MODIFICA CONDIZIONI DIVORZIO:CAMBIO REGIONE DELLA MADRE COLLOCATARIA :TRIBUNALE BOLOGNA
MODIFICA CONDIZIONI DIVORZIO- BOLOGNA AVVOCATO DIVORZISTA
1)Il testo originario dell’art. 5, c.6 della L. n. 898 del 1970 aveva il seguente contenuto:
2)Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale dispone, tenuto conto delle condizioni economiche dei coniugi e delle ragioni della decisione, l’obbligo per uno dei coniugi di somministrare a favore dell’altro periodicamente un assegno in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi. Nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto del contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione. L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze. Il coniuge, al quale non spetti l’assistenza sanitaria per nessun altro titolo, conserva il diritto nei confronti dell’ente mutualistico da cui sia assistito l’altro coniuge. Il diritto si estingue se egli passa a nuove nozze.
3)La lettura della norma, già nella sua formulazione originaria, poteva dare luogo ad interpretazioni diverse. Valorizzando la distinzione di significato tra l’espressione “il Tribunale dispone” con la quale si apriva l’elencazione dei criteri di cui si doveva “tenere conto” ai fini del diritto alla corresponsione dell’assegno di divorzio e l’incipit della seconda parte della norma “nella determinazione di tale assegno il giudice tiene conto” emergeva, sul piano testuale una distinzione tra criteri attributivi (le condizioni economiche dei coniugi – profilo assistenziale; le ragioni della decisione – profilo risarcitorio) e determinativi (contributo personale ed economico dato da ciascuno dei coniugi – profilo compensativo).
4)La dottrina prevalente e la giurisprudenza di questa Corte avevano, tuttavia, ritenuto che l’assegno di divorzio, alla luce dell’art. 5, c.6 L. n.898 del 1970 avesse una natura mista senza alcuna diversificazione e graduazione tra i criteri attributivi e determinativi.
5)In particolare le Sezioni Unite, poco dopo l’entrata in vigore della norma affermarono che l’assegno previsto dall’art 5 della legge 1 dicembre 1970 n 898, aveva natura composita “in relazione ai criteri che il giudice per legge deve applicare quando è chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di corresponsione: assistenziale in senso lato, con riferimento al criterio che fa leva sulle condizioni economiche dei coniugi; risarcitoria in senso ampio, con riguardo al criterio che concerne le ragioni della decisione; compensativa, per quanto attiene al criterio del contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla condizione della famiglia ed alla formazione del patrimonio di entrambi. Il giudice, che pur deve applicare tali criteri nei confronti di entrambi i coniugi e nella loro necessaria coesistenza, ha ampio potere discrezionale, soprattutto in ordine alla quantificazione dell’assegno (S.U. 1194 del 1974; conf. 1633 del 1975).
6)La coesistenza dei criteri, come espresso efficacemente nella massima, ne evidenziava la equiordinazione e costituiva una prescrizione di primario rilievo per la valutazione che doveva essere svolta dal giudice di merito al quale veniva riconosciuto un ampio potere discrezionale nella determinazione nell’ammontare dell’assegno ma non gli era consentito di considerare recessivo, in astratto ed in linea generale, un criterio rispetto ad un altro, salvo che il rilievo concreto di alcuno di essi non fosse marginale od insussistente. Nella giurisprudenza immediatamente successiva, la formulazione generale del principio venne puntualizzata in relazione a ciascun parametro. In particolare la Corte escluse che l’assegno potesse avere carattere alimentare proprio in relazione allo scioglimento definitivo del vincolo di parentela, dal momento che tale tipologia di obbligazioni postulava la permanenza del vincolo stesso e non la sua cessazione (Cass. 256 del 1975). Venne sottolineato come il fulcro dell’accertamento da svolgere, in questa prima fase storica di applicazione dell’art. 5, c.6 della L. n. 898 del 1970, dovesse incentrarsi sulla natura e misura dell’indebolimento della complessiva sfera economico-patrimoniale del coniuge richiedente l’assegno in relazione a tutti i fattori che possano concorrere a determinare questa sperequazione, quali l’età, la salute, l’esclusivo svolgimento di attività domestiche all’interno del nucleo familiare, il contributo fornito al consolidamento del patrimonio familiare e dell’altro coniuge etc. (Cass. 835 del 1975). Gli orientamenti furono certamente influenzati dal contesto socio economico nel quale la legge n. 898 del 1970 si è innestata, in quanto caratterizzato da un modello coniugale formato su ruoli endofamiliari distinti ed eziologicamente condizionanti la posizione economico patrimoniale di ciascuno dei coniugi dopo lo scioglimento dell’unione matrimoniale. Il rilievo paritario attribuito a tutti i parametri venne condizionato dalla vis espansiva del principio di parità ed uguaglianza tra i coniugi così come innovativamente consacrato e reso effettivo dalla riforma del diritto di famiglia. Il criterio assistenziale, in particolare, assume, già in questa prima fase di applicazione dell’art. 5, c.6 della L. n. 898 del 1970, una funzione perequativa della condizione di “squilibrio ingiusto” (Cass. 660 del 1977) che può determinarsi in relazione alla situazione economico-patrimoniale degli ex coniugi, a causa dello scioglimento del vincolo, in particolare quando la disparità di condizioni si giustifica in funzione di scelte endofamiliari comuni che hanno prodotto una netta diversificazione di ruoli tra i due coniugi così da escludere o da ridurre considerevolmente l’impegno verso la costruzione di un livello reddituale individuale autonomo adeguato a quello familiare.
7)Risultava evidente, pertanto, già negli orientamenti degli anni 70 che il profilo strettamente assistenziale si contaminava con quello compensativo, soprattutto in relazione alla durata del matrimonio, così da dar luogo all’inizio degli anni 80 a principi ancora più decisamente ispirati all’esigenza di ristabilire “un certo equilibrio nella posizione dei coniugi dopo lo scioglimento del matrimonio” (Cass. 496 del 1980) da realizzarsi assumendo il parametro relativo alle condizioni economiche dei coniugi non come criterio esclusivo o prevalente ma come elemento di giudizio da porsi in relazione con gli altri concorrenti, in considerazione delle complessive condizioni di vita garantite nel corso dell’unione coniugale e delle aspettative che tali condizioni potevano indurre (Cass. 496 del 1980).
La funzione dell’assegno di divorzio si caratterizza, sempre più, negli anni 80, sotto il vigore del testo originario dell’art. 5, c.6 della L. n. 898 del 1970 come strumento perequativo della situazione di squilibrio economico patrimoniale che si sia determinata a vantaggio di un ex coniuge ed in pregiudizio dell’altro. A questo fine i tre criteri contenuti nella norma operano come “presupposti di attribuzione” (Cass. 5714 del 1988) dell’assegno stesso. All’interno di questo orientamento, la funzione dell’assegno si risolve in uno strumento volto ad intervenire su una situazione di squilibrio “ingiusto” non in senso astratto, ovvero fondato sulla mera comparazione quantitativa delle sfere economico-patrimoniali o delle capacità reddituali degli ex coniugi ma in concreto, ponendo in luce la correlazione tra la situazione economico patrimoniale fotografata al momento dello scioglimento del vincolo ed i ruoli svolti dagli ex coniugi all’interno della relazione coniugale. Al riguardo sempre più frequentemente entrava nella valutazione complessiva e paritaria dei criteri ex art. 5 c. 6 il rilievo dell’apporto personale al soddisfacimento delle esigenze domestiche di uno solo dei coniugi (Cass. 3390 del 1985) ed, in particolare, l’effetto negativo sull’acquisizione di esperienze lavorative e professionali che può determinare un impegno versato essenzialmente nell’ambito domestico e familiare (Cass. 3520 del 1983), tanto da far affermare che, anche in relazione all’età, il giudice del merito avrebbe dovuto accertare se fosse in concreto possibile per l’ex coniuge richiedente l’assegno essere competitivo sul mercato del lavoro senza dover svolgere attività lavorative troppo usuranti od inadeguate rispetto al profilo complessivo della persona, (Cass. 3520 del 1983).
Da questi orientamenti emerge l’incidenza del principio costituzionale della parità sostanziale tra i coniugi, così come declinato nell’art. 29 Cost. nella valutazione in concreto dei criteri, ed in particolare di quello assistenziale e compensativo, sempre meno scindibili nel giudizio complessivo relativo al diritto all’assegno. L’interconnessione tra i due parametri viene precisata dall’affermazione contenuta nella pronuncia n. 6719 del 1987, secondo la quale la funzione dell’assegno di divorzio non è remunerativa ma compensativa, essendo preordinata all’obiettivo del “giusto mantenimento” in relazione, non solo all’apporto del coniuge richiedente alla conduzione della vita familiare, ma anche alla formazione del patrimonio comune ed in particolare al rafforzamento della sfera economico patrimoniale dell’altro coniuge.
