Requisito del carattere prevalentemente personale dell’attività dell’agente – Ipotesi in cui l’agente eserciti un’opera di reclutamento, formazione e coordinamento dell’attività di altri agenti
Orbene, questa Corte già con sentenza n. 6482 del 01/04/2004 ha avuto modo di affermare che nel contratto di agenzia la prestazione dell’agente consiste in atti di contenuto vario e non predeterminato che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente, quali il compito di propaganda, la predisposizione dei contratti, la ricezione e la trasmissione delle proposte al preponente per l’accettazione;l’attività tipica dell’agente di commercio non richiede, quindi, necessariamente la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile alla prestazione dedotta nel contratto di agenzia anche quando il cliente, da cui proviene la proposta di contratto trasmessa dall’agente, non sia stato direttamente ricercato da quest’ultimo ma risulti acquisito su indicazioni del preponente o in qualsiasi altro modo, purché tuttavia sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione; condizione questa però evidentemente mancante nel caso di specie qui in esame.
Inoltre (v. Cass. lav. n. 6291 del 22/06/1990), l’attività di promozione della conclusione di contratti per conto del preponente, che costituisce l’obbligazione tipica dell’agente, non può consistere in una mera attività di propaganda, da cui possa solo indirettamente derivare un incremento delle vendite, ma deve consistere nell’attività di convincimento del potenziale cliente ad effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente, atteso che è proprio con riguardo a questo risultato che viene attribuito all’agente il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi per suo tramite e andati a buon fine, e che è configurabile l’obbligo – a carico dell’agente medesimo – allo star del credere
CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 agosto 2018, n. 20453
Contratto di agenzia – Configurabilità – Incarichi accessori non snaturano il rapporto – Requisito del carattere prevalentemente personale dell’attività dell’agente – Ipotesi in cui l’agente eserciti un’opera di reclutamento, formazione e coordinamento dell’attività di altri agenti
Fatti di causa
Il giudice del lavoro di Modena rigettava la domanda proposta da M. S., volta ad ottenere la condanna della convenuta G. s.a. al pagamento dell’indennità di fine rapporto e dei danni da recesso illegittimo, sul presupposto della conclusione tra le parti di un contratto di agenzia. Tale rigetto veniva appellato dalla M., sostenendo l’erroneità della gravata pronuncia, che senza adeguata motivazione aveva escluso nella specie la configurabilità di un rapporto di agenzia desumibile, invece, dal contenuto del contratto di prestazione di servizi, dai servizi resi e dalle modalità di calcolo del compenso.
La Corte d’Appello di Bologna con sentenza n. 675 in data 11 ottobre / 13 novembre 2012 rigettava l’interposto gravame, disattendendo in via preliminare l’eccezione di nullità dell’impugnazione, osservando tra l’altro che nella specie era pacifico che l’attività principale e assolutamente prevalente espletata dall’attrice fosse la creazione, l’organizzazione e il controllo della rete commerciale, laddove i contatti con i clienti, e quindi lo specifico lavoro di promozione delle vendite, aveva carattere residuale ed anzi sporadico, all’uopo richiamando l’interrogatorio libero reso dalla stessa M.. Né d’altra parte era possibile configurare un contratto di agenzia in presenza di incarichi accessori ed in cui mancava il contenuto principale dell’attività di promozione della vendita presso i clienti. Gli incarichi accessori, come il coordinamento di altri agenti, non snaturavano il rapporto di agenzia, per la cui configurabilità non poteva comunque prescindersi dalla prestazione principale, però nel caso di specie mancante. Al riguardo venivano richiamati il principio secondo cui il requisito del carattere prevalentemente personale dell’attività dell’agente – con conseguente riconducibilità del rapporto nello schema della parasubordinazione ai sensi dell’articolo 409 numero tre c.p.c. – è configurabile anche nel caso in cui il preposto associ alla propria prestazione personale di agente una ulteriore prestazione, costituita dall’attività di coordinamento di altri agenti dello stesso preponente (ai cui scopi è funzionale tale ulteriori attività) e compensata con una percentuale sulle provvigioni dovute agli agenti coordinati (Cass. n. 687/94). Inoltre, con particolare riferimento all’ipotesi in cui l’agente eserciti un’opera di reclutamento, formazione e coordinamento dell’attività di altri agenti e questi siano legati da diretto rapporto non con il coordinatore, ma con la società preponente, si è ritenuto di poter ravvisare una prestazione di carattere personale, “configurandosi l’opera predetta come integrativa di quella principale (diretta alla conclusione degli affari nella preponente)” (Cass. 8148/92). Pertanto, risultava infondata la pretesa dell’appellante di qualificare come agenzia il rapporto in questione. Ed in considerazione del pacifico difetto dell’attività principale, qualificante il contratto di agenzia, correttamente erano già state ritenute irrilevanti le prove testimoniali dedotte.
Avviso la sentenza di appello M. S., quale titolare della Agenzia Commerciale Moda A.C.M., con sede in Roma al viale Regina Margherita 1, ha proposto ricorso per cassazione come da atto notificato il 9 maggio 2013, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la società G. S.A. con sede in Erandio – Bilbao (Spagna), mediante controricorso in data 18 giugno 2013 (procura speciale autenticata da notaio spagnolo – traduzione italiana asseverata presso ufficio giudice di pace Verona il 4 giugno 2013 – con apostille ex convenzione de L’Aja 5 ottobre 1961). Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..
Prima ancora di esaminare i motivi di ricorso, va respinta la preliminare eccezione opposta dalla controricorrente, secondo cui mancherebbe la firma della ricorrente in calce alla procura speciale come da copia del ricorso notificato alla società. Infatti, l’originale dell’atto, depositato per l’ufficio (cfr. in part. pagine da 70 a 72), datato sei maggio 2013 reca la sottoscrizione dell’avv. Corrado Spaggiari del foro di Reggio Emilia (cassazionista), seguita da Procura Speciale con domicilio eletto in Roma presso lo studio dell’avv. Maurizio de Stefano, cui ampio mandato veniva conferito disgiuntamente insieme all’avv. Marzia Fusi del foro di Modena ed al suddetto avv. C. Spaggiari, con il calce altresì la firma autografa di M. S., quale titolare dell’agenzia commerciale Moda di Musi S., autenticata quindi mediante sottoscrizioni dei suddetti avv.ti C. Spaggiari e M. Musi, il tutto seguito dalla relata di notifica in data 9 maggio 2013.
Ciò premesso, con il 1° motivo di ricorso è stato denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. (contestandosi la motivazione dell’impugnata sentenza, nonché con la seconda parte B la omessa analisi /valutazione circa la creazione da parte ricorrente del mercato italiano e circa la corresponsione di provvigioni sulla merce venduta – era stata ACM ad introdurre G. nel mercato italiano, impresa del tutto assente in precedenza, prima dell’anno 1999 – vendite operate sul territorio nazionale a mezzo ACM secondo gli importi specificante indicati dal 2000 per ciascun anno sino alla primavera / estate del 2006. Inoltre, ai sensi dell’art. III comma I del contratto era previsto che ACM percepisse esclusivamente come remunerazione per la creazione della Rete Commerciale Agenti e per la sua gestione, controllo e motivazione, una percentuale in conformità con l’indicata scaletta, sul prezzo delle vendite, in condizione ex-works, perfezionata e pagata da G., che fossero state concluse grazie al lavoro svolto per la rete di Agenti captati da ACM per G.; percentuale nella quale era incluso l’importo corrispondente ad ogni nuovo contratto di agenzia firmato da G. e concluso grazie la lavoro svolto da ACM. Per di più la stessa G. non aveva mai smentito o contestato tali circostanze e all’udienza del 20 giugno 2007 aveva anche versato la somma di € 34.586,21 a titolo di provvigioni – fatti omessi dalla Corte territoriale. Dunque, era stato omesso l’esame della circostanza per cui era stata ACM ad introdurre nel mercato italiano la ditta mandante, nonché del fatto che la M. veniva retribuita con provvigioni sulla merce venduta, sicché con motivazione viziata era stata esclusa l’esistenza del contratto di agenzia C omessa analisi / valutazione del testo inerente al “contratto di prestazione di servizi”, laddove l’omessa analisi del suo contenuto aveva quindi indotto la Corte d’Appello ad una erronea valutazione del rapporto negoziale in questione).
Con 2° motivo la ricorrente ha denunciato la Insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione – art. 360 n. 4 – in relazione all’art. 132 c.p.c.. Tra l’altro, la ricorrente aveva avuto modo di precisare personalmente nel corso del primo grado di giudizio, senza essere smentita, che lavoro svolto a favore della G. per sei anni consecutivi aveva impegnato circa il 70% della sua intera attività; che detta attività veniva svolta dalla propria agenzia in piena autonomia e che il rischio di tali attività gravava tutto sull’agente.
Se, quindi, la Corte di merito avesse considerato e valorizzato i fatti di causa sarebbe certamente giunta alla conclusione che la ricorrente svolgeva prevalentemente, stabilmente ed in piena autonomia organizzativa, nonché con rischio reddituale a proprio carico, attività di promozione delle vendite, sicché era da considerarsi a tutti gli effetti una agente ai sensi dell’articolo 1742 del codice civile.
Con il 3° la ricorrente ha lamentato violazione o falsa applicazione dell’articolo 1742 c.c., in relazione all’articolo 360 n. 3 c.p.c., censurando l’argomentazione svolta dalla Corte territoriale, secondo cui l’operato di essa M. non era riconducibile a quanto previsto dall’articolo 1742, pur avendo la stessa creato, organizzato e controllato la rete commerciale di G., perché non vi era stata un’attività di convincimento del potenziale cliente, all’attività di promozione, dietro corrispettivo, in ordine alla conclusione di contratti in una certa zona, contratti quindi anche diversi dalla compravendita, sicché la promozione può aver luogo in qualunque forma ed anche in modo indiretto. L’attività tipica dell’agente non richiede quindi, necessariamente, la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile la prestazione dedotta nel contratto, anche quando il cliente, da cui proviene la proposta di contratto trasmessa dall’agente, non sia stato direttamente ricercato da quest’ultimo, ma risulti acquisito tramite altri agenti individuati coordinati dallo stesso. Di conseguenza, secondo parte ricorrente, ai sensi del citato art. 1742 non rilevano le particolari modalità di acquisizione della clientela, a favore della preponente, potendo l’agente provvedere a contattare i potenziali clienti tanto con la loro ricerca attraverso visite personali quanto a mezzo della rete di agenti dallo stesso creata. Nel caso in esame il contratto intercorso tra le parti prevedeva all’articolo 1, relativamente all’oggetto dello stesso, la creazione, lo sviluppo e il controllo nonché il seguimento della rete commerciale di G. in Italia mediante la ricerca la selezione e la presentazione di agenti da parte di A.C.M. a G., con la finalità che dopo l’approvazione e la conformità da parte della società dei corrispondenti contratti, (tali agenti) passassero ad integrare la rete di agenti G. in Italia. A.C.M. ugualmente si impegnava a realizzare il controllo, seguimento e motivazione della rete di agenti in Italia, tutto ciò con la finalità di incrementare la presenza e la vendita di G. in detto territorio tramite la rete commerciale a tal fine creata. Inoltre, A.C.M. non avrebbe potuto esercitare l’attività e le funzioni definite nel contratto fuori dal territorio compreso in Italia. Pertanto, alla stregua di quanto previsto in contratto, secondo la ricorrente era evidente che lo stesso rientrava a pieno titolo tra quelli di agenzia, poiché l’attività promozionale della M. a favore di G. veniva esercitata attraverso altri agenti ricercati e selezionati dalla ricorrente, in base a quanto in proposito ritenuto certamente possibile da dottrina e giurisprudenza.
Con il 4° motivo di ricorso è stata, infine, dedotta la nullità del procedimento – art. 360 n. 4 c.p.c. – omesso esame della domanda di pagamento relativa a provvigioni dovute in ragione di complessivi 410.784,77 euro (da cui detrarre la somma di 34.586,21 euro versati da G. all’udienza del 20-06-2007 in primo grado, trattenuti dalla ricorrente a titolo di acconto, con conseguente differenza a credito pari a 376.198,56 euro), essendosi limitata a esaminare la domanda di condanna la pagamento dell’indennità di per cessazione del dedotto rapporto di agenzia, così restringendo il suo esame al problema della qualificazione del rapporto contrattuale. Le provvigioni rivendicate traevano origine e titolo dal contratto a suo tempo sottoscritto dalle parti e non dipendevano dalla qualificazione del rapporto negoziale, sicché tali provvigioni erano dovute da parte convenuta a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto. Non vi era stata comunque alcuna contestazione circa la validità del contratto sottoscritto dalle parti.
Tanto premesso, il ricorso va disatteso, risultando l’atto in larga parte inammissibile ed in parte altresì infondato, alla luce delle seguenti considerazioni.
L’atto difetta, in primo luogo, di adeguate e sufficienti allegazioni, in violazione in particolare di quanto invece prescritto a pena d’inammissibilità dall’art. 366, co. 1 nn. 3 e 6, c.p.c.. Mancano, in particolare, una esauriente esposizione di quanto dedotto con il ricorso introduttivo del giudizio (non bastando di certo le sole conclusioni di merito ed istruttorie ivi formulate), con la memoria difensiva della convenuta (di modo che non è nemmeno possibile desumere significative e rilevanti omesse contestazioni) e con la sentenza (di rigetto) pronunciata dal giudice di primo grado (anch’essa rilevante per poter appieno comprendere le ragioni della pronuncia di appello, che la confermava con il rigetto dell’interposto gravame, sicché le argomentazioni svolte con la prima vanno necessariamente lette insieme alle motivazioni integratrici della seconda – v. sul punto in part. Cass. sez. un. civ. n. 7074 del 20/03/2017, secondo cui ove la sentenza di appello sia motivata “per relationem” alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366, n. 6, c.p.c. occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonché le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali.
Parimenti, secondo Cass. lav. n. 25482 del 02/12/2014, il principio di autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione trova applicazione anche con riferimento alla violazione di norme processuali – v. ancora Cass. Ili civ. n. 10605 del 30/04/2010, secondo cui ai fini della ammissibilità del motivo con il quale si lamenta un vizio del procedimento ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. è necessario che il ricorrente, alla luce del principio di autosufficienza dell’impugnazione, indichi le espressioni con cui detta deduzione è stata formulata nel giudizio di merito, non potendo a tal fine limitarsi ad asserire che si tratti di fatto pacifico, allorché neppure individui l’allegazione con la quale esso sarebbe stato introdotto e mantenuto nella controversia, posto che è pacifico soltanto il fatto che la parte abbia allegato, in modo tale che la controparte possa ammetterlo direttamente ed espressamente oppure in modo indiretto, attraverso l’affermazione di un fatto che lo presupponga – Cass. V civ. n. 12664 del 20/07/2012: il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo – Cass. lav. n. 896 del 17/01/2014 in tema di errores in procedendo ha inoltre chiarito che il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda presuppone ad ogni modo la rituale formulazione della censura, rispettando, in particolare, il principio di autosufficienza del ricorso, da intendere come un corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione, in quanto l’esame diretto degli atti e dei documenti è circoscritto a quelli che la parte abbia specificamente indicato ed allegato).
Nella specie, inoltre, l’anzidetto principio di autosufficienza non risulta osservato nemmeno riguardo al ricorso d’appello (che devolve la cognizione della causa nei soli limiti di quanto all’uopo dedotto nei relativi motivi, tenuto conto delle previsioni di legge in materia, specialmente agli artt. 112 e 434 c.p.c., di guisa che l’appello costituisce rimedio processuale da intendere soltanto come revisio prioris instantiae e non già quale novum judicium. Cfr. Cass. lav. n. 4854 del 28/02/2014. V. inoltre, tra le altre, Cass. IlI civ. n, 1108 del 20/01/2006: anche nel rito del lavoro l’appello non ha effetto pienamente devolutivo, e, pertanto, ai sensi degli artt. 434, 342 e 346 cod. proc. civ., il giudice del gravame può conoscere della controversia dibattuta in primo grado solo attraverso l’esame delle specifiche censure mosse dall’appellante, attraverso la cui formulazione si consuma il diritto di impugnazione, e non può estendere l’indagine su punti della sentenza di primo grado che non siano stati investiti, neanche implicitamente, da alcuna doglianza, per cui deve ritenersi formato il giudicato interno – rilevabile anche d’ufficio – in ordine alle circostanze poste dal giudice di primo grado alla base della sua decisione in relazione alle quali non siano stati formulati specifici motivi di appello. Conformi Cass. nn. 10937 e 14507 del 2003. V. altresì Cass. II civ. n. 11935 in data 08/08/2002 e Cass. lav. n. 18722 del 16/09/2004 nonché n. 7208 del 15/04/2004. Cfr. inoltre Cass. IlI civ. n. 85 del 10/01/1975: i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, statuizioni e questioni che hanno formato oggetto di gravame con l’atto di appello, talché nel giudizio di cassazione non possono essere prospettate per la prima volta questioni nuove o nuovi temi di contestazione involgenti accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito. In senso analogo Cass. lav. n. 1170 – 08/03/1978, Cass. II civ. n. 402 del 19/01/1979, id. n. 4486 del 08/07/1981, id. n. 188 del 14/01/1977).
Né alcuna sanatoria è in proposito ricavabile dalla lettura della sentenza impugnata, ovvero di altri atti processuali. Infatti, per soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366, comma primo n. 3, cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. II civ. n. 7825 del 04/04/2006, conformi Cass. nn. 16360 del 2004, 12166 e 19788 del 2005. V. altresì più recentemente in senso analogo Cass. VI civ. – 3 n. 1926 del 03/02/2015,1 civ. n. 19018 del 31/07/2017, id. n. 12688 del 30/05/2007). Parimenti dicasi per le memorie ex art. 378 c.p.c., che come è noto hanno funzione soltanto illustrativa rispetto a quanto però già in precedenza ritualmente e tempestivamente dedotto.
Sono, dunque, in primo luogo palesemente inammissibili le doglianze mosse con il secondo e con il quarto motivo, siccome attinenti a pretesi errores in procedendo, per difetto dei requisiti richiesti dall’art. 366 comma 1 nn. 3 e 6 del codice di rito, non essendo stati forniti idonei e sufficienti elementi di cognizione da cui poter rilevare, eventualmente, i vizi ivi denunciati, tanto più poi in relazione all’asserita omessa pronuncia di cui all’ultima censura, che risulta chiaramente contraddetta dalle risultanze della sentenza de qua, laddove si legge che l’interposto gravame era fondato essenzialmente su un unico motivo, circa la ritenuta esclusione di un rapporto di agenzia. Ne derivava, ovviamente, alla stregua dell’anzidetto limitato effetto devolutivo che la Corte di merito doveva pronunciarsi unicamente sul punto, senza quindi dover riesaminare l’intero contenzioso alla luce pure del diverso rapporto contrattuale opposto da parte convenuta, già resistente a tutte le pretese creditorie ex adverso azionate.
Ed analoghe considerazioni, in termini d’inammissibilità, possono valere per i primi due motivi, con i quali in effetti la ricorrente contesta il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda dell’attrice, che però irritualmente in questa sede di legittimità tende in concreto a svilirne il fondamento; pretesa tanto più nella specie inammissibile nella operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall’attuale e vigente ‘art. 360 n. 5 c.p.c., qui applicabile in relazione a sentenza pronunciata nell’ottobre dell’anno 2012 e pubblicata mediante deposito il successivo 13 novembre (cfr. tra l’altro Cass. IlI civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. -che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-, né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art. 360 n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014).
Va infatti ricordato (cfr. Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016) che in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007.
Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, numero 5), c.p.c., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 – 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale -, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati.
Cass. IlI civ. n. 11892 del 10/06/2016: la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.
In senso analogo si esprimeva anche la più risalente giurisprudenza di legittimità. V. infatti Cass. II civ. n. 2093 del 05/07/1971: il principio sancito dall’art. 115 c.p.c., per cui il giudice deve decidere iuxta alligata et probata, non può dirsi violato quando le prove siano state valutate in un modo piuttosto che in un altro, ovvero quando, nell’esporre le ragioni del suo convincimento, il giudice non richiami e discuta puntualmente tutte le risultanze contrarie a quelle ritenute decisive. Né il travisamento dei fatti può costituire motivo di censura in sede di legittimità se non si risolve in omessa, deficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.
Cfr. altresì Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme – art. 2697 ss.- poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno di essi deve assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ.). Pertanto, si appalesa l’inammissibilità delle varie doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente.
Parimenti, infine, va osservato in relazione al terzo motivo, una volta accertato il corretto percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito circa la reputata insussistenza nella specie dei caratteri tipici dell’agenzia ex art. 1742 c.c., contratto che tra l’altro “deve essere di, inammissibile la prova testimoniale -salvo che per dimostrare la perdita incolpevole del documento – e quella per presunzioni. Nella specie, quindi, in applicazione dell’enunciato principio, veniva confermata la sentenza di merito, la quale aveva escluso che la prova del contratto di agenzia potesse ricavarsi dai documenti comprovanti l’effettuazione delle prestazioni riconducibili al rapporto).
Al riguardo, inoltre – rilevato preliminarmente che non risulta formulata alcuna specifica censura in relazione alla mancata ammissione della prova testimoniale, con riferimento alle previsioni di cui all’art. 244 e ss. c.p.c., e che il principio di autosufficienza – specificità, richiesto dall’art. 366 co. 1 n. 6 c.p.c. non risulta comunque essere stato rispettato riguardo alla non meglio indicata (né altrimenti riassunta nel suo effettivo contenuto e circa la sua provenienza) documentazione contabile, sulla quale pure l’attrice ha fondato la sua pretesa creditoria in relazione al dedotto rapporto contrattuale, che assume doversi qualificare come di agenzia – l’anzidetta doglianza oltre che di conseguenza in parte qua inammissibile, risulta pure infondata per difetto di corrispondenti elementi probatori (cfr. tra le altre Cass. VI civ. 3 n. 19048 del 28/09/2016: il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto – trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso – sicché la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile. In senso analogo v. pure Cass. lav. n. 2966 del 07/02/2011 con riferimento alle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4 del codice di rito. (Conformi Cass. nn. 22303 del 2008 e 15628 del 2009).
La Corte bolognese, comunque, ha correttamente rilevato, in punto di diritto, richiamando la giurisprudenza, che l’attività di promozione rilevante ai fini del contratto di agenzia non può equipararsi a mera propaganda, da cui possa derivare solo indirettamente un incremento delle vendite, ma consistere nell’attività di convincimento del potenziale cliente ad effettuare ordinazioni di prodotti del preponente, poiché è proprio con riguardo queste risultato che viene riconosciuto il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi pel tramite dell’agente ed andati a buon fine, ciò del resto in aderenza al dettato normativo ex art. 1742 c.c. (Col contratto di agenzia una parte assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra, verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata). Ne deriva che tale tipica configurazione non si attaglia al caso di specie, laddove l’incarico (principale) conferito alla M. consisteva nella creazione di una rete commerciale mediante il reclutamento e la formazione di agenti, i quali di conseguenza avrebbero operato per conto della preponente G., mentre la ricorrente avrebbe avuto in effetti l’ulteriore compito (accessorio), di propaganda e di supporto nei confronti degli agenti. Ed invero il corrispettivo pattuito, in base al contratto di prestazione servizi stipulato il 2 novembre 2000 con la società controricorrente, prevedeva esclusivamente per ACM la remunerazione per la creazione della rete commerciale di agenti e la sua gestione, il controllo e la motivazione, secondo le percentuali di cui alla scala allegata, inerente all’importo delle vendite annuali, sicché le commissioni erano commisurate al volume delle vendite annuali, concluse e perfezionate grazie al lavoro svolto dalla rete di agenti captati da ACM per G., ivi compreso l’importo corrispondente ad ogni nuovo contratto di agenzia firmato da G. e concluso grazie ad ACM. Dunque, il corrispettivo è stato concordato in misura onnicomprensiva, anche per la gestione della rete commerciale, ma senza nessuno specifico e diretto riferimento ai singoli affari conclusi dagli agenti, bensì in relazione all’importo globale delle vendite annuali (per cui in ordine agli scaglioni ivi considerati erano indicate altrettante distinte percentuali di commissioni).
Orbene, questa Corte già con sentenza n. 6482 del 01/04/2004 ha avuto modo di affermare che nel contratto di agenzia la prestazione dell’agente consiste in atti di contenuto vario e non predeterminato che tendono tutti alla promozione della conclusione di contratti in una zona determinata per conto del preponente, quali il compito di propaganda, la predisposizione dei contratti, la ricezione e la trasmissione delle proposte al preponente per l’accettazione;l’attività tipica dell’agente di commercio non richiede, quindi, necessariamente la ricerca del cliente ed è sempre riconducibile alla prestazione dedotta nel contratto di agenzia anche quando il cliente, da cui proviene la proposta di contratto trasmessa dall’agente, non sia stato direttamente ricercato da quest’ultimo ma risulti acquisito su indicazioni del preponente o in qualsiasi altro modo, purché tuttavia sussista nesso di causalità tra l’opera promozionale svolta dall’agente nei confronti del cliente e la conclusione dell’affare cui si riferisce la richiesta di provvigione; condizione questa però evidentemente mancante nel caso di specie qui in esame.
Inoltre (v. Cass. lav. n. 6291 del 22/06/1990), l’attività di promozione della conclusione di contratti per conto del preponente, che costituisce l’obbligazione tipica dell’agente, non può consistere in una mera attività di propaganda, da cui possa solo indirettamente derivare un incremento delle vendite, ma deve consistere nell’attività di convincimento del potenziale cliente ad effettuare delle ordinazioni dei prodotti del preponente, atteso che è proprio con riguardo a questo risultato che viene attribuito all’agente il compenso, consistente nella provvigione sui contratti conclusi per suo tramite e andati a buon fine, e che è configurabile l’obbligo – a carico dell’agente medesimo – allo star del credere (di conseguenza, con riferimento al caso nella specie esaminato, quando l’ausiliare di un’impresa farmaceutica si limita a propagandare il prodotto pressi i medici, e quindi a promuovere solo indirettamente – giacché i farmaci non sono acquistati dagli stessi medici- gli affari del preponente, tale ausiliare, comunque venga definito dalle parti, non è un agente, ma un propagandista scientifico, la cui attività può formare oggetto di lavoro subordinato od autonomo, a seconda che siano riscontrabili o meno i caratteri della subordinazione. In senso analogo Cass. lav. n. 6355 del 22/06/1999, secondo cui l’ausiliare di un’impresa farmaceutica si limita a propagandare il prodotto presso i medici, e quindi a promuovere solo indirettamente gli affari del preponente, sicché tale ausiliare non è un agente ma un propagandista scientifico, la cui attività può formare oggetto di lavoro subordinato od autonomo o talora può aggiungersi a quella di agente, Quando Questi curi anche la stipulazione dei singoli contratti. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 18686 – 08/07/2008, che quindi escludeva il diritto alle provvigioni ove i prodotti della preponente vengano offerti a enti e soggetti pubblici, nella specie, strutture ospedaliere o aziende sanitarie pubbliche, non essendo ipotizzabile un convincimento ad ordinare il prodotto, ma mera propaganda, atteso il vincolo delle amministrative di evidenza pubblica in materia di conclusione di contratti.
Cfr. peraltro anche Cass. lav. n. 2514 del 17/04/1980 con riferimento alla figura del procacciatore di affari, si concreta nella più limitata attività di chi raccoglie le ordinazioni dei clienti, trasmettendole alla ditta dalla quale ha ricevuto l’incarico di procurare tali commissioni, ma senza vincolo di stabilita ed in via del tutto occasionale, anche se, poi, per la relativa disciplina, può farsi ricorso analogico, alla normativa concernente il contratto di agenzia. In senso conforme Cass. n. 870 del 1977 e n. 5849 del 08/10/1983).
Pertanto, appaiono infondate anche le doglianze svolte per il terzo motivo.
Dunque, il ricorso va respinto, con conseguente condanna della soccombente al rimborso delle relative spese. Stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, la società è tenuta anche al versamento dell’ulteriore contributo unificato, ricorrendone i presupposti di legge.
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della parte controricorrente in euro 8.000,00 (ottomila/00) per compensi professionali ed in euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.