CREDI CHE SENZA UN AVVOCATO ESPERTO OTTERRAI IL RISARCIMENTO DOVUTO ?
MORTO INCIDENTE DANNO BOLOGNA IMOLA FORLI CESENA RAVENNA
Per danno biologico terminale :;
si intende quella particolare forma di danno non patrimoniale rappresentato dal patimento d’animo e dalle sofferenze che la vittima ha patito nel lasso di tempo intercorrente tra il fatto (in questo caso un incidente stradale) e la morte.
La liquidazione avviene in via equitativa ma è necessario, appunto, che sia intercorso un lasso di tempo sufficiente tra i due eventi, tale per cui la sofferenza sia prolungata e rappresenti di fatto lesione al bene della vita. L’accertamento di tale circostanza è affidata al giudice del merito; di conseguenza, se la sentenza è congruamente motivata, il sindacato sul punto risulta impossibile in sede di legittimità.
DANNO PARENTALE
le Sezioni Unite hanno specificato che i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima, trasmissibili “jure hereditatis“, possono distinguersi in: “danno biologico” (cd. “danno terminale”), ovvero la lesione al bene salute quale danno-conseguenza, consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino al decesso. Pertanto, l’accertamento del danno-conseguenza presuppone che gli effetti pregiudizievoli si siano effettivamente prodotti, richiedendo a tal fine che, tra l’evento lesivo ed il momento del decesso sia intercorso un “apprezzabile lasso temporale”.
Per quanto riguarda il “danno morale cosiddetto soggettivo” detto “danno catastrofale”, esso consiste nello stato di sofferenza spirituale od intima patito dalla vittima nell’assistere al progressivo svolgimento della propria condizione esistenziale verso il fine-vita; trattandosi di danno-conseguenza, per accertare l’”an” occorre la prova della “cosciente e lucida percezione” dell’ineluttabilità della propria fine.
Infine, in relazione al cosiddetto “danno tanatologico”, cioè il danno che consistente nella “perdita del bene-vita”, le Sezioni Unite hanno precisato che esso non è rimborsabile se il decesso si verifica immediatamente o dopo brevissimo tempo, dalle lesioni personali; in tal caso, deve escludersi la risarcibilità “iure hereditatis” di tale pregiudizio, in ragione dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il credito risarcitorio, ovvero nel caso del decesso dopo un esiguo lasso temporale, della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.[wpforms id=”21592″]
La liquidazione del danno morale iure proprio sofferto per il decesso di un familiare causato del fatto illecito altrui (nella specie per sinistro stradale) sfugge necessariamente ad una previa valutazione analitica e resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito, come tali non sindacabili in sede di legittimità, perché, nonostante l’inquadramento del diritto all’integrità psicofisica della persona nell’ambito esclusivo del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 32 Cost. (nonché delle altre norme costituzionali poste a presidio della detta integrità personale), rimangono validi tutti i principi generali elaborati in tema di quantificazione del danno morale, oltre che di quello biologico (Cass., 30 ottobre 2009, n. 23053).
Nel caso di scontro tra veicoli, la presunzione di pari responsabilità prevista dall’art. 2054 cod.civ. ha carattere sussidiario, dovendosi applicare soltanto nel caso in cui sia impossibile accertare in concreto il grado di colpa di ciascuno dei conducenti coinvolti nel sinistro; l’accertamento della intervenuta violazione, da parte di uno dei conducenti, del divieto di svolta non dispensa il giudice dal verificare il comportamento dell’altro conducente onde stabilire se quest’ultimo abbia a sua volta violato o meno le norme sulla circolazione stradale ed i normali precetti di prudenza, potendo l’eventuale inosservanza di dette norme comportare l’affermazione di una colpa concorrente” (Cass. 16/09/2013, n. 21130). Contrariamente a quanto affermato dai ricorrenti, la Corte d’Appello ha ricostruito la dinamica dell’incidente, al fine di individuare le responsabilità dei soggetti coinvolti, tenendo conto delle risultanze del verbale dell’incidente redatto dai carabinieri di Agrigento, della planimetria allegata e degli accertamenti effettuati dal consulente del PM, quanto alla velocità dei veicoli, allo stato dei luoghi, alla condotta di guida tenuta dalla giovane vittima — anche relativamente alla mancata accensione dei fari in ora notturna (ore 19.30 del mese di dicembre) — e dall’automobilista; ha giustificato e motivato puntualmente le proprie statuizioni.
La liquidazione del danno morale iure proprio sofferto per il decesso di un familiare causato del fatto illecito altrui (nella specie per sinistro stradale) sfugge necessariamente ad una previa valutazione analitica e resta affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito, come tali non sindacabili in sede di legittimità, perché, nonostante l’inquadramento del diritto all’integrità psicofisica della persona nell’ambito esclusivo del combinato disposto degli artt. 2059 c.c. e 32 Cost. (nonché delle altre norme costituzionali poste a presidio della detta integrità personale), rimangono validi tutti i principi generali elaborati in tema di quantificazione del danno morale, oltre che di quello biologico (Cass., 30 ottobre 2009, n. 23053).
La decisione in oggetto è dunque suscettibile di censura solo sotto il profilo di eventuali vizi di motivazione, ove i criteri adottati per la liquidazione appaiano intrinsecamente illogici o gravemente contrastanti con le leggi o la prassi giurisprudenziale e non siano illustrati i principi o le peculiarità del caso concreto che abbiano indotto a giustificare lo scostamento.
L?impugnata sentenza ha ritenuto che la liquidazione del danno morale effettuata dal Tribunale non è adeguata, avendo liquidato 1/3 e un 1/4 della somma che sarebbe spettata a R.S. per una invalidità del 100%, invece di adoperare le apposite tabelle che prevedono un limite minimo ed uno massimo per la liquidazione del danno per la morte di un congiunto. Pertanto, entro i ristretti limiti in cui l’ordinamento giuridico può fare fronte a vicende dolorose e tragiche come quella in esame, si deve ritenere che la decisione impugnata non si sia discostata dai criteri in base ai quali il risarcimento dei danni morali può essere quantificato ed ha a ciò provveduto con valutazione equitativa adeguatamente motivata e non suscettibile di riesame in questa sede.
E comunque le doglianze del ricorrente, relative alla quantificazione del danno morale, non trovano riscontro nella congruità del percorso fondativo del convincimento reso per altro in conformità agli approdi nomofilattici di cui a Cass., 11 novembre 2008, n. 26972.
Con il secondo motivo del primo ricorso i ricorrenti denunciano: ?art. 360 n. 3 c.p.c. Violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2043, 2056, 2059, artt. 2, 29, 30 e 32 costituzione. Art. 360 n. 5 c.p.c.: per insufficiente e contraddittoria motivazione (in riferimento al danno esistenziale)?.
Sostengono i ricorrenti che il danno esistenziale è stato da loro provato come dimostra la decisione del Tribunale di Firenze, mentre la Corte d’appello, con una insufficiente motivazione, ha escluso il suddetto danno.
Il motivo è infondato.
Non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria del “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel “danno esistenziale” si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’art. 2059 c.c. (Cass., 11 novembre 2008, n. 26972).
Nella fattispecie in esame il danno esistenziale non poteva essere liquidato come voce autonoma, essendo stato già liquidato agli attori il risarcimento del danno non patrimoniale, comprensivo sia della sofferenza soggettiva che del danno costituito dalla lesione del rapporto parentale e dal conseguente sconvolgimento dell’esistenza.
Con il terzo motivo si sostiene ?art. 360 n. 3 c.p.c.: violazione e falsa applicazione ed interpretazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.?.
Ritengono i ricorrenti che la Corte d’appello ha respinto il loro ricorso incidentale su aspetti marginali, mentre ha riconfermato la responsabilità del B. nella causazione del sinistro dichiarando infondato il primo motivo d’appello e accogliendo in parte il secondo e terzo motivo in punto di quantum. Ad avviso dei ricorrenti del tutto ingiustificata e priva di motivazione è la compensazione delle spese del giudizio di secondo grado.
Il motivo è infondato.
Premesso infatti che nella fattispecie si applica l’art. 92 nell’originaria formulazione, non viola tale norma, né quella di cui all’art. 91 c.p.c., la disposta compensazione delle spese effettuata dal giudice in appello, con riferimento al ridotto accoglimento della domanda.
La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92, secondo comma, c.p.c.), sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri, ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (Cass., 21 ottobre 2009, n. 22381).
In tema di regolamento delle spese processuali, il sindacato della corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa. Pertanto, esula da tale sindacato e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare a norma dell’originaria formulazione dell’art. 92 c.p.c (applicabile nella fattispecie ratione temporis) in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi (Cass., 14 novembre 2002, n. 16012; Cass., 1 ottobre 2002, n. 14095; Cass., 11 novembre 1996, n. 9840).
Nel caso in esame il giudice d’appello non ha emesso alcuna condanna alle spese nei confronti degli attuali ricorrenti, avendo respinto il loro appello incidentale ed accolto parzialmente l’appello principale.
Pertanto esula dal sindacato di questa Corte e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto od in parte le spese di lite.
Con il quarto motivo si denuncia ?in via ipotetica, qualora le controparti, in sede di eventuale ricorso incidentale chiedessero in punto di an debeatur che venga cassata la sentenza della Corte d’appello e quindi affermato un concorso causale nella produzione dell’incidente stradale de quo a carico del sig. D.A. e quindi una responsabilità solidale e diretta della Fondiaria – Sai s.p.a. e codesta Corte affermasse un contributo eziologico anche di D.A. e quindi una responsabilità solidale e diretta della Fondiaria – Sai s.p.a. nel sinistro ove ha perso la vita il giovane R.S. , fermo restante ogni riserva in punto di eventuali eccezioni di inammissibilità improcedibilità dell’eventuale ricorso incidentale, si chiede fin d’ora che il maggior danno eventualmente riconosciuto venga posto a carico solidale di B.G. e Axa Assicurazioni da una parte e D.A. e Fondiaria – Sai dall’altra e che nessun rimborso venga ordinato ai ricorrenti provvedendo quindi le compagnie a ripartirsi le percentuali di responsabilità sul presupposto della solidarietà del debito risarcitorio?.
Il motivo deve ritenersi assorbito in assenza di ricorso incidentale da parte dell’Axa Assicurazioni.
Con il secondo ricorso, articolato in sei motivi, i ricorrenti rispettivamente denunciano: 1) ?violazione dell’art. 288 c.p.c. (art. 360 n. 3)?; 2) ?omesso esame dell’eccezione formulata dalla difesa circa l’esistenza o meno della domanda restitutoria (art. 360 n. 5)?; 3) ?violazione dei principi in materia di onere della prova?; 4) ?violazione del giudicato – art. 324 c.p.c. (art. 360 n. 3); 5) ?violazione del diritto di difesa delle sig.re R. ?; 6) ?violazione degli artt. 288 e 170 c.p.c. (art. 360 n. 3)?.[wpforms id=”21592″]
Con l’istanza di correzione i ricorrenti avevano contestato che l’Axa non aveva depositato né l’atto di citazione in appello, né il verbale di precisazione delle conclusioni con il quale era stata formulata la domanda di restituzione delle somme percepite in eccesso. Ritengono pertanto i ricorrenti che l’impugnata sentenza non si è limitata ad emendare un errore materiale ma è andata ben oltre, violando la procedura prevista dall’art. 288 c.p.c..
I motivi sono inammissibili.
