Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223 (1), 1226 (2) e 1227
Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.
Responsabilità medica – Errata diagnosi tumorale – Decesso del paziente – Risarcimento del danno da perdita da chances – Applicabilità degli artt. 1226 e 2056 c. – Operatività del criterio di liquidazione equitativa – Aspecificità delle doglianze – Inammissibilità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere
Dott. RUBINO Lina – Consigliere
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21517/2017 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) in proprio e quale legale rappresentante del figlio (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
AZIENDA SANITARIA DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO, in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 23/2017 della CORTE D’APPELLO SEZ. DIST. DI BOLZANO, depositata il 11/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 03/07/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilita’ in subordine rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS) per delega.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Bolzano, con sentenza in data 26.6.2015 n. 733, ha affermato la responsabilita’ civile dei medici della Azienda sanitaria della Provincia autonoma di Bolzano, per errata diagnosi di patologia tumorale (descritta all’esito dell’esame istologico come “glioblastoma”, anziche’, correttamente, come “medulloblastoma”) di cui era risultata affetta (OMISSIS), poi deceduta il (OMISSIS), ritenendo che l’errore diagnostico da cui era esitato un improprio trattamento terapeutico aveva determinato il danno da “perdita della chances”, valutata nel 35% di probabilita’ di sopravvivenza per ulteriori cinque anni, come accertato nella consulenza tecnica preventiva svolta dalle parti, ed ha quindi liquidato il corrispondente danno “jure successionis” in favore dei familiari superstiti, (OMISSIS) (convivente more uxorio) in proprio e n.q. di rappresentante legale del minore (OMISSIS); (OMISSIS) e (OMISSIS) (genitori); (OMISSIS) (fratello).
La Corte d’appello di Trento sez. dist. Bolzano, con sentenza in data 11.2.2017 n. 23, ha confermato l’accertamento di responsabilita’ del primo Giudice, rilevando come la presenza di metastasi, riscontrata -a seguito di RMN encefalo del (OMISSIS) – in corrispondenza dello stesso focolaio operatorio dell’intervento di asportazione della massa tumorale eseguito a (OMISSIS), induceva a presumere una evoluzione della stessa malattia e non l’interferenza di una causa esterna determinativa in via esclusiva del decesso; la prova della sequenza causale fondante la responsabilita’ civile “errore diagnostico-inappropriato trattamento terapeutico” era stata specificamente dedotta dai danneggiati, attraverso le risultanze della c.t.u. preventiva collegiale, mentre l’Azienda sanitaria non aveva fornito la prova liberatoria ex articolo 1218 c.c..
Il Giudice di secondo grado ha accolto, invece, l’appello della Azienda sanitaria relativamente ai criteri di liquidazione del “quantum”, riducendo gli importi risarcitori del danno da “perdita di chances” liquidato “jure successionis” al minore (in qualita’ di unico erede), e del danno “jure proprio” per la perdita del rapporto familiare relazionata al periodo di probabile sopravvivenza, liquidato in favore del minore e degli altri superstiti, condannando i predetti alla restituzione in favore della Azienda sanitaria delle maggiori somme da quella corrisposte in ottemperanza della decisione di prime cure.
La sentenza di appello, non notificata, e’ stata impugnata da (OMISSIS) in proprio e n. q. di genitore del minore (OMISSIS), nonche’ da (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), con ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo.
Resiste con controricorso l’Azienda sanitaria.
Le parti ricorrenti hanno depositato memorie illustrative ex articolo 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
I ricorrenti hanno proposto in via alternativa due censure.
– vizio di violazione e falsa applicazione dell’articolo 1226 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
– vizio di omesso esame di fatto decisivo ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione alla responsabilita’ del medico e della struttura per le terapie apprestate e non fornite.
Deducono inoltre anche il vizio di nullita’ della sentenza per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in ordine alla “entita’ del risarcimento spettante in tema di responsabilita’ medica”.
I motivi devono essere dichiarati inammissibili per le seguenti plurime ragioni.
Occorre premettere, in via generale, che il ricorso e’ formulato mediante la cumulativa indicazione nella rubrica dell’unico motivo di plurime censure inerenti vizi di legittimita’ differenti.
Al riguardo deve osservarsi che, la cumulativa denuncia, con il medesimo motivo, di vizi di legittimita’ attinenti alle ipotesi previste dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5), (idest: la formulazione di un singolo motivo articolato in piu’ profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo), non impedisce l’accesso del motivo all’esame di legittimita’ allorche’ esso, comunque, evidenzi distintamente la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie (ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), alla violazione delle norme che regolano il processo (ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4), ed ai profili attinenti alla ricostruzione del fatto (ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5), cosi’ da consentire alla Corte di individuare agevolmente ciascuna autonoma critica formulata alla sentenza impugnata in relazione ai diversi vizi di legittimita’ contestati in rubrica (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9793 del 23/04/2013; id. Sez. U, Sentenza n. 9100 del 06/05/2015).
Diversamente, il motivo “formalmente unico” ma articolato in plurime censure di legittimita’ si palesa inammissibile tutte le volte in cui – come si riscontra nel ricorso in esame – l’esposizione contestuale degli argomenti a sostegno delle diverse censure non consenta di discernere le ragioni poste a fondamento, rispettivamente, di ciascuna di esse: in tal caso, infatti, le questioni formulate indistintamente nella esposizione del motivo e concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo ed in genere il merito della causa, costringerebbero il Giudice di legittimita’ ad operare una indebita scelta tra le singole censure teoricamente proponibili e riconducibili ai diversi mezzi d’impugnazione enunciati dall’articolo 360 c.p.c., non potendo evidentemente sostituirsi la Corte al difensore per dare forma e contenuto giuridici alle doglianze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011; id. Sez. 1, Sentenza n. 21611 del 20/09/2013), trattandosi di compito riservato in via esclusiva alla parte interessata, come emerge dal combinato disposto dell’articolo 360 c.p.c., e articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18242 del 28/11/2003 id. Sez. 1, Sentenza n. 22499 del 19/10/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 5353 del 08/03/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 18421 del 19/08/2009; id. Sez. 1, Sentenza n. 19443 del 23/09/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 3248 del 02/03/2012; id. Sez. 6-3, Ordinanza n. 7009 del 17/03/2017).
La inammissibilita’ dei motivi discende in ogni caso dalla assenza del requisito prescritto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, inteso come requisito di specificita’ e completezza del motivo di ricorso, che costituisce diretta espressione dei principi sulle nullita’ degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale e’ nullo, ancorche’ la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (articolo 156 c.p.c., comma 2): nel giudizio di legittimita’ caratterizzato da una struttura chiusa in quanto l’oggetto della verifica e’ limitato soltanto ad alcuni tassativi vizi del provvedimento giurisdizionale che consentono di veicolare la impugnazione, il motivo di ricorso per cassazione, ancorche’ la legge non esiga espressamente la sua specificita’ (come invece per l’atto di appello), deve necessariamente essere specifico, cioe’ articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 4741 del 04/03/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 15604 del 12/07/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 6184 del 13/03/2009). Ne segue che le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi rispondenti ai requisiti strutturali e funzionali prescritti dall’articolo 366 c.p.c., in quanto la Corte di Cassazione non e’ mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalita’ e logicita’ della decisione che non le consente di procedere ad un “novum judicium” riesaminando e valutando autonomamente il merito della causa, non atteggiandosi il giudizio di legittimita’ come un terzo grado di giudizio (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1317 del 26/01/2004; id. Sez. 5, Sentenza n. 25332 del 28/11/2014).
Il requisito di specificita’ previsto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4), puo’ dunque ritenersi soddisfatto soltanto qualora il ricorrente individui con precisione l’oggetto della critica e cioe’ non solo la statuizione della sentenza impugnata ma l’argomento giuridico che la supporta, evidenziandone gli aspetti di difformita’ o contrasto con le regole od i principi di diritto che debbono presiedere alla disciplina della “res controversa” ovvero con la interpretazione che di quella regola ha fornito la giurisprudenza di legittimita’.
Invero, il ricorrente ha l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di cassazione, il singolo motivo deve rivestire i caratteri di specificita’, completezza e riferibilita’ alla decisione impugnata, assolvendo alla funzione condizionante il “devolutum” della sentenza impugnata, con la conseguenza che il requisito in esame non puo’ ritenersi soddisfatto qualora il ricorso per cassazione (principale o incidentale) sia basato sul mero richiamo dei motivi di appello, ovvero sulla mera riproduzione di massime giurisprudenziali, o ancora su affermazioni apodittiche non seguite da alcuna dimostrazione, una tale modalita’ di formulazione del motivo rendendo impossibile individuare la critica mossa ad una parte ben identificabile del giudizio espresso nella sentenza impugnata, rivelandosi del tutto carente nella specificazione delle deficienze e degli errori asseritamente individuabili nella decisione (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 10420 del 18/05/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 13066 del 05/06/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 15952 del 17/07/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 20652 del 25/09/2009; id. Sez. 6-5, Ordinanza n. 1479 del 22/01/2018).
Orbene la esposizione degli argomenti in diritto a supporto dei motivi di ricorso si atteggia, nella specie, nella riproduzione – da pag. 5 a pag. 9 – di massime giurisprudenziali della Corte di legittimita’, venendo sviluppato l’argomento critico in una contestazione di 28 righi in cui si assume “meramente apparente” la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, nel procedere alla liquidazione del danno, il Giudice di appello ha diviso l’importo massimo tabellare per il numero degli anni effettivi della de cuius.
Dall’esame della sentenza impugnata emerge che il Giudice di appello, dopo avere evidenziato come il danno da “perdita di chances” doveva essere commisurato alla perdita della “possibilita’” di sopravvivenza (calcolata percentualmente) del soggetto affetto da patologia tumorale in caso di tempestiva sottoposizione alle appropriate cure mediche, ha fatto ricorso ai valori tabellari della “invalidita’ biologica” come mero parametro di riferimento dell'”importo monetario base” da utilizzare per convertire la possibilita’ di sopravvivenza in equivalente monetario. La Corte distrettuale, considerando che l’interesse leso doveva individuarsi nella conservazione della vita e non della validita’ biologica al momento della errata diagnosi, del soggetto affetto da patologia terminale, ha ritenuto di applicare l’importo corrispondente alla invalidita’ massima (prossima al 100% e quindi alla estinzione biologica della persona fisica) di un soggetto del medesimo genere ed eta’ della vittima, desunto dalle Tabelle milanesi di liquidazione del danno biologico, incrementandolo del 25 % in considerazione della particolare gravita’ del danno relazionata alle condizioni familiari ed alla giovanissima eta’ del figlio (importo base); ha quindi determinato il “valore unitario” di ciascun anno di possibilita’ di sopravvivenza, tenendo conto della effettiva durata della vita fisica della vittima, dividendo l'”importo base” per gli anni di eta’ (trenta), e quindi moltiplicando il “valore unitario” per i cinque anni ipotetici di sopravvivenza, rapportati al dato percentuale statistico (35%) di possibile efficacia delle cure mediche (ove tempestivamente prestate se la diagnosi fosse stata corretta). Identico criterio – fondato sui massimi tabellari previsti per il danno da perdita del rapporto parentale – e’ stato applicato dalla Corte distrettuale per la liquidazione in favore di tutti i superstiti del danno “jure proprio” da perdita delle chances (pari al 35%) di prosecuzione di tale rapporto, per altri cinque anni, ove le cure fossero state tempestivamente somministrate.
Orbene, rileva il Collegio che, affinche’ sia integrato il vizio di “mancanza della motivazione” agli effetti di cui all’articolo 132 c.p.c., n. 4, occorre che, nella sentenza, manchi del tutto la parte motiva – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere, risultante dallo svolgimento del processo, segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione – ovvero che essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioe’ di riconoscerla come giustificazione del “decisum” (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20112 del 18/09/2009).
Occorre altresi’ premettere che, in mancanza di espresse prescrizioni di legge, “se il danno non puo’ essere provato nel suo preciso ammontare, e’ liquidato dal giudice con valutazione equitativa”, potere discrezionale, questo, conferito al Giudice dagli articoli 1226 e 2056 c.c., che costituisce espressione del piu’ generale potere di cui all’articolo 115 c.p.c., dando luogo, infatti, non gia’ ad un giudizio di equita’, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equita’ giudiziale correttiva od integrativa, e che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8615 del 12/04/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 9244 del 18/04/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 20990 del 12/10/2011; id. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 27447 del 19/12/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 127 del 08/01/2016), non essendo possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilita’ del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10607 del 30/04/2010).
Tutto cio’ premesso, osserva il Collegio che la sentenza impugnata rappresenta chiaramente il percorso seguito dal Giudice di merito, essendo specificate le ragioni per le quali si e’ ritenuto al fare ricorso ai parametri tabellari milanesi (in conformita’ ai principi di adeguatezza ed uniformita’ che debbo presiedere al ristoro del danno alla persona: Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 17018 del 28/06/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 1553 del 22/01/2019), ed ha ritenuto di adeguare nel massimo i parametri tabellari (avuto riguardo alla esperienza particolarmente dolorosa per il convivente ed il figlio minore, essendo stata costituita recentemente la famiglia e data la giovanissima eta’ del minore; alla particolare importanza che rivestiva per i superstiti la possibilita’ di proseguire per gli anni ancora consentiti la convivenza insieme alla giovane donna; alla vicinanza di eta’ tra fratello e sorella che denotava un legame intenso: in motivazione pag. 19-20), ai fini della determinazione dell’importo base sul quale operare la liquidazione, non evidenziandosi macroscopiche incongruita’ logiche nel criterio matematico di calcolo utilizzato per la quantificazione del danno, in relazione alle probabili aspettative massime di vita ancora consentite alla (OMISSIS), affetta da malattia terminale, qualora fossero state somministrate tempestivamente le terapie adeguate.
Tale “modus procedendi” non e’, infatti, trasmodato in una liquidazione “equitativa pura”, caratterizzata dalla applicazione di criteri meramente soggettivi, ne’ tanto meno e’ sconfinato nell’arbitrio, inteso come assenza di qualsiasi indicazione dei criteri che hanno orientato la “aestimatio”, atteso che – al contrario – vengono forniti dal Giudice di merito i criteri obiettivi idonei a valorizzare le singole variabili del caso concreto ed a consentire la verifica “ex post” del ragionamento seguito dal Giudice in ordine all’apprezzamento della gravita’ del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entita’ della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d’animo (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20895 del 15/10/2015).
Ne segue che, a fronte di una chiara esposizione nella motivazione della sentenza del criterio di liquidazione applicato dal Giudice di merito, spettava ai ricorrenti dedurre specificamente gli argomenti fattuali e giuridici intesi specificamente ad evidenziare quali aspetti di illegittimita’ inficiassero il criterio di liquidazione integrativa, per violazione di eventuali criteri legali o per assoluta contraddittorieta’ o ancora per conclamato contrasto oggettivo con i dati di comune esperienza (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1529 del 26/01/2010; id. Sez. L, Sentenza n. 12318 del 19/05/2010).
La mera contestazione, contenuta nel motivo di ricorso, secondo cui la sentenza e’ incorsa in errore nel dividere per il numero degli anni della vittima il valore massimo tabellare alla stessa riconosciuto, si traduce in una mera asserzione priva di carattere cognitivo ed in quanto tale meramente anapodittica, non fornendo alcuna indicazione delle ragioni per le quali il criterio di liquidazione adottato non corrisponderebbe all’integrale risarcimento del danno o non risponderebbe ad un corretto impiego delle nozioni di calcolo matematico.
In difetto dell’indispensabile apparato argomentativo critico, le censure formulate con il motivo di ricorso appaiono carenti quanto alla stessa struttura minima richiesta dall’articolo 366 c.p.c. e dunque risultano del tutto inidonee a veicolare il richiesto sindacato di legittimita’ sulla sentenza impugnata.
In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
In considerazione dell’alterno esito dei giudizi di merito le spese del giudizio di legittimita’ debbono dichiararsi interamente compensate tra le parti.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis.
Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalita’ di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa la indicazione delle generalita’ e degli altri dati identificativi di (OMISSIS) riportati nella sentenza.
In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalita’ e gli altri dati identificativi, a norma del Decreto Legislativo n. 196 del 2003, articolo 52.
Corte di Cassazione|Sezione 3|Civile|Ordinanza|22 novembre 2019| n. 30516
Responsabilità civile – Circolazione stradale – Stima tabellare del danno – Aggiornamento da parte del giudice di appello se nelle more del giudizio i punti base delle tabelle sono stati modificati
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere
Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1866/2018 proposto da:
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS);
– ricorrenti –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) SPA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1272/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 05/06/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI.
FATTI DI CAUSA
I ricorrenti sono congiunti di (OMISSIS), deceduta a seguito di un incidente stradale, provocato da (OMISSIS) che investiva, a bordo di un veicolo di proprieta’ di (OMISSIS), la vettura a bordo della quale la giovane (OMISSIS) viaggiava come terza trasportata.
Gli eredi della vittima agivano in giudizio contro il conducente ed il proprietario dell’altro veicolo nonche’ la compagnia di assicurazione, (OMISSIS) spa.
Il Tribunale in primo grado riconosceva la esclusiva responsabilita’ dei convenuti e li condannava, unitamente alla compagnia di assicurazione, al risarcimento dei danni sia iure proprio che iure hereditatis.
Proponeva appello la (OMISSIS), lamentando una stima eccessiva del risarcimento riconosciuto ai congiunti, e la Corte di Appello di Firenze, in riforma della decisione di primo grado, riduceva gli importi, ordinando ai danneggiati la restituzione delle somme percepite in eccesso.
Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione gli eredi, con cinque motivi.
Non v’e’ costituzione degli intimati.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- La ratio della decisione impugnata e’ intanto nella determinazione del risarcimento.
Secondo la corte di merito, il giudice di primo grado, nell’applicare le tabelle milanesi del 2008 (all’epoca vigenti), ha riconosciuto importi eccessivi, proprio alla luce di quei parametri; ha inoltre riconosciuto un danno cosiddetto biologico e morale terminale che, invece, considerata la breve sopravvivenza della vittima (15 giorni) in stato vegetativo, non andava riconosciuto.
2.- I motivi di ricorso sono cinque, ma il primo attiene alla eccepita inammissibilita’ dell’appello, per tardivita’.
I ricorrenti avevano eccepito in appello la tardivita’ della impugnazione, sostenendo che si applicasse il rito lavoro (riforma del 2006) anche al giudizio di secondo grado, nonostante il primo fosse soggetto ratione temporis a quello ordinario (perche’ introdotto ante riforma) e che dunque la tempestivita’ della impugnazione andasse verificata con riguardo al momento di deposito della citazione in appello (che andava qualificata come ricorso, proprio in ragione del rito da applicare), e con riferimento a tale momento doveva ritenersi tardiva. La corte di appello ha rigettato tale eccezione ritenendo non applicabile il rito lavoro in ragione della data (anteriore alla entrata in vigore della riforma) in cui era stata introdotta la causa.
Il motivo e’ infondato.
Infatti ” in materia di appello, nelle cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni personali conseguenti ad incidenti stradali, instaurate prima della data di entrata in vigore della L. 21 febbraio 2006, n. 102 (che prevedeva l’applicabilita’ alle stesse del rito del lavoro, senza pero’ dettare una disciplina transitoria), il gravame deve essere proposto con le forme e nei termini del rito ordinario allorche’ tali cause siano state trattate e decise in primo grado secondo tale rito, non ostando a tale esito neppure la sopravvenienza, nel corso delle stesse, della L. 18 giugno 2009, n. 69, articolo 53, il quale – nel disporre l’abrogazione dell’articolo 3 della L. n. 102 del 2006, ma sancendo la persistente applicabilita’ del rito del lavoro alle cause “de quibus”, pendenti alla data della propria entrata in vigore – ha, tuttavia, sottratto al regime dell’ultrattivita’ del rito del lavoro i giudizi introdotti con rito ordinario per i quali, a tale data, non fosse stata ancora disposta la modifica del rito ai sensi dell’articolo 426 c.p.c.” (Cass. 13311/2015).
La causa e’ stata introdotta dunque prima della riforma (del 2006), con la conseguenza che correttamente il gravame e’ stato proposto con il rito ordinario, e con l’ulteriore conseguenza che, ai fini della tempestivita’, rileva la notifica della citazione e non il suo deposito.
3.- Il secondo motivo lamenta violazione degli articoli 1226, 2056, 2059 c.c.. Secondo i ricorrenti, la corte di appello ha rifiutato di applicare le tabelle aggiornate, in corso di causa, ed ha basato il suo giudizio su quelle non piu’ valide.
Piu’ precisamente, il giudice di primo grado aveva fatto applicazione delle tabelle del 2008, che, pero’ in pendenza del giudizio di appello, erano state sostituite con tabelle piu’ aggiornate (quelle del 2014).
I ricorrenti hanno chiesto che si facesse allora applicazione di queste ultime, e tuttavia la corte ha rivisto il risarcimento alla luce sempre delle tabelle del 2008. Secondo i ricorrenti, il fatto di avere rivalutato il risarcimento sulla base di tabelle non piu’ valide, perche’ sostituite, ha costituito un vizio di valutazione del danno, censurabile come violazione di legge.
Il motivo e’ fondato.
Secondo un regola fissata da questa Corte: “in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando, all’esito del giudizio di primo grado, l’ammontare del danno alla persona sia stato determinato secondo il sistema “tabellare”, la sopravvenuta variazione – nelle more del giudizio di appello – delle tabelle utilizzate legittima il soggetto danneggiato a proporre impugnazione, per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, allorquando le nuove tabelle prevedano l’applicazione di differenti criteri di liquidazione o una rideterminazione del valore del “punto-base” in conseguenza di una ulteriore rilevazione statistica dei dati sull’ammontare dei risarcimenti liquidati negli uffici giudiziari, atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non piu’ attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall’articolo 1226 c.c.” (Cass. 25485/2016; Cass. 22265/2018).
Con la conseguenza che, la corte di appello, non avendo tenuto conto dell’aggiornamento delle tabelle, al momento in cui doveva decidere, ed avendo invece fatto riferimento a quelle ormai superate, non ha correttamente applicato il criterio equitativo nella stima del danno.
Va osservato che dal ricorso risulta che la questione era stata posta al giudice di appello e che le nuove tabelle di riferimento erano state allegate agli atti difensivi.
4.- Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano sempre violazione degli articoli 1226 e 2056 c.c., ma sotto un diverso profilo.
Lamentano infatti che la corte di appello non ha pienamente riconosciuto il danno cosiddetto terminale (morale e biologico).
La decisione impugnata ha infatti osservato che la ragazza e’, si, sopravvissuta per circa 15 giorni, ma in stato di incoscienza, e che dunque non ha potuto avere percezione della imminente fine o della gravita’ del suo stato, con la conseguente impossibilita’ di percepire una sofferenza morale; ed ha invece liquidato il danno biologico di quei quindici giorni in via equitativa.
Secondo i ricorrenti, invece, ai fini della liquidazione del danno biologico e morale terminale non ha rilevanza la lucidita’ della vittima, quanto la sopravvivenza oltre le 24 ore, quest’ultima accertata e pacifica.
Il motivo e’ infondato.
Va premesso che, per quanto diversamente possa apparire, non e’ assorbito dall’accoglimento del motivo precedente: quello, infatti, attiene al quantum, mentre questo motivo attiene all’an, ossia al diritto al risarcimento del danno terminale, parzialmente negato dalla corte di appello.
E’ nota la regola in tema di danno terminale. Altro e’ il danno biologico terminale, che e’ liquidabile iure hereditatis, ove via sia stata una sopravvivenza della vittima oltre le 24 ore, tempo convenzionalmente stimato perche’ il diritto al risarcimento “entri” nel patrimonio del danneggiato e si possa quindi trasmettere agli eredi, e tale danno si liquida a prescindere dalla incoscienza della vittima, trattandosi di una lesione oggettiva della salute, che rileva in quanto tale anche se non e’ percepita dal danneggiato (Cass. 18056/2019; Cass. 21060/2016) ed e’ un danno che si liquida in termini di invalidita’ temporanea (Cass. 16592/2019); altro e’ il danno morale cosiddetto terminale, che invece presuppone uno stato di coscienza della vittima, proprio perche’ consiste nella sofferenza dovuta alla consapevolezza della gravita’ delle lesioni.
Nel caso presente, la corte di appello ha dunque correttamente escluso il danno morale terminale, non essendovi prova dello stato cosciente della vittima, che, anzi, risultava in stato vegetativo, ed ha liquidato il danno biologico con il criterio della invalidita’ permanente, ma facendo riferimento ad un criterio equitativo anziche’ a quello tabellare suddetto.
Cosi che correttamente e’ stato negato il danno morale terminale, mentre e’ stato riconosciuto quello biologico terminale, senza che possa tuttavia, quanto a quest’ultimo avere alcun rilievo il metodo di liquidazione, che invero non e’ contestato specificamente dai ricorrenti.
4.- Quarto e quinto motivo sono assorbiti dall’accoglimento del secondo, poiche’ attengono al soggetto tenuto alla restituzione della somma ritenuta in eccesso dalla corte di appello, restituzione che, alla luce del criterio di stima su indicato, potrebbe essere messa in discussione da una diversa valutazione dell’ammontare.
Il ricorso va pertanto accolto nei termini indicati e la sentenza cassata con rinvio al giudice di appello, che dovra’ nuovamente stimare il risarcimento tenendo conto delle tabelle aggiornate (2014) anche per quanto riguarda il danno biologico terminale.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo; rigetta il primo ed il terzo, assorbiti quarto e quinto. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione, anche per le spese.
Procedimento civile – Responsabilità aggravata – Poteri del giudice in sede di pronuncia sulle spese – Condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata. – Questione di legittimità costituzionale: art. 96, c. 3°, del codice di procedura civile. – Non fondatezza – Inammissibilità
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale ordinario di Verona, nel procedimento vertente tra G. L. e il Banco Popolare società cooperativa, con ordinanza del 23 gennaio 2018, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 maggio 2019 il Giudice relatore Giovanni Amoroso.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile per contrasto con gli artt. 23 e 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui – stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – non prevede l’entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna.
Il giudice, premesso di dover decidere su una domanda di restituzione di somme percepite a titolo di interessi nel corso di un rapporto di conto corrente bancario proposta da G. L. nei confronti del Banco popolare società cooperativa, riferisce che «nel caso di specie, data l’inconsistenza degli assunti attorei, viene in rilievo il disposto dell’art. 96, terzo comma, codice di procedura civile introdotto dalla legge n. 69/2009».
Il Tribunale rimettente – ritenendo che il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. debba essere letto congiuntamente al primo sul risarcimento del danno in caso di temerarietà della lite – ravvisa la sussistenza di tale presupposto nella palese incompatibilità tra la pretesa fatta valere con la citazione e l’impegno assunto con l’istituto bancario a mezzo del contratto scritto di conto corrente. In particolare – riferisce il giudice rimettente – l’attore ha lamentato l’applicazione di interessi passivi ultralegali non pattuiti, variati unilateralmente in misura superiore al tasso soglia, nonché l’utilizzo del criterio della capitalizzazione. L’istituto convenuto ha invece dimostrato, mediante produzione documentale, che le condizioni contestate erano state pattuite ed erano conformi alla delibera del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) che individua le modalità e i criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria.
Ricorda, quindi, che la natura prevalentemente sanzionatoria dell’obbligazione pecuniaria prevista dalla disposizione censurata è stata riconosciuta da questa Corte nella sentenza n. 152 del 2016 e che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno, a loro volta, riconosciuto, nella sentenza 5 luglio 2017, n. 16601, la natura polifunzionale della tutela risarcitoria, caratterizzata da una finalità non esclusivamente riparatoria, ma anche sanzionatoria (cosiddetti danni punitivi). In tale ultima pronuncia è stato puntualizzato che «[o]gni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., (correlato agli articoli 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario». Pertanto, «deve esservi precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità)».
Alla luce di tali affermazioni, il rimettente osserva che mentre le condotte che integrano la responsabilità processuale aggravata (primo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.) risultano sufficientemente determinate, per contro, le conseguenze che gravano sul soccombente, ove il giudice faccia applicazione del terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., non sono preventivabili, atteso che la norma non indica l’entità minima e massima della somma oggetto della condanna; da ciò, la violazione dei parametri indicati, senza che sia possibile un’interpretazione adeguatrice della norma censurata.
2.– Con atto depositato il 15 gennaio 2019, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate.
In punto di ammissibilità, l’Avvocatura generale rileva che il Tribunale non ha illustrato i motivi di contrasto della disposizione impugnata rispetto ai parametri costituzionali invocati.
Nel merito, sostiene che le questioni sarebbero infondate. Richiama la sentenza n. 152 del 2016 di questa Corte, evidenziando che la condanna di cui all’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. «“[…] è testualmente (e sistematicamente), inoltre, collegata al contenuto della “pronuncia sulle spese di cui all’art. 91”; e la sua adottabilità “anche d’ufficio” la sottrae all’impulso di parte e ne conferma, ulteriormente, la finalizzazione alla tutela di un interesse che trascende (o non è, comunque, esclusivamente) quello della parte stessa, e si colora di connotati innegabilmente pubblicistici”».
Quanto ai criteri di quantificazione, l’Avvocatura osserva che la disposizione riconosce al giudice un potere discrezionale, funzionale alla definizione, caso per caso, dell’entità della somma oggetto della condanna. Richiama in particolare la giurisprudenza (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 13 settembre 2018, n. 22272) sulla liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 del codice civile.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 23 gennaio 2018, il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile per contrasto con gli artt. 23 e 25, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui – stabilendo che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata» – non prevede l’entità minima e quella massima della somma oggetto della condanna.
Secondo il rimettente la disposizione censurata, assegnando al giudice un potere ampiamente discrezionale senza fissare né un massimo né un minimo della somma al cui pagamento la parte soccombente può essere condannata, violerebbe la riserva di legge prescritta dall’art. 23 Cost., nonché il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.
2.– Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato.
Il Tribunale rimettente ha puntualmente descritto l’oggetto della controversia e ha plausibilmente ritenuto che l’azione promossa dall’attore avesse la connotazione della lite temeraria ai sensi dell’art. 96, primo comma, cod. proc. civ.
Su questo presupposto di fatto, il Tribunale ritiene di poter fare applicazione, in particolare, del terzo comma di tale disposizione che prevede che il giudice, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 cod. proc. civ., può, anche d’ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, oltre alle spese di lite.
Sussiste, quindi, la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, avendo il Tribunale puntualmente motivato in ordine alla ritenuta applicabilità della disposizione censurata e sufficientemente argomentato il dubbio di non manifesta infondatezza delle questioni in ordine ai due invocati parametri.
Parimenti, con motivazione altrettanto plausibile, ha escluso la possibilità di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.
Sotto ogni profilo, quindi, le questioni sollevate sono ammissibili.
3.– È invece inammissibile la questione sollevata dal giudice rimettente con riferimento al principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., recante la più stringente prescrizione della riserva di legge, che è assoluta (sentenza n. 180 del 2018): parametro questo impropriamente evocato perché riguarda le sanzioni penali, nonché quelle amministrative «di natura sostanzialmente punitiva» (sentenza n. 223 del 2018) e non già prestazioni personali e patrimoniali imposte per legge, alle quali fa invece riferimento l’art. 23 Cost.
L’obbligazione di corrispondere la somma prevista dalla disposizione censurata, pur perseguendo una finalità punitiva, costituendo un «peculiare strumento sanzionatorio» con una «concorrente finalità indennitaria» (sentenza n. 152 del 2016), non identifica una sanzione in senso stretto, espressione di un potere sanzionatorio.
Si tratta invece di un’attribuzione patrimoniale in favore della parte vittoriosa nella controversia civile e a carico della parte soccombente; prestazione che, in quanto istituita per legge, ricade nell’ambito dell’altro parametro evocato dal rimettente, l’art. 23 Cost., recante la prescrizione della riserva di legge, che è solo relativa (sentenze n. 269 e n. 69 del 2017, e n. 83 del 2015).
4.– Passando al merito della questione sollevata con riferimento a tale ultimo parametro, va premesso il contesto normativo in cui si colloca la disposizione censurata e che concerne il regime della soccombenza della parte nella lite civile.
L’art. 91 cod. proc. civ. prevede in generale che il giudice, con la sentenza che chiude il processo, condanni la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquidi l’ammontare insieme con gli onorari di difesa.
Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave – aggiunge l’art. 96, primo comma, cod. proc. civ. – il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza.
Per lungo tempo il regime della soccombenza si è retto su questo doppio binario: quello ordinario del rimborso delle spese di lite e quello aggravato del risarcimento del danno in caso di lite temeraria.
Nel 2006, in occasione di un intervento riformatore del giudizio civile di cassazione, il legislatore aveva introdotto, per la prima volta, una prescrizione inedita a corredo di tale regime della soccombenza. Infatti, l’art. 385 cod. proc. civ., nel disciplinare le spese di lite con il richiamo dell’ordinario regime del codice di rito, aveva previsto, al quarto comma, aggiunto dall’art. 13 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della L. 14 maggio 2005, n. 80), che «[q]uando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’art. 375, la corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave»; disposizione questa che – «diretta a disincentivare il ricorso per cassazione» (ordinanza n. 435 del 2008) – era destinata ad avere vita breve perché abrogata dall’art. 46, comma 20, della legge 18 giugno 2009 n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile).
La misura suddetta si traduceva in una somma diretta a sanzionare sia il ricorrente che, con colpa grave, avesse proposto il ricorso per cassazione, sia il resistente che parimenti versasse in colpa grave nel resistere con controricorso; somma che era sì determinata secondo un criterio equitativo, ma con un limite ben preciso parametrato al doppio del massimo delle tariffe professionali. In giurisprudenza (Corte di cassazione, sezione terza civile, sentenza 7 ottobre 2013, n. 22812) si è qualificata tale somma come «una vera e propria sanzione processuale dell’abuso del processo perpetrato da una delle due parti»; abuso che, nella specie, si è ritenuto sussistere, ad esempio, nella proposizione di un ricorso inammissibile perché tardivo. Le sezioni unite civili (Corte di cassazione, sentenza 4 febbraio 2009, n. 2636) hanno fatto applicazione di tale disposizione in un caso in cui il ricorso era inammissibile perché la procura non era stata rilasciata in epoca anteriore alla notificazione del ricorso. In entrambi questi precedenti la somma aggiuntiva è stata determinata secondo un criterio equitativo sì, ma nel rispetto del limite massimo di legge.
5.– Come accennato, nel 2009 tale disposizione è stata abrogata, ma contestualmente una norma analoga, seppur non identica, è stata prevista nell’ordinaria disciplina delle spese di lite riferita a tutti i giudizi e non più solo al giudizio di cassazione.
È stato così introdotto, dall’art. 45, comma 12, della legge n. 69 del 2009, il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.che – come già ricordato – prevede che «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
La funzione di questa somma è rimasta la stessa di quella prevista dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ.: una sanzione per l’abuso del processo a opera della parte soccombente mediante la condanna di quest’ultima, anche d’ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al (o indipendentemente dal) risarcimento del danno per lite temeraria.
Però, rispetto al quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ., il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. presenta un duplice elemento differenziale.
Da una parte, non si prevede più, come presupposto della condanna, la «colpa grave» della parte soccombente, perché l’incipit della disposizione censurata fa riferimento a «ogni caso», scilicet, di responsabilità aggravata che, come enunciato nella rubrica della disposizione, ne costituisce l’oggetto, sicché devono intendersi richiamati i presupposti del primo comma: aver la parte soccombente agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 aprile 2018, n. 9912).
D’altra parte, soprattutto rileva, al fine della questione in esame, che il criterio di quantificazione della somma, oggetto della possibile condanna, è rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari.
6.– Tale nuova disposizione (art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.) è stata inizialmente riprodotta – in termini analoghi, anche se non identici – nell’art. 26, secondo comma, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) che ha parimenti previsto, nei giudizi innanzi al giudice amministrativo, la possibilità per il giudice, nel pronunciare sulle spese, di condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati. Al pari dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., anche l’art. 26 cod. proc. amm. prevedeva solo il criterio equitativo per la quantificazione della somma suddetta e, inizialmente, non conteneva alcun limite, diversamente dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ.
Ciò è apparso al legislatore costituire una manchevolezza da emendare. È quanto emerge chiaramente dai lavori preparatori del disegno di legge 2486-A, di conversione in legge del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, in legge 11 agosto 2014, n. 114. Nel parere del Comitato per la legislazione si segnala l’opportunità di fissare criteri di quantificazione della somma in questione. Si ha, allora, che l’art. 41 del d.l. n. 90 del 2014, recante una disposizione di contrasto dell’abuso del processo, nel testo formulato in sede di conversione in legge, ha novellato l’art. 26 cod. proc. amm., il cui secondo periodo del primo comma, nella formulazione attualmente vigente, prevede che «il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati».
Mette conto anche ricordare che l’art. 31 del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), recante disposizioni per la regolazione delle spese processuali nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, contiene, al comma 4, una norma analoga a quella censurata: il giudice, quando pronuncia sulle spese, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte, o se del caso dello Stato, di una somma equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati.
Quanto al processo tributario, l’art. 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nel testo da ultimo sostituito dall’art. 9, comma 1, lettera f), numero 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156, recante «Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione degli articoli 6, comma 6, e 10, comma 1, lettere a) e b), della legge 11 marzo 2014, n. 23», prevede che si applicano le disposizioni di cui all’art. 96, commi primo e terzo, cod. proc. civ.
Tutte queste disposizioni – che integrano la disciplina delle spese di lite in sistemi processuali distinti (civile, amministrativo, contabile, tributario), ma ormai tra loro comunicanti dopo l’introduzione della translatio iudicii (art. 59 della legge n. 69 del 2009) – seppur declinate con alcune varianti, hanno una matrice comune: il contrasto dell’abuso del processo, sanzionato, in particolare, con la condanna della parte soccombente a favore della parte vittoriosa di una somma equitativamente determinata dal giudice.
7.– Questa obbligazione, che si affianca al regime del risarcimento del danno da lite temeraria, ha natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa (sentenza n. 152 del 2016). Ciò perché l’attribuzione patrimoniale – a differenza di varie altre norme del codice di procedura civile che sanzionano con pene pecuniarie specifiche ipotesi di abuso del processo, quali quelle dell’inammissibilità o rigetto della ricusazione del giudice (art. 54, terzo comma, cod. proc. civ.) e dell’arbitro (art. 815, quinto comma, cod. proc. civ.), o dell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata (artt. 283, secondo comma, e 431, quinto comma, cod. proc. civ.), o dell’inammissibilità, improcedibilità o rigetto dell’opposizione di terzo (art. 408 cod. proc. civ.) – è riconosciuta proprio in favore della parte vittoriosa, al di là del danno risarcibile per lite temeraria, e non già – come si sarebbe portati a ritenere – in favore dell’Erario, benché sia anche l’amministrazione della giustizia a subire un pregiudizio come disfunzione e intralcio al suo buon andamento.
Questa natura sanzionatoria della previsione censurata risulta, in tal modo, ibridata da una funzione indennitaria, realizzando complessivamente un assetto non irragionevole (sentenza n. 152 del 2016).
8.– Ciò premesso, la questione sollevata con riferimento all’art. 23 Cost. non è fondata.
9.– Va innanzi tutto precisato che – diversamente da quanto sembra ritenere l’Avvocatura generale – l’equità, alla quale fa riferimento la disposizione censurata, non è assimilabile al parametro di valutazione, previsto in generale dall’art. 1226 del codice civile, come alternativo e sussidiario rispetto ai criteri legali di quantificazione del danno risarcibile. Secondo tale ultima disposizione, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con «valutazione equitativa». Si tratta di un criterio di misurazione di qualcosa (il danno contrattuale o aquiliano) che esiste nell’an, ma che il danneggiato non riesce a provare come perdita subita e mancato guadagno secondo il canone legale degli artt. 1223 e 2056 cod. civ. Può supplire allora un criterio di liquidazione alternativo e sussidiario di tale grandezza predata, quale oggetto di un’obbligazione civile che trova la sua fonte nella generale disciplina della responsabilità contrattuale o extracontrattuale: la valutazione equitativa. Ciò che peraltro può occorrere proprio in ipotesi di risarcimento del danno da lite temeraria, ai sensi del primo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., che ben potrebbe essere determinato con valutazione equitativa del giudice ai sensi dell’art. 1226 cod. civ.
Né, per la stessa ragione, la norma censurata è assimilabile alla «valutazione equitativa delle prestazioni» ai sensi dell’art. 432 cod. proc. civ., che parimenti presuppone che sia certo il diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta dalla parte obbligata. Analoga può essere la valutazione equitativa del giudice nel caso di accoglimento dell’azione di classe prevista dall’art. 140-bis, comma 12, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229).
Invece, il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ, disposizione censurata, prevede che è il giudice a determinare l’an e il quantum della prestazione patrimoniale imposta alla parte soccombente, già obbligata ex lege al rimborso delle spese processuali e al risarcimento (integrale) del danno da lite temeraria. La valutazione equitativa del giudice non si limita a quantificare una grandezza predata, ma dà vita a una nuova obbligazione avente a oggetto una prestazione patrimoniale ulteriore e distinta.
10.– Né tanto meno si tratta di una pronuncia “secondo equità”, alternativa, in via derogatoria, alla pronuncia “secondo diritto”, quale quella di cui all’art. 113 cod. proc. civ., ovvero quella richiesta dalle parti in caso di diritti disponibili ai sensi dell’art. 114 cod. proc. civ.
In tal caso l’equità viene in rilievo come canone di giudizio per la decisione della lite. È questo, in generale, il parametro valutativo che il giudice di pace è chiamato a utilizzare per la decisione di controversie di minor valore; parametro che peraltro deve ritenersi necessariamente integrato dai «principi informatori della materia» (sentenza n. 206 del 2004), divenuti «principi regolatori della materia» (art. 339, terzo comma, cod. proc. civ.) dopo la già citata riforma processuale del 2006.
Anche la decisione degli arbitri può essere pronunciata secondo equità (art. 822 cod. proc. civ.), mentre le regole di diritto relative al merito della controversia vengono in rilievo, all’opposto, solo se espressamente previste dalle parti, nel compromesso o nella clausola compromissoria, o dalla legge (art. 829, terzo comma, cod. proc. civ.).
Ma in tutte queste ipotesi l’equità come canone di giudizio non dà luogo ad alcuna nuova prestazione patrimoniale, differentemente dalla disposizione attualmente censurata.
Parimenti su un piano diverso operano le misure di coercizione indiretta, quale quella di cui all’art. 614-bis cod. proc. civ., che prevede che il giudice fissa, su richiesta della parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento, dove peraltro rileva, all’opposto, un criterio di non manifesta iniquità della somma così determinata.
In breve, nel terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., oggetto della questione in esame, l’equità – lungi dall’essere criterio di misurazione di una grandezza predata ovvero parametro di giudizio alternativo alle regole di diritto o astreinte processuale – costituisce criterio integrativo di una fattispecie legale consistente – com’è appunto nella norma censurata – in una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge.
Viene allora in rilievo la riserva (relativa) di legge di cui all’art. 23 Cost., parametro correttamente evocato dal giudice rimettente nel solco della già richiamata pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione (Cassazione, sezioni unite civili, 5 luglio 2017, n.16601).
11.– Con riferimento a tale parametro va ribadito il principio secondo cui «[l]a riserva di legge, di carattere relativo, prevista dall’art. 23 Cost. non consente di lasciare la determinazione della prestazione imposta all’arbitrio dell’ente impositore, ma solo di accordargli consistenti margini di regolazione delle fattispecie. La fonte primaria non può quindi limitarsi a prevedere una prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini, ma deve invece stabilire sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, idonei a delimitare la discrezionalità dell’ente impositore nell’esercizio del potere attribuitogli, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dai pertinenti precetti legislativi» (sentenza n. 69 del 2017).
Il rispetto della riserva di legge, seppur relativa, prescritta dall’art. 23 Cost. richiede che la fonte primaria stabilisca sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dalla legge (sentenze n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011).
Numerose sono le pronunce di illegittimità costituzionale di prestazioni imposte senza una sufficiente determinazione dei criteri per la loro quantificazione (ex plurimis, sentenze n. 174 del 2017, n. 83 del 2015, n. 33, n. 32 e n. 22 del 2012).
Si tratta però di fattispecie di prestazioni varie, essenzialmente di natura tributaria, la cui quantificazione era stata rimessa all’autorità amministrativa.
Invece, l’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. assegna al giudice, nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale, il compito di quantificare la somma da porre a carico della parte soccombente e a favore della parte vittoriosa sulla base di un criterio equitativo. Il legislatore, esercitando la sua discrezionalità particolarmente ampia nella conformazione degli istituti processuali (ex plurimis, sentenza n. 225 del 2018), ha fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell’attività maieutica di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di cassazione (sentenza n. 102 del 2019), può specificare – così come ha già fatto – il precetto legale.
Si ha, infatti, che nella fattispecie, la giurisprudenza di legittimità, anche recente, ha, appunto, precisato che il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., rinviando all’equità, richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e quindi la somma da tale disposizione prevista va rapportata «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa» (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 11 ottobre 2018, n. 25177 e n. 25176).
Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, è peraltro coerente e omogeneo rispetto sia a quello originariamente previsto dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ. (che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari), sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell’art. 26 cod. proc. amm. (che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali).
Può dirsi, pertanto, che la somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa ha sufficiente base legale e quindi – ferma restando la discrezionalità del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in diminuzione, la sua quantificazione – è comunque rispettata la prescrizione della riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., sollevata, in riferimento all’art. 23 Cost., dal Tribunale ordinario di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 maggio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
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