MATERIALE PEDOPORNOGRAFICO ART 600 TER E QUATER cp AVVOCATO PENALE BOLOGNA
Il disposto normativo di cui all’art. 600 ter c.p. si pone quale previsione volta a reprimere le più gravi condotte realizzate attraverso un contesto di organizzazione, almeno embrionale, e di destinazione, anche solo potenziale, del materiale pornografico al successivo utilizzo da parte di un numero imprecisato di soggetti terzi. Quanto affermato, tuttavia, in alcun caso consente la semplicistica conclusione secondo cui la incriminata condotta di realizzazione del materiale pedo-pornografico, qualora avvenuta in maniera estemporanea e senza organizzazione, e pertanto non destinata a soddisfare il mercato della pedofilia, diventi per ciò solo neutra. All’uopo soccorre, invero, la previsione di cui all’art. 600 quater c.p., la cui introduzione rappresenta proprio una forma di chiusura del cerchio al cui interno ricomprendere ogni possibile forma di aggressione al bene primario del libero e corretto sviluppo psicofisico del minore e segnatamente della sua sfera sessuale.
SECONDO TRIB MILANO :
Integra la fattispecie di cui all’art. 600, quater-1, c.p., la detenzione di immagini tridimensionali, realizzate con elevata qualità grafica, che rappresentano figure umane plastiche e proporzionate di adulti e minori coinvolti in atti sessuali, dove alla sommità del corpo del minorenne è stata apposta l’immagine bidimensionale ritraