atto di intervento non sono chiare in tal senso, ed una precisazione s’è avuta soltanto in sede di precisazione delle conclusioni), essa non potrebbe che incorrere nella sanzione dell’inammissibilità.

3. Gli attori individuano l’inadempimento dei sanitari dell’Ospedale di Rimini nell’avere “lasciato trascorrere (..) ben otto mesi prima di procedere ad un intervento che, se eseguito prima, avrebbe avuto ben altre possibilità di successo in termini di migliori prospettive future” (pag. 6 dell’atto di citazione); “un tempestivo e corretto inquadramento diagnostico-terapeutico, costituito da un precoce intervento chirurgico di isteroannessioctomia, avrebbe certamente limitato la possibilità di una eventuale diffusione metastatica della neoplasia, risparmiando alla paziente la sopraggiunta necessità di subire impegnativi interventi di chirurgia toracica e di sottoporsi ad elevate dosi di radioterapia, ma, soprattutto, garantendo maggiori e concrete chances di sopravvivenza e, quantomeno, un percorso terapeutico assai meno impegnativo” (pag. 6 dell’atto di citazione, che riproduce testualmente la relazione di parte del dr. Cannavò).

In particolare, viene censurato il comportamento del ginecologo che effettuò la visita specialistica sulla sig.ra G, in occasione del suo accesso al Pronto Soccorso del 22.8.2007.

Questi, a dire degli attori, sottovalutò “la notevole massa già descritta dall’ecografista e si limitò a consigliare, in modo assai generico, una rivalutazione ecografica a distanza (senza specificare in alcun modo quanta) ed eventuale isteroscopia ambulatoriale al persistere di ispessimento endometriale” (pag. 4 della prima memoria depositata dagli attori il 28.11.2013).

Il comportamento doveroso omesso viene individuato dagli attori nel “quantomeno sottolineare alla paziente l’importanza di effettuare in tempi brevi indagini dirette ad accertare la natura della massa parauterina, se non richiederne l’immediato ricovero per accertamenti” (ibidem).

L’evento dannoso allegato (relativamente alla posizione della de cuius) consiste nella perdita di “possibilità sicuramente maggiori di remissione completa dalla malattia tumorale” (pag. 7 dell’atto di citazione), nonché nella perdita di chance di “una maggiore quantità di vita (..) e, certamente, una migliore qualità di vita di cui la G purtroppo non fruisce, vist[i] i ripetuti interventi chirurgici che ha subito e/o dovrà subire” (pag. 7 dell’atto di citazione).

4. Nel costituirsi in giudizio, la AUSL di Rimini ha dedotto che la G fu adeguatamente trattata in occasione dell’accesso al Pronto Soccorso dell’Ospedale in data 22.8.2007, rilevando la presenza di una “massa solida in sede parauterina destra” ed inviandola presso il medico curante per l’approfondimento delle indagini. In occasione del secondo ricovero (28.12.2007) si programmò l’isteroscopia, che fu però ritardata (fino al 23.2.2008) per la richiesta della paziente di eseguirla in anestesia totale, e per la mancata presentazione della stessa alla visita cardiologica preliminare programmata per il 21.1.2008. Il referto della biopsia permise, poi, di individuare il tumore, per cui successivamente si procedé alla isterectomia. Sostiene la convenuta che il “il dedotto ritardo di otto mesi, imputato dall’attrice alla convenuta, nel diagnosticare ed asportare chirurgicamente il tumore, è invece attribuibile in via esclusiva alla sig.ra G sia per quanto riguarda il periodo di tempo trascorso tra il 22 agosto 2007 ed il 28.12.2007, cioè oltre quattro mesi, per non aver contattato il proprio medico curante, sia per il periodo che va dal 21 gennaio al 23 febbraio 2008, avendo la sig.ra G saltato l’appuntamento per l’esecuzione dell’ECG dinamico che le era stato prescritto al fine di sottoporla ad anestesia totale in sicurezza, cioè un altro mese” (pag. 10 della comparsa di costituzione e risposta).

5. Non ha pregio la difesa della convenuta, secondo cui la responsabilità dedotta dall’attrice (e oggi dai suoi eredi/familiari) andrebbe riguardata sotto l’egida dell’art. 2043 c.c., in virtù del disposto dell’art. 3 della l. n. 189/12. Al di là, infatti, delle recenti pronunce della Corte di Cassazione in senso contrario (si vedano Cass., n. 4030/13 e ord. n. 8940/14, a mente della quale “l’articolo 3, comma 1, della legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni (da ultimo riaffermate da Cass. n. 4792/2013)”), si osserva che la norma in esame non pare concernere la responsabilità della struttura sanitaria (sia essa pubblica, convenzionata o privata), la quale, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione (espressosi, tra le altre, nelle sentenze rese a Sezioni unite, n. 9556/02 e n. 577/08) può sempre essere ricondotta alla responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c., scaturendo da(ll’inadempimento di) un contratto atipico (c.d. di “spedalità”) concluso con l’accettazione del paziente presso la struttura, in virtù del quale quest’ultima è tenuta ad adempiere sia prestazioni (principali) di carattere sanitario, sia prestazioni (accessorie) di altro tipo, attraverso il personale medico ed ausiliario legato alla struttura da un rapporto di lavoro subordinato o da un distinto contratto. Per le strutture sanitarie inserite nel S.S.N. (quale quella parte della presente causa) l’obbligo di prestare l’assistenza sanitaria potrebbe discendere dalla stessa legge n. 833/78 (istitutiva del servizio sanitario nazionale). L’inadempimento (o l’inesatto adempimento) delle prestazioni dovute implica, pertanto, la responsabilità (diretta e autonoma)
della struttura per i danni conseguenti, secondo lo schema dell’art. 1218 c.c., al pari di ogni responsabilità che scaturisce dall’inadempimento di obbligazioni derivanti da «altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento» (art. 1173 c.c.). Da tali considerazioni discende che, laddove – come in questo caso – il danneggiato agisca in giudizio nei confronti della sola struttura sanitaria (e non anche del medico), non assume alcun rilievo la previsione dell’art. 3, I co., della legge sopra richiamata, che si riferisce esclusivamente all’esercente la professione sanitaria.