Il provvedimento di correzione di errore materiale, avendo natura ordinatoria, non è suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. neppure per violazione del contraddittorio, in quanto non realizza una statuizione sostitutiva di quella corretta e non ha, quindi, rispetto ad essa, alcuna autonoma rilevanza, ripetendo invece da essa medesima la sua validità, così da non esprimere un suo proprio contenuto precettivo rispetto al regolamento degli interessi in contestazione: dall’art. 288, quarto comma, c.p.c. è, infatti, espressamente prevista l’impugnabilità delle parti corrette, che costituisce rimedio diretto esclusivamente al controllo della legittimità della disposta correzione (Cass., 17 maggio 2010, n. 12034).
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E’ noto -infatti- che, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e la morte da esse determinata, “è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione dell’integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso”, che è trasmissibile iure hereditatis e che va commisurato “soltanto alla inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte” (Cass. 15491/2014); tale danno biologico-terminale, che è sempre presente a prescindere dallo stato di coscienza del leso, va liquidato -quanto meno- negli importi previsti dalle tabelle relative alla invalidità temporanea assoluta, salvo il riconoscimento di un maggior risarcimento (da apprezzarsi con criterio equitativo puro) nel caso in cui alla gravità delle lesioni si accompagni la sofferenza psichica (danno catastrofico) determinata dalla coscienza della gravità delle infermità e dalla consapevolezza della propria fine imminente (cfr. Cass. n. 23183/2014).
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Nel rigettare il ricorso la Corte ribadisce un principio di diritto consolidato in giurisprudenza, secondo cui “in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando all’estrema gravità delle lesioni segua, dopo un intervallo temporale brevissimo, la morte, non può essere risarcito agli eredi il danno biologico terminale connesso alla perdita della vita della vittima, come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro”. E’ legittimo, quindi, che il giudice d’appello, confermando la decisione di primo grado, abbia disposto per la sola liquidazione del danno morale, oltre al danno patrimoniale da lucro cessante, tenendo conto del ruolo economico che la defunta aveva nell’ambito familiare.
i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima, trasmissibili “jure hereditatis”, possono pertanto consistere:
a) nel “danno biologico” (cd. “danno terminale”) determinato dalla lesione al bene salute quale danno-conseguenza consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino all’exitus: l’accertamento del danno-conseguenza è questione di fatto e presuppone che le conseguenze pregiudizievoli si siano effettivamente prodotte, necessitando a tal fine che tra l’evento lesivo e il momento del decesso sia intercorso un “apprezzabile lasso temporale” (omissis);
il risarcimento del danno biologico terminale.
Con sentenza del 19 ottobre 2016, n. 21060 la Suprema Corte di Cassazione, sezione terza civile, torna ad affrontare una problematica di centrale importanza: il risarcimento del danno biologico terminale.
Nel caso di specie i ricorrenti in Cassazione si opponevano alla decisione della Corte di Appello di Roma: questa aveva respinto la richiesta di risarcimento del danno derivante da danni iure proprio e iure hereditatis, sofferti in conseguenza del decesso del congiunto, dopo 10 giorni di coma, all’esito di sinistro stradale.
I ricorrenti articolavano le loro doglianze, dinnanzi alla Corte di legittimità, in cinque diversi punti di cui solo i primi tre hanno trovato accoglimento.
La Corte, infatti, ha ritenuto fondata la doglianza con la quale si contestava il fatto che la corte di merito avesse rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico iure hereditatis, pur essendo nella specie il congiunto deceduto non già nell’immediatezza bensì dopo 10 giorni dall’incidente stradale. Inoltre è stata ritenuta fondata la doglianza con la quale si contestava il fatto che la corte di merito avesse liquidato in un importo fisso il danno morale iure hereditatis, senza procedere alla relativa “personalizzazione”. Infine si è ritenuta fondata la doglianza con la quale si lamentava una liquidazione del danno morale iure hereditatis senza la valutazione del caso concreto, ed in particolar modo senza considerare l’effettiva sofferenza sopportata dal defunto nei 10 giorni trascorsi dal sinistro all’evento morte.
Come questa Corte ha avuto modo più volte di affermare, infatti, in caso di sinistro mortale,
che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico o catastrofale).
Tuttavia, essa non ha rispettato i parametri di corretta liquidazione di tale voce di danno, altresì fissati dalla giurisprudenza di questa corte allo scopo di evitare che tale pregiudizio, di breve durata temporale nella vita di una persona, ma percepito nella massima intensità ed altresì di massima gravità nei valori coinvolti, venga liquidato in misura bagatellare, in assoluto inidonea a costituirne un adeguato ristoro, rispettoso dei valori della persona umana.
Come questa Corte ha anche di recente ribadito (v. Cass. n. 23183/2014), laddove la liquidazione del danno biologico terminale può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, in relazione al danno cd. catastrofale la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della “enormità” del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte.
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he l’evento morte non rileva di per sè ai fini del risarcimento, atteso che la morte (e cioè: la perdita della vita) è fuori dal danno biologico, poichè il danno alla salute presuppone pur sempre un soggetto in vita; ma è altrettanto vero che nessun danno alla salute è più grave, per entità ed intensità, di quello che, trovando causa nelle lesioni che esitano nella morte, temporalmente la precede. In questo caso, infatti, il danno alla salute raggiunge quantitativamente la misura del 100%, con l’ulteriore fattore “aggravante”, rispetto al danno da inabilità temporanea assoluta, che il danno biologico terminale è più intenso perchè l’aggressione subita dalla salute dell’individuo incide anche sulla possibilità di essa di recuperare (in tutto o in parte) le funzionalità perdute o quanto meno di stabilizzarsi sulla perdita funzionale già subita, atteso che anche questa capacità recuperatoria o, quanto meno stabilizzatrice, della salute risulta irreversibilmente compromessa. La salute danneggiata non solo non recupera (cioè non “migliora”) nè si stabilizza, ma degrada verso la morte; quest’ultimo evento rimane fuori dal danno alla salute, per i motivi sopra detti, ma non la “progressione” verso di esso, poichè durante detto periodo il soggetto leso era ancora in vita (in tal senso, Cass. sez. 3^, 23.6.2006 n. 3766).
Posto ciò ritiene il Collegio di dover aderire al principio secondo cui, in caso di lesione che abbia portato a breve distanza di tempo ad esito letale, sussiste in capo alla vittima che abbia percepito lucidamente l’approssimarsi della morte, un danno biologico di natura psichica, la cui entità non dipende dalla durata dell’intervallo tra lesione e morte, bensì dell’intensità della sofferenza provata dalla vittima dell’illecito ed il cui risarcimento può essere reclamato dagli eredi della vittima (Cass. sez. 3^, 14.2.2007 n. 3260; Cass. sez. 3^, 2.4.2001 n. 4783, che in maniera incisiva fa riferimento alla “presenza di un danno “catastrofico” per intensità a carico della psiche del soggetto che attende lucidamente l’estinzione della propria vita”).
, deve procedere necessariamente alla cd. “personalizzazione” degli stessi, costituita dall’adeguamento al caso concreto atteso che, siccome più volte ribadito da questa Corte, la legittimità dell’utilizzazione di detti ultimi sistemi liquidatori è pur sempre fondata sul potere di liquidazione equitativa del giudice.
E la liquidazione del quantum, se supportata da una motivazione congrua e coerente sul piano logico, e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla materia, è sottratta a qualsiasi censura in sede di legittimità.
Orbene, nel caso di specie la Corte territoriale, nel confermare la statuizione sul punto del primo giudice, ha rilevato, riportandosi agli esiti della consulenza medico legale effettuata, che il B., nei quattro giorni precedenti il decesso, aveva “subito un danno psichico totale per la presenza di una sofferenza e di una disperazione esistenziale di tale intensità da determinare nella percezione del defunto un danno catastrofico”, in una situazione di “attesa lucida e disperata dell’estinzione della vita”.