Deve essere sottolineato come l’applicazione equilibrata dei tre criteri, assistenziale, compensativo e risarcitorio, sia stata ritenuta adeguata alla varietà delle situazioni concrete ed idonea a far emergere l’effettiva situazione di squilibrio (od equilibrio) conseguente alle scelte ed all’andamento effettivo della vita familiare, tenuto conto delle condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi e delle cause, con particolare riferimento a quelle maturate in corso di matrimonio, che hanno concorso a determinarle.
I principi giurisprudenziali illustrati, tuttavia, furono sottoposti a revisione critica dalla dottrina, in particolare per l’eccessiva discrezionalità rimessa ai giudici di merito che l’equiordinazione dei criteri aveva determinato. Si lamentava l’assenza di un fondamento unitario e coerente nella composizione mista dei parametri di attribuzione e determinazione dell’assegno di divorzio. Si sottolineava come l’an ed il quantum dell’assegno fossero stati tendenzialmente stabiliti del tutto discrezionalmente e l’applicazione dei criteri, proprio in quanto composita, fosse stata utilizzata per giustificare ex post la decisione, invece che dettarne le coordinate. Inoltre, vennero poste in luce le profonde mutazioni nella società civile, l’affermazione del principio di autoresponsabilità ed autodeterminazione, da ritenere determinanti anche nelle scelte relazionali, oltre che l’evoluzione del ruolo femminile all’interno della famiglia e nella società. Si gettavano le basi, pur sottolineandosi la funzione complessivamente perequativa dell’assegno di divorzio, per la riforma della norma.
Si vede una giusta decisione del Tribunale di Bologna che nella decisione tiene come previsto dalla legge in primo piano conto delle necessita’ del minore
I FATTI:
Con ricorso depositato il 19.2.2019 X, coniuge divorziata da Y per sentenza n. 125/2018 del Tribunale di Bologna resa sulle conclusioni congiunte formulate dalle parti, ha chiesto la modifica delle condizioni di divorzio per ciò che concerne specificamente il collocamento del figlio minore della coppia, D. (cl. 2013). In particolare, la parte ricorrente ha dato atto di aver perso il lavoro, suo malgrado, nel settembre 2017 e di aver reperito una allettante offerta di impiego da parte di una società di Prato per un contratto a tempo indeterminato con retribuzione mensile lorda di € 1.217,93 per 14 mensilità; di avere intenzione, per questo, di trasferire la propria residenza in Toscana, e precisamente a Firenze, presso l’abitazione del proprio compagno, tale B. , portando con sé il minore D., in quanto genitore collocatario in base agli accordi assunti tra le parti in sede di divorzio. La ricorrente ha sostenuto che il diritto di visita paterno, stante l’agevole raggiungimento della città di Firenze anche con mezzi di trasporto ad alta velocità, non sarebbe in alcun modo compromesso, rimarcando che, ove le fosse data la possibilità di trasferirsi entro l’estate, il minore inizierebbe il suo percorso scolastico elementare a Firenze.
LA COSTITUZIONE DEL CONIUGE NON AFFIDATARIO CHE SI OPPONE AL TRASFERIMENTO
Si è costituito in giudizio Y, il quale ha espresso il proprio formale dissenso al trasferimento del figlio nella città di Firenze, e ciò per plurime ragioni: non solo perché significherebbe sradicare il bambino dal contesto nel quale è sempre vissuto, intessendo relazioni significative con i nonni e con i coetanei, ma anche perché questo trasferimento inciderebbe negativamente sulla quantità e sulla qualità del rapporto padre/figlio, riducendolo sostanzialmente ai fine settimana e con aggravio di viaggio. Inoltre, il resistente ha sostenuto che la prospettiva lavorativa adombrata in ricorso dalla X sarebbe del tutto astratta, nascondendo, in realtà, la reale intenzione della stessa di andare a convivere con il nuovo compagno. Il Y, peraltro, nulla opponendo alla realizzazione delle aspirazioni lavorative o affettive della X, si è dichiarato disponibile, nel caso, ad avere il collocamento prevalente del minore presso di sé nella propria abitazione di Crevalcore (BO), con conseguente regolamentazione, anche ampia, delle visite materne; in via riconvenzionale ha, comunque, chiesto che, ferme le condizioni di divorzio attuali, l’orario del riconsegna del minore alla madre sia posticipato dalle ore 19 (indicato nella sentenza di divorzio) alle ore 20.30, dopo la cena.
Del procedimento è stato notiziato il Pubblico Ministero, il quale è intervenuto con atto in data 20.3.2019.
All’udienza del 7.5.2019 le parti, personalmente presenti, hanno ribadito le posizioni assunte in atti; la causa è stata, quindi, rimessa al Collegio per la decisione.
LA DECISIONE DEL TRIBUNALE OVE VIENE SOTTOLINEATO CHE IL FIGLIO MINORE VERREBBE SRADICATO DAL CONTESTO NEL QUALE E’ SEMPRE VISSUTO:
Ciò posto, si osserva che nel caso di specie la ragione per la quale la X ha inteso chiedere al Tribunale l’autorizzazione al proprio trasferimento di residenza da San Giovanni in Persiceto (ove è attualmente) a Firenze unitamente al figlio minore D. è correlata al rinvenimento di asserite opportunità lavorative, costituite, nello specifico, da una “promessa di assunzione” proveniente dalla società Clinica dell’Udito s.r.l.s. di Prato, in base alla quale alla X è stato prospettato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per 30 ore settimanali ripartite in 5 giorni, con una retribuzione lorda di “circa 1.217,93 corrisposta su 14 mensilità” (cfr. doc. n. 3 fasc. Avv. Grandi).
La “promessa di assunzione” in oggetto, che reca in calce la firma (illeggibile) di un soggetto di cui non è indicata né la qualifica né gli effettivi poteri all’interno della società Clinica dell’*** s.r.l.s., prevede, invero, un termine di decadenza della promessa stessa al 31.1.2019, termine che già scaduto prima ancora del deposito del ricorso da parte della X senza che vi sia stata alcuna (tempestiva) formalizzazione del rapporto lavorativo “promesso”, che, in ogni caso, sarebbe soggetto alle incertezze del periodo di prova della durata di 60 giorni.
A parte, comunque, ogni pur ragionevole dubbio in merito alla serietà dell’opportunità lavorativa allegata in atti dalla ricorrente (che, anche nel preannunciare di volersi stabilire a Firenze e non già a Prato, dove sarebbe la sede di lavoro, lascia trasparire quello che, verosimilmente, è il suo principale intendimento, ovvero ricongiungersi con il compagno con il quale ha ormai una stabile relazione sentimentale), ciò che osta all’accoglimento della domanda formulata in questa sede dalla X è proprio la ricaduta negativa che il trasferimento prospettato avrebbe sul minore D..
Il bambino, infatti, seguendo la madre in Toscana verrebbe sradicato dal contesto sociale ed abitativo in cui fino ad oggi è cresciuto, perdendo di fatto le abitudini instaurate negli anni nella relazione con i nonni e con i propri coetanei, oltre che con il padre, che, nel caso di trasferimento del figlio, considerati gli impegni lavorativi e le responsabilità correlate alla recente nascita di una bambina di pochi mesi avuta dalla nuova compagna, non avrebbe più la possibilità di vedere e stare con D. anche per due pomeriggi a settimana, come attualmente previsto dalla sentenza di divorzio.
Non vi è, invero, alcuna valida ragione, nella prospettiva del minore, per andare a modificare radicalmente una situazione di fatto sulla quale, peraltro, entrambi i genitori del minore hanno concordato appena poco più di un anno fa (in sede di divorzio consensualizzato).
Ciò, a maggior ragione, ove si consideri che il Y, nulla opponendo a che la X si senta libera di effettuare le proprie (legittime) scelte personali, affettive e lavorative, ha manifestato piena disponibilità a tenere con sé il minore nella propria residenza di Crevalcore, divenendone collocatario (soluzione che, peraltro, consentirebbe a D. anche di instaurare un rapporto affettivo diretto ed immediato con la sorellina appena nata).
Il Tribunale, come sopra composto:
1) rigetta la domanda formulata in ricorso da X , e, per l’effetto, nega alla ricorrente l’autorizzazione al trasferimento a Firenze unitamente al minore, D. ;
2) accoglie la domanda riconvenzionale di Y e, per l’effetto, in parziale modifica della sentenza n. 125/2018 del Tribunale di Bologna, posticipa alle ore 20.30, dopo la cena, il riaccompagnamento del figlio minore della coppia presso la madre dopo le visite paterne. Fermo il resto per quanto di ragione;
3) condanna X a rifondere a Y le spese di lite, che liquida in complessive € 1.383,50 per compensi, oltre spese generali al 15%, tributi e contributi come per legge.
Così deciso in Bologna nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile in data 07/05/2019.
IL GIUDICE ESTENSORE
dott.ssa Sonia Porreca