6. La prima voce di pregiudizio invocata dall’attrice (e, oggi, iure hereditatis dai suoi familiari) è il danno da perdita di chance di una più lunga (e qualitativamente migliore) sopravvivenza. In realtà – come già s’è accennato alla fine del primo paragrafo – l’attrice aveva prospettato nell’atto di citazione due tipologie di danno da perdita di chance, a ben vedere logicamente contraddittorie. Affermando che “un tempestivo trattamento [le] avrebbe consentito (..)
possibilità sicuramente maggiori di remissione completa della malattia tumorale”, l’attrice appariva riferire la chance alla guarigione. Ciò – ipotizzando come tenuto il comportamento omesso, e favorevolmente concretizzata la chance nel “bene della vita finale” – equivale a dire, da un lato, che alla tempestiva diagnosi (e cura) del tumore sarebbe conseguita la scomparsa dello stesso; e, specularmente, che l’omissione diagnostica (rectius, il ritardo) aveva – in definitiva – causato la ricomparsa del tumore. Tale prospettazione, in effetti, sembrerebbe trovare pendant nella domanda spiegata dai familiari della G in seno all’atto di intervento nel processo, successivo alla morte di costei. I signori B, richiedendo il risarcimento del danno da c.d. perdita del rapporto parentale (con esplicito richiamo, in ordine alla quantificazione del risarcimento, agli importi contemplati dalla Tabella di Milano), mostravano infatti – inequivocabilmente – di ritenere che il ritardo nella diagnosi della patologia tumorale aveva determinato, in ultima analisi, la morte della propria moglie e madre. Tanto che, descrivendo il pregiudizio invocato, essi asserivano che “la sopravvenuta morte della signora G ed il lungo e travagliato periodo di sopravvivenza della stessa hanno determinato un vero e proprio sconvolgimento della vita degli istanti (..)” (pag. 7 della comparsa di intervento). In una seconda “declinazione”, la chance viene, invece, correlata alla maggiore lunghezza e migliore qualità del periodo di sopravvivenza: ciò che implica – all’evidenza – l’esclusione di un rapporto eziologico tra l’omissione e la morte. Il ragionamento può esplicitarsi nei seguenti termini: posto che il decesso (dovuto al carcinoma) non si sarebbe potuto evitare neppure se il tumore fosse stato diagnosticato tempestivamente, il ritardo nella diagnosi (e nella successiva attivazione della terapia) cagionò un peggioramento delle condizioni di vita della paziente, per il tempo che le restava da vivere, e/o un accorciamento del periodo di sopravvivenza. Pur a fronte delle contrarie dichiarazioni del procuratore degli attori, in sede di discussione orale della causa, non può farsi a meno di sottolineare il contegno processuale di questi ultimi i quali, nelle note conclusive, hanno fatto riferimento unicamente alla “maggior quantità e qualità di vita”, di cui la G avrebbe potuto godere “in ipotesi di tempestivo intervento” (pag. 6), non facendo alcun cenno (né nel corpo dell’atto, né nelle conclusioni finali) al danno patito iure proprio per la perdita della moglie/madre. In ogni caso, ammesso che ciò fosse stato consapevolmente affermato dagli attori, dalla consulenza tecnica è emerso inequivocabilmente che la morte della sig.ra G non è stata causata dalla tardiva diagnosi del tumore, dal momento che una diagnosi più tempestiva non avrebbe potuto in alcun modo evitarla (né – come si vedrà – si può dire che avrebbe potuto posticiparla con consistente probabilità).

7. Oltre al danno da perdita di chance di più lunga (o “migliore”) sopravvivenza, gli attori hanno prospettato un danno biologico della de cuius, quantificato nell’atto di citazione nella percentuale del 15% di invalidità permanente, oltre a complessivi 210 giorni di invalidità temporanea (120 totale, e 90 parziale). Si legge, a tal proposito, a pag. 4 delle note conclusive depositate dagli attori: “l’intervento, effettuato in Aprile 2008 e non già nel precedente Settembre, è risultato, data l’estensione della massa tumorale sviluppata nel corso dei mesi, ben più demolitorio, comportando un danno biologico del 15% (asportazione di utero ed ovaie) e un danno temporaneo pari a 120 giorni di inabilità totale e 90 di inabilità parziale, considerati i successivi ricoveri dovuti alla ripresentazione del tumore”. Non è chiaro donde gli attori traggano la conclusione della natura “ben più demolitoria” dell’intervento, posto che nell’atto introduttivo del processo si erano limitati a formulare una mera ipotesi in tal senso (“l’intervento chirurgico, ove eseguito con immediatezza, avrebbe potuto essere anche meno demolitorio”: pag. 7); ipotesi che, peraltro, è rimasta smentita dalle risultanze della consulenza tecnica svolta in corso di causa dal dr. Gian Luca Moroni. A pag. 10 della relazione di quest’ultimo si legge, infatti: “il trattamento del tumore primitivo è stato corretto e di solito in questi casi non ha esiti invalidanti; (..) una diagnosi più precoce non avrebbe evitato un trattamento radioterapico post-operatorio né modificato la tecnica chirurgica effettuata”. Non è esplicitato (né dagli attori, né dalla loro consulenza di parte prodotta sub doc. 18), inoltre, se il danno biologico in discorso fosse stato (doverosamente) rapportato, in misura “differenziale”, alla menomazione che sarebbe comunque conseguita, a carico della G, per effetto dell’intervento (asseritamente “meno demolitivo”, ma pur sempre necessitato) che avrebbe dovuto subire alcuni mesi prima. Senza dire che pare esservi contraddizione tra l’affermazione di un danno (“certo”) alla salute, patito per effetto di un intervento chirurgico ritardato, e la prospettazione solo eventuale (per l’appunto, in termini di chance) di una migliore “condizione di vita” per l’ipotesi in cui tale intervento fosse stato eseguito prima. Tale voce di danno non può, pertanto, essere riconosciuta.

8. Venendo a trattare il danno da perdita di chance in senso stretto, s’impongono alcune considerazioni di ordine generale, sulla natura di tale voce di danno e sul suo rapporto con l’elemento della fattispecie di responsabilità, rappresentato dal nesso causale. Siamo al cospetto di una figura di matrice giurisprudenziale, nata in ambito “lavoristico” e successivamente sviluppatasi, prevalentemente, in quello della responsabilità professionale (soprattutto dell’avvocato e, per quanto in questa sede interessa, del medico). L’operazione teorica su cui s’impernia consiste essenzialmente nella elevazione della possibilità di consecuzione dell’utilità futura a bene giuridico “attuale”, dalla cui lesione/compromissione scaturisce il diritto al risarcimento del danno. La chance, si dice, è un’entità patrimoniale a sé stante, autonoma rispetto ad un risultato (il bene giuridico finale) che non v’è alcuna certezza si realizzerà. Come tale, la chance, nel momento in cui l’evento dannoso si verifica, è (di già) presente nella sfera giuridica del danneggiato. Per evitare, tuttavia, che la “regressione” verso coefficienti di probabilità molto bassi schiudesse le porte al risarcimento di danni obiettivamente incerti, la Corte di Cassazione, nella seconda pronuncia intervenuta sul tema (la prima era stata la sentenza n. 6906 del 1983), ebbe cura di affermare che “in tema di procedure di concorso costituisce fonte di risarcimento del danno il comportamento del datore di lavoro che escluda illegittimamente il lavoratore aspirante al posto dalla partecipazione alle prove del concorso ove determini la perdita della possibilità di conseguire il superamento della selezione, possibilità che deve essere provata dal lavoratore e va valutata secondo criteri di verosimiglianza alla stregua dell’id quod plerumque accidit in relazione alla percentuale di probabilità superiore a quella relativa all’evento sfavorevole, costituito dal mancato superamento della selezione stessa; l’ammontare del danno, che costituisce danno emergente, va commisurato non alla perdita del risultato(ossia alle retribuzioni che avrebbe percepito il lavoratore in caso di assunzione), bensì alla mera possibilità di conseguirlo, da determinare in base alle dette retribuzioni ma con un coefficiente di riduzione delle stesse, ovvero facendo ricorso alla liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c.”. Si richiedeva, dunque, che la chance esprimesse una probabilità di conseguimento del risultato superiore al 50%. Ma di fronte all’obiezione che, in tal modo, si facevano refluire sul “giudizio di spettanza” (l’an debeatur) problemi afferenti al successivo momento della liquidazione del danno (quantum debeatur), la Suprema Corte prese a sostenere che “nell’ipotesi di inadempimento del datore di lavoro che abbia comportato la perdita della “chance” di promozione, il danno risarcibile al lavoratore va ragguagliato alla probabilità di conseguire il risultato utile – al qual fine è sufficiente la ragionevole certezza dell’esistenza di una non trascurabile probabilità favorevole (non necessariamente superiore al cinquanta per cento) – e può essere determinato applicando al parametro costituito dalle retribuzioni che sarebbero spettate in caso di promozione un coefficiente di riduzione che tenga conto di quella probabilità, oppure, ove questo o altro criterio risulti di difficile utilizzazione, ricorrendo alla valutazione equitativa, la quale esige una congrua ed adeguata motivazione, che non può esaurirsi nell’apodittica e tautologica affermazione della giustezza od equità della determinazione adottata” (Cass., n. 4725/93). Non sfuggirà – già ad un esame sommario – il cortocircuito logico che si annida nell’espressione “ragionevole certezza dell’esistenza di una non trascurabile probabilità favorevole”. In ogni caso, a voler essere conseguenti con le premesse, la configurazione in tal guisa della chance non tollera, sul piano logico, alcuna “franchigia” risarcitoria. E invero, se la chance è un bene suscettibile di valutazione economica, tale resta indipendentemente dal valore che, volta a volta, essa venga ad assumere in concreto: questo rileverà soltanto in ordine alla determinazione del quantum del danno. Se si è in presenza di un danno emergente, l’incertezza in ordine al raggiungimento del risultato finale, per quanto consistente possa essere, non dovrebbe escludere il risarcimento, sibbene incidere unicamente sulla sua quantificazione, da rapportarsi alla percentuale (financo infinitesimale) che esprime la probabilità (in tal senso sembra opinare Cass., n. 15759/01, secondo cui, “in tema di responsabilità professionale (nella specie, di un dottore commercialista), la negligenza del professionista che abbia causato al cliente la perdita della “chance” di intraprendere o di proseguire una lite in sede giudiziaria determina un danno per il quale non può, di regola, porsi alcun problema di accertamento sotto il profilo dell'”an” – una volta accertato l’inadempimento contrattuale sotto il profilo della ragionevole probabilità che la situazione lamentata avrebbe subito, per il cliente, una diversa e più favorevole evoluzione con l’uso dell’ordinaria diligenza professionale -, ma solo, eventualmente, sotto quello del “quantum”, dovendo tale danno liquidarsi in ragione di un criterio prognostico basato sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili, ed assumendo, come parametro di valutazione, il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo (deducibile, quest’ultimo, caso per caso, dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta), ovvero ricorrendo a criteri equitativi ex art. 1226 cod. civ.”). È perciò arduo conciliare tale ricostruzione con le statuizioni giurisprudenziali che richiedono che la chance, per assurgere al rango della risarcibilità, abbia una qualche consistenza, e non sia quindi irrisoria (Cass., n. 10748/96, sempre in tema di progressioni di carriera, richiede la prova che il lavoratore “avrebbe avuto possibilità non distanti da quelle degli altri aspiranti positivamente valutati”; Cass., n. 8468/00 parla di “ragionevoli probabilità di ottenere un risultato utile”; Cass., n. 14074/00 di “perdita di una probabilità non trascurabile di conseguire il risultato utile”).

9. Si allinea al filone inaugurato in materia “concorsuale” anche la sentenza che segna il debutto (nella giurisprudenza di legittimità) del danno da perdita di chance nel “sotto-sistema” della responsabilità sanitaria (Cass., n. 4400/04). Pur non vagliando nel merito la fattispecie (atteso che l’attore non aveva formulato una specifica domanda in tal senso), la Cassazione afferma, in primo luogo, che “in una situazione in cui è certo che il medico ha dato alla patologia sottopostagli una risposta errata o in ogni caso inadeguata, è possibile affermare che, in presenza di fattori di rischio, detta carenza (che integra l’inadempimento della prestazione sanitaria) aggrava la possibilità che l’esito negativo si produca”; ribadendo, di poi, che “la chance, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale”. Il rischio di sovrapposizioni concettuali è legato al fatto che la chance implica, per così dire, ontologicamente un riferimento alle probabilità di realizzazione del risultato finale, per cui appare distonico rispetto al sistema affermare la risarcibilità di ciò che si accerta avere scarse (o scarsissime) probabilità di verificazione. Nel campo del danno non patrimoniale, assume un rilievo anche il requisito della c.d. serietà del pregiudizio, elevato dalle sentenze delle Sezioni unite della Cassazione dell’11 novembre 2008 a presupposto di risarcibilità di tale tipo di pregiudizio, in ossequio ai principi di tolleranza e di solidarietà nei rapporti tra consociati.

10. Ma il terreno sul quale la nozione giuridica di chance entra in crisi è quello del nesso di causa.

Invero, la selezione delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili avviene, sotto l’egida dell’art. 1223 c.c. (richiamato, per la responsabilità extracontrattuale, dall’art. 2056 c.c.), in virtù di quello che viene usualmente denominato rapporto di “causalità giuridica”. Scomponendo la fattispecie nei tre elementi del fatto illecito, dell’evento lesivo e delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi nella sfera giuridica del danneggiato, si suole, infatti, distinguere il rapporto di causalità “materiale” (che lega i primi due tra gli elementi suddetti) da quello di causalità “giuridica” (che avvince il secondo al terzo). Il nesso di causalità materiale esprime una regola interna alla fattispecie (che contribuisce a delineare il fatto illecito, imputandolo al suo agente); quello di causalità giuridica vale, invece, a collegare la fattispecie ai suoi effetti, connotandone la rilevanza giuridica sub specie di danni risarcibili. La chance si pone quale anello intermedio della catena: la sua compromissione rappresenta l’evento lesivo, originato dal fatto illecito (o dall’inadempimento), che a sua volta determina il manifestarsi di conseguenze pregiudizievoli (patrimoniali o non patrimoniali) nella sfera giuridica della vittima. Come noto, nella c.d. sentenza Franzese (del 10.7.2002), le Sezioni unite penali della Corte di Cassazione avevano adottato, in merito al nesso causale, il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale, affermando che “non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza probatoria disponibile”. A partire dalla fondamentale sentenza n. 21619 del 2007, la Cassazione civile si discostò da tale modello, per rimanere coerente con i peculiari principi (civilistici) dell’atipicità dell’illecito, dell’ingiustizia del danno, della centralità della figura del danneggiato, e del rilievo che l’aumento del rischio assume nell’illecito civile: “il sottosistema della responsabilità civile diventa, così, un satellite sperimentale di ingegneria sociale (che si allontana definitivamente dall’orbita dello speculare sottosistema penalistico)”. La pronuncia (relativa proprio ad una fattispecie di responsabilità medica) prospettava una sorta di scala discendente, che dalla “quasi certezza” penalistica muove verso la “causalità civile ordinaria”, attestata “sul versante della probabilità relativa (o “variabile”), caratterizzata (..) dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale” (la regola del “più probabile che non”); per approdare infine alla causalità da perdita di chance, “attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute”. La “regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”” venne poi definitivamente consacrata dalla Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 567/08. L’interferenza tra chance e causalità si apprezza, dunque, sul terreno della probabilità, che da un lato sostanzia “ontologicamente” la chance, e dall’altro esprime il parametro di riferimento elettivo per l’accertamento del nesso causale (“più probabile che non”). Ma come si combinano queste due declinazioni della probabilità nella ricostruzione della fattispecie di responsabilità? Se un determinato grado di probabilità nella consecuzione degli eventi non venga ritenuto, in concreto, sufficiente per istituire un nesso causale giuridicamente rilevante, la conseguenza obbligata dovrebbe essere l’impossibilità di riconoscere un danno risarcibile. Non si potrebbe sfuggire, insomma, dalla logica binaria del “tutto o niente”. Invece, quella misura inferiore di probabilità viene “recuperata”, sul terreno della perdita di chance, per attribuire comunque alla vittima un risarcimento (che generalmente riproduce, nel quantum, tale misura probabilistica).

Emblematica delle incertezze che vigono nella materia è proprio la pronuncia della Cassazione del 2007 (sopra citata). Un subacqueo era dovuto risalire troppo rapidamente in superficie per il cattivo funzionamento della bombola d’ossigeno, restando vittima di un’embolia gassosa. Per negligenza del medico di guardia che per primo lo aveva visitato, l’attore era stato condotto nella camera iperbarica con circa sei ore di ritardo, riportando, infine, un’invalidità permanente del 60%. La Corte di Appello, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva opinato nel senso che il ritardo nel trattamento, se pur non potesse considerarsi causa del danno biologico permanente riportato dalla vittima, aveva determinato una perdita di chance di un esito diverso (nell’an e nel quantum) della malattia. E, sebbene non fosse possibile quantificare l’entità di tale chance (secondo le conclusioni dei consulenti tecnici), aveva liquidato il danno nel 50% del controvalore di quello corrispondente alla percentuale di invalidità riportata. La Cassazione, pur non entrando nel merito del criterio utilizzato per la liquidazione, corresse la motivazione della sentenza impugnata, rilevando che “il giudice del merito [aveva] mostra[to] chiaramente di ritenere (..) “più probabile che non” l’esistenza del nesso di causa tra il comportamento omissivo del sanitario e le lesioni subite dal[l’attore]”. La singolarità sta nel fatto che, dopo avere prospettato teoricamente la “causalità da perdita di chance” come distinta da quella fondata sul “più probabile che non”; e sulla base della mera prospettazione dell’esistenza di probabilità di un esito diverso (espressamente dichiarate non quantificabili dai giudici di merito), la Corte arrivò a istituire un nesso causale tout court rispetto al pregiudizio dedotto in giudizio dall’attore, così implicitamente riconoscendogli il diritto a pretendere il risarcimento per l’intero danno patito.

11. Il vizio di fondo di tale ragionamento sta nel rapportare sia il nesso di causa, sia la perdita di chance alla medesima situazione giuridica finale. Se il risarcimento (in astratto considerato) esprime il controvalore della situazione giuridica finale, e se si parte dal presupposto che la compromissione di tale situazione giuridica non sia eziologicamente imputabile al convenuto (secondo la regola del “più probabile che non”): ebbene, in tale scenario, tributare alla vittima una parte di quel risarcimento significa – nei fatti – abdicare al riscontro del nesso causale; ovvero – se si vuole – giudicarlo sussistente, per ragioni di “giustizia sostanziale”, al cospetto di una percentuale probabilistica ritenuta, in tesi, insufficiente ad integrare il “più probabile che non” (salvo “mitigare” gli effetti dell’operazione con la decurtazione del quantum, a valle della fattispecie). Si tenga presente che anche una probabilità inferiore al 50% può essere sufficiente a fondare il nesso causale. La Cassazione ha espressamente sottolineato, al riguardo, la necessità di una “attenta valorizzazione e valutazione della specificità del caso concreto, onde la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica non conduca ipso facto alla aberrante regola del 50% plus unum, bensì alla compiuta valutazione dell’evidenza del probabile (così, esemplificando, se, in tema di danni da trasfusione di sangue infetto, le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un’incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata – o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta -, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all’art. 116 c.p.c., valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all’esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili (..)” (Cass., n. 15991/11). Certo è che, a qualsiasi percentuale si fissi (con riferimento alla fattispecie concreta) l’asticella del “più probabile che non”, la perdita di chance è integrata – per definizione – da una probabilità inferiore. Ma allora, come è possibile che alla perdita di chance consegua un risarcimento che – salvo il profilo quantitativo – si correla allo stesso bene giuridico finale la cui lesione, in tesi, si è negato sia eziologicamente ascrivibile al danneggiante? Se il bene giuridico finale compromesso dall’evento lesivo vale 100, e l’azione del danneggiante non viene reputata idonea, sotto il profilo causale del “più probabile che non”, a cagionarlo, l’attore avrà diritto a 0. Come è possibile, dunque, riconoscergli un risarcimento, per esempio, di 40, in virtù del fatto che tale (od omissione) del danneggiante, se conforme a diritto, avrebbe potuto evitare il danno con una percentuale probabilistica inferiore? La perdita di una possibilità mai tradottasi in atto non può valere, concettualmente, quanto la perdita (accertata) di una parte del tutto. Proprio questo, tuttavia, è l’approdo del ragionamento della Cassazione nella sentenza n. 12961/11, nella quale si legge che, “quando sia stata fornita la dimostrazione, anche in via presuntiva e di calcolo probabilistico, dell’esistenza di una chance di consecuzione di un vantaggio in relazione ad una determinata situazione giuridica, la perdita di tale chance è risarcibile come danno alla situazione giuridica di cui trattasi indipendentemente dalla dimostrazione che la corretta utilizzazione della chance avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio, essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione. La idoneità della chance a determinare presuntivamente ovvero solo possibilmente la detta consecuzione è, viceversa, rilevante, soltanto ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita, che, del resto, in presenza di una possibilità potrà anche essere escluso, all’esito di una valutazione in concreto della prossimità della chance rispetto alla consecuzione del risultato e della sua idoneità ad assicurarla”. In motivazione, la Corte – con significativa affermazione – ritiene di potere “accedere ad un risultato per cui probabilità di esito favorevole dell’intervento medico e la sua sola possibilità non siano che gradazioni di una stessa affermazione di pregiudizio, risentito a causa dell’omissione colposa del comportamento dovuto. Ciò comporta optare, nelle situazioni caratterizzate dal più probabile che non, ma anche da una non eliminabile porzione di incertezza, per una applicazione generalizzata degli esiti della tecnica risarcitoria della chance e quindi nel senso di distribuire il peso del danno tra le parti in misura proporzionale all’apporto causale della colpa e dei fattori di rischio presenti nel paziente (cfr. Cass. 16.1.2009, n. 975). Ritenuta la richiesta del risarcimento del danno da perdita di chance come riduzione dell’originaria domanda di risarcimento dell’intero pregiudizio assunto, da una parte essa non determina una mutatio libelli e dall’altra tale riduzione può essere effettuata direttamente anche dal giudice, pur in difetto di esplicita richiesta della parte in tal senso riduttiva (cfr. Cass. 21/02/2007, n. 4003)”. La chance diviene dunque una tecnica (flessibile) di distribuzione del “peso” del danno tra le parti, consentendo di risarcirlo (in parte) anche laddove manchi il nesso causale. Per tale via, si giunge a un risultato non dissimile da quello delle ipotesi di concorso tra causa umana e causa naturale, per il quale è stato di recente affermato dalla Corte di Cassazione che “la considerazione del pregresso stato patologico del creditore/danneggiato può tuttavia valere a condurre ad una limitazione dell’ammontare dovuto, a titolo risarcitorio, dal debitore danneggiante, e ciò nella sede di un giudizio che attiene propriamente non già al piano della “causalità giuridica”, bensì a quello dei criteri di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile, ai sensi degli artt. 1223, 1225, 1226, 1227 cod. civ.” (Cass., n. 3893/16). Con la differenza che, in quest’ultimo caso, il nesso di causalità materiale tra l’operato del medico e l’evento lesivo è pienamente accertato, mentre nello scenario della perdita di chance è per definizione escluso.

12. Si potrebbe obiettare che la tenuta del sistema è assicurata dalla teoria della chance come danno emergente. Ma, ad essere coerenti con questa (considerando, quindi, la chance come bene giuridico autonomo), ne verrebbe fuori un rapporto di causalità innestato su una dimensione doppiamente probabilistica, nel senso che il fatto (attivo o omissivo) andrebbe collegato, “più probabilmente che non” ad una…probabilità! Nella sentenza n. 7195 del 27.3.2014 (richiamata dagli attori nelle note conclusive), la Cassazione si confronta con un caso di erroneo trattamento terapeutico di un tumore ovarico, che aveva precluso ad una donna (comunque destinata a morte) una maggiore sopravvivenza (“perdita della possibilità di vedere rallentato il decorso della malattia e quindi aumentata la durata della sopravvivenza”). A fronte di un’affermazione della Corte di merito – che aveva definito la chance risarcibile se la percentuale astratta di sopravvivenza fosse stata superiore al 50% -, la Cassazione sostiene che “il modello d’indagine del nesso causale in caso di perdita di chance è si fondato sulla regola probatoria c.d. del “più probabile che non” (..), ma non nel senso in cui l’ha intesa la sentenza impugnata, bensì nel senso che è l’evento perdita di chance a costituire il termine di riferimento della causalità, quale evento di danno risarcibile”. “Pertanto, una volta individuata una chance, per definizione consistente in mera possibilità (la cui esistenza sia però provata, sia pure in base a dati scientifici o statistici, come nel caso di specie), va indagato il nesso causale della perdita di tale possibilità con la condotta riferita al responsabile, prescindendo dalla maggiore o minore idoneità della chance a realizzare il risultato sperato (cfr. Cass. n. 23846/08), ma reputandola di per sé come “bene”, cioè un diritto attuale autonomo e diverso dagli altri, ivi compreso il diritto alla salute”. Continua la motivazione: “nel caso della responsabilità medica, in particolare per intervento terapeutico o chirurgico errato, occorre verificare se questo abbia comportato, per quanto qui rileva, la perdita della possibilità di vivere più a lungo, anche soltanto per poco tempo; nel caso di specie, si è considerato ragionevole parametro di riferimento il quinquennio, in quanto fatto oggetto di indagini statistico-epidemiologiche, ritenute attendibili dalla Corte d’Appello. Una volta accertato il nesso causale tra l’errore medico ed il mancato rallentamento della progressione della malattia o comunque tra l’errore medico e l’accorciamento della possibile durata della vita, secondo quanto sopra, la perdita di questa chance è comunque, in ipotesi, risarcibile, quale entità a sé, giuridicamente ed economicamente valutabile. La percentuale astratta di realizzabilità della chance, nel caso di specie il 41%, diventa oggetto di indagine, in un secondo momento, quando, tenuto conto della particolare situazione concreta, si dovrà addivenire alla quantificazione del risarcimento. (..)

In un caso quale quello di specie, la liquidazione del danno eventuale non potrà che essere rapportata alla riduzione del periodo di sopravvivenza provocata dall’errore medico, nonché alla percentuale di possibilità astratta di conseguire il risultato massimo raggiungibile, data la situazione concreta: nel caso di specie, la sopravvivenza per cinque anni nella misura del 41%, previa verifica di eventuali circostanze sopravvenute o concomitanti incidenti nel senso di cui sopra. (..) In conclusione va affermato che, in tema di responsabilità medica, dà luogo a danno risarcibile l’errata esecuzione di un intervento chirurgico praticabile per rallentare l’esito certamente infausto di una malattia, che abbia comportato la perdita per il paziente della chance di vivere per un periodo di tempo più lungo rispetto a quello poi effettivamente vissuto.

In tale eventualità, le possibilità di sopravvivenza, misurate in astratto secondo criteri percentuali, rilevano ai fini della liquidazione equitativa del danno, che dovrà altresì tenere conto dello scarto temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella della sopravvivenza possibile in caso di intervento chirurgico corretto”. Dunque, la vittima ha perso la possibilità di fruire del 41% di possibilità di sopravvivere per un quinquennio dalla diagnosi del tumore. Ma che bene giuridico è la perdita della possibilità di (ulteriore) sopravvivenza?
Come può escludersi che la morte della vittima prima del decorso di un quinquennio non si collocasse nella restante area di probabilità (del 59%), non venendo quindi minimamente influenzata dal ritardo diagnostico?

13. Il ragionamento secondo cui la possibilità di conseguire un vantaggio rappresenta un bene (già) presente nel patrimonio del danneggiato (una sorta di avviamento), se può avere una sua logica relativamente ai diritti patrimoniali, non appare trasponibile al campo del danno non patrimoniale (derivante dalla lesione di interessi non patrimoniali). La possibilità di sopravvivenza o di guarigione non può essere considerata, infatti, come un minus che “replichi” la stessa natura della situazione giuridica “finale” (rappresentata dalla salute o dalla vita).

Cosicché, per tornare alla responsabilità medica, non pare potersi uscire dalla seguente alternativa. Se si ritiene che l’azione od omissione del medico abbia accelerato la morte del paziente, i suoi eredi potranno pretendere il risarcimento dei danni ad essa conseguiti (iure proprio, in termini di perdita del congiunto; iure hereditatis, con riguardo ai pregiudizi non patrimoniali patiti dal de cuius nell’intervallo di tempo tra il fatto dannoso e la morte). In tal caso, la circostanza che il paziente sarebbe comunque morto, successivamente, per il decorso infausto della malattia, rileva sotto il profilo della quantificazione del risarcimento (dovendosi riferire la privazione del rapporto parentale al periodo di presumibile sopravvivenza del congiunto, in mancanza dell’azione/omissione del medico). Se, invece, all’esito della delibazione del nesso causale (secondo la regola del “più probabile che non”, qualsiasi cosa essa significhi), si esclude che l’imperizia del medico abbia anticipato la morte (comunque certa) del paziente, il pregiudizio che può configurarsi non è dato dalla perdita della possibilità di vivere meglio o più a lungo, ma – molto più semplicemente – dal peggioramento delle sue condizioni di vita nel periodo di (effettiva) sopravvivenza. Il che, all’evidenza, integra (né più e né meno che) un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., declinato sub specie di danno biologico in senso stretto, o sofferenza interiore, ovvero contrazione delle attività realizzatrici della personalità, e non già la lesione di altri (inesistenti) beni giuridici a sé stanti. La riprova si ha nell’ultima significativa pronuncia della Cassazione sul tema (la sentenza n. 16993 del 20.8.2015), nella cui motivazione si legge: “in tema di danno alla persona conseguente a responsabilità medica, si è per altro verso nella giurisprudenza di legittimità precisato che l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in relazione al quale sia manifesti la possibilità di effettuare solo un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo della relativa esecuzione cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne, dovendo conseguentemente sopportare tutte le conseguenze di quel processo morboso, e in particolare il dolore (in ordine al quale cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826), che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 23/5/2014, n. 11522)”. Ciò che si risarcisce è, per l’appunto, il dolore, la cui comparsa o intensificazione il medico non ha colpevolmente contrastato. In tale sentenza – sia detto per incidens – la Cassazione censura anche la negazione del c.d. danno morale terminale o “catastrofale”, inteso come sofferenza provata nell’avvertire consapevolmente la imminente fine della propria vita, cadendo però in contraddizione, nella misura in cui mostra implicitamente di identificare con la morte della paziente, l’evento lesivo cui correlare eziologicamente l’omissione del sanitario. Il danno morale c.d. catastrofale presuppone, infatti, che la morte sia conseguenza del fatto illecito del danneggiante, mentre in questo caso il punto di partenza del ragionamento – come detto – è che la morte fosse comunque inevitabile, dato il tipo di malattia. E se la morte sarebbe comunque intervenuta, a prescindere dall’omissione diagnostica del sanitario, non è possibile addebitare a quest’ultimo la sofferenza per l’approssimarsi della stessa.

14. Si viene, allora, ad esaminare da presso la fattispecie concreta, sulla base delle considerazioni che precedono. Le conclusioni della consulenza tecnica inducono a circoscrivere il ritardo diagnostico colposamente ascrivibile ai sanitari dell’Ospedale di Rimini ad un periodo di circa due mesi (dal 28.12.2007 al 23.2.2008). Nessun appunto, in termini di negligenza, può infatti muoversi ai sanitari del Pronto Soccorso, in occasione del primo ricovero della signora G, in data 22.8.2007. La metrorragia era, infatti, cessata al momento del ricovero, cosicché corretto si è rivelato l’invio della paziente al medico curante, per l’esecuzione di “indagini mirate alla massa solida rilevata in sede parauterina dx” (così il referto del Pronto Soccorso), corredato dall’indicazione dell’isteroscopia ambulatoriale per il caso di persistenza dell’ispessimento endometriale. Non può farsi gravare sulla convenuta, pertanto, la “perdita” di quattro mesi fino al ricovero della fine di dicembre del 2007, non risultando che la G si fosse attivata secondo le prescrizioni sopra richiamate. In considerazione della funzione tipica del presidio di Pronto Soccorso (che è quella di intervenire prioritariamente sulle situazioni critiche, suscettibili di mettere in serio pericolo la vita o la salute del paziente), si condivide, dunque, quanto puntualizzato dal c.t.u. in risposta alle osservazioni del consulente degli attori: “trattenere la paziente per effettuare subito gli esami d’approfondimento ad agosto 2007 non era l’unica soluzione possibile, come suggerito dal CTP; la Paziente poteva effettuare un esame TAC o RMN prenotati dal medico curante ed effettuare un’isteroscopia ambulatoriale presso il proprio ginecologo di fiducia. La gestione sarebbe comunque esitata in una diagnosi in tempi adeguati, se fosse stato seguito il consiglio dei sanitari del pronto soccorso al primo accesso dell’agosto 2007”. Alla stregua del principio di autoresponsabilità, non è sostenibile che la prescrizione del Pronto Soccorso non fosse tale da mettere in allarme la paziente (o fosse tale addirittura da tranquillizzarla). Indipendentemente dal suo grado di conoscenza di nozioni mediche, l’invito a rivolgersi al proprio medico curante, unitamente alla segnalazione della presenza di una “massa solida” dalla natura non meglio specificata, non poteva non indurre un soggetto mediamente avveduto ad attivarsi per comprendere effettivamente di cosa si trattasse.


Quanto al periodo successivo, il c.t.u. ha chiaramente affermato: “il ricovero del 28 dicembre 2007, doveva essere l’occasione per eseguire rapidamente l’isteroscopia, trattenendo la paziente in ospedale per le visite propedeutiche all’anestesia (come poi fu fatto in occasione del successivo ricovero del 23 febbraio 2008), perché il sintomo era preoccupante, di lunga durata e recidivo e non era stato approfondito da un punto di vista diagnostico, nonostante le raccomandazioni dei sanitari del PS del precedente accesso dell’agosto 2007. Quindi la prospettiva di patologia grave, avvalorata anche dal nuovo dato del rialzo dei marcatori tumorali, non disponibile nel precedente ricovero di agosto 2007 e la scarsa collaborazione dimostrata dalla paziente, sono argomentazioni che sostengono che la diagnosi doveva essere approfondita senza indugio in quella sede, trattenendo la paziente per l’isteroscopia” (pag. 11 della relazione). Si profila, in questo caso, una colpa dei sanitari che sovrintesero al ricovero della G, i quali avevano a disposizione una serie di elementi che, in ossequio alla migliore tecnica medica, avrebbero dovuto indurli a procedere senz’altro all’esame decisivo per l’individuazione del tumore. È necessario, pertanto, indagare quale incidenza causale abbia avuto tale negligenza rispetto all’evento lesivo allegato dagli attori. Escluso che questo possa identificarsi con una peggiore qualità della vita della G (o con un vero e proprio danno biologico “differenziale” rispetto alle menomazioni conseguenti alla patologia tumorale), resta in campo la perdita di chance di una più lunga sopravvivenza. Alla stregua della quale, pertanto, bisognerebbe verificare se una diagnosi maggiormente tempestiva (di 2-3 mesi), e la conseguente corrispondente anticipazione della terapia (nei fatti correttamente eseguita), avrebbe attribuito alla G una (più o meno consistente) probabilità di sopravvivere per qualche mese o anno in più. Ciò ai fini di riconoscere ai suoi eredi un risarcimento commisurato non già al periodo di vita perduto (essendosi fuori – per quanto già detto – dal danno da perdita della vita), bensì alla sofferenza interiore (id est danno morale) patita dalla G nel percepire di non poter confidare di sopravvivere più a lungo al tumore. Si dovrebbe, quindi, ponderare comparativamente il ritardo diagnostico imputabile alla convenuta con quello attribuibile ad altre cause. In quest’ottica, il c.t.u. dr. Moroni ha evidenziato – alla stregua dei dati anamnestici forniti dalla paziente al Pronto Soccorso di Rimini, ripresi dalla perizia di parte attrice e valorizzati anche dai consulenti di parte attrice in questo processo – che la metrorragia occorsa alla G nel 2005-2006 poteva senz’altro essere valorizzata come sintomatica di una patologia tumorale in atto; ciò che indebolisce alquanto l’efficienza eziologica del ritardo diagnostico di cui si sta discutendo, a fronte di un precedente ritardo accumulato di oltre due anni, inducendo il c.t.u. ad affermare (in risposta ai rilievi del c.t.p. degli attori) che “quei tre mesi che vanno dal settembre 2007 al dicembre 2007 non hanno avuto un ruolo così cruciale sull’andamento sfavorevole della malattia, come sostenuto dal CTP”. Il dr. Moroni ha escluso, infatti, che il grado di “malignità” del tumore della G fosse stato condizionato in pejus dal ritardo diagnostico, posto che “il concetto di “malignità” dipende da diversi fattori diagnostici, alcuni dei quali sono indipendenti dalla precocità della diagnosi (presenza di istotipo a cellule chiare). Nel caso di specie, vi era un istotipo a cellule chiare, il quale – indipendentemente dall’epoca della diagnosi – condiziona la prognosi negativamente; accompagnato da altro tipo istologico (lo stesso tumore ha sviluppato due popolazioni di cellule), avente caratteristiche diverse e una prognosi più favorevole (tanto che nelle metastasi operate non si sono viste evidenze di questo tipo cellulare). Quindi, se, in ipotesi, il tumore fosse stato diagnosticato nel 2005/06, a parità di prognosi (che, ipoteticamente, avrebbe condotto all’exitus nel 2012), la paziente avrebbe avuto una sopravvivenza maggiore (in termini di tempo), dopo la diagnosi” (così il dr. Moroni all’udienza del 20.1.2016). Dunque, la sopravvivenza sarebbe stata maggiore non per lo spostamento in avanti del suo termine finale (la morte), ma per lo spostamento indietro del momento iniziale (la diagnosi). Rendendo i chiarimenti richiesti, il c.t.u. ha anche affermato: “non è possibile calcolare precisamente il tempo di maggiore sopravvivenza in presenza di una diagnosi (e trattamento) più precoce. In linea generale, posso affermare che può considerarsi più probabile che il paziente possa avere un maggior numero di mesi liberi da progressione da malattia, ma non vi sono casistiche su questo argomento. Posso dire che la possibilità/probabilità di avere un maggior numero di mesi liberi da progressione da malattia è direttamente proporzionale alla precocità della diagnosi, per cui sarebbe stata più alta se la diagnosi fosse intervenuta nel 2005-06, meno alta se fosse intervenuta nell’agosto 2007, meno alta ancora se fosse intervenuta nel dicembre 2007. Ma, come ho detto, non ci sono strumenti per misurare e quantificare tale differenza” (verbale dell’udienza del 20.1.2016). Si può conclusivamente affermare, dunque, che vi è la possibilità che la G abbia perso la possibilità di vivere qualche mese in più di quanto effettivamente vissuto (quasi quattro anni dalla diagnosi), ma non è possibile quantificare (percentualmente) questa possibilità. Anche a voler configurare la perdita di chance come bene giuridico autonomo (teoria che sopra si è avversata), non si può dire allora, nel caso di specie, che essa sia stata conculcata (e che il danno, quindi, sia “certo”), essendovi solo una (non meglio determinabile) “possibilità” che ciò sia avvenuto. A fronte di tali elementi, non appare integrato, quindi, il nesso causale tra omissione ed evento (id est, perdita di chance), secondo la regola della preponderanza dell’evidenza (o del “più probabile che non”). Ciò anche perché, in un’ottica di concorrenza di cause (la causa naturale rappresentata dalla evoluzione autonoma della patologia, e quella umana ascrivibile alla G, per l’inerzia nel dare corso alle indicazioni terapeutiche ricevute al Pronto Soccorso di Rimini, e per la mancata presentazione alla visita prodromica all’anestesia totale), sarebbe in ogni caso estremamente difficile identificare la porzione di chance pregiudicata dal ritardo imputabile al nosocomio riminese. Infine, sul versante del danno-conseguenza (e, dunque, nell’ottica dell’art. 1223 c.c.), difetterebbero elementi sufficienti per la liquidazione equitativa del pregiudizio, poiché, a tutto concedere, manca qualsivoglia parametro utile a identificare il periodo di “vita persa” a causa del ritardo diagnostico idealmente imputabile alla convenuta; e, in secondo luogo (nella logica che sopra si è cercato di argomentare), non è stata fornita alcuna dimostrazione che la G abbia visto significativamente peggiorare il suo stato (di salute e/o) interiore in relazione alla percezione (non si sa quanto consapevolmente acquisita prima della perizia di parte del dr. Cannavò) della mera possibilità di prolungare di qualche mese la propria esistenza.

15. La domanda deve essere conseguentemente rigettata, ma il riscontro obiettivo di una negligenza dei sanitari; la circostanza che le deduzioni poste dall’attrice a fondamento della propria azione fossero avallate dal parere tecnico del proprio consulente; e l’accoglimento di una ricostruzione teorica del danno da perdita di chance discostantesi dalla vulgata giuridica prevalente (anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione) inducono all’integrale compensazione delle spese processuali.

P.Q.M.


Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone:

Rigetta le domande, compensando integralmente tra le parti le spese processuali.


Rimini, 4 novembre 2016.

Il Giudice

dott. Luigi La Battaglia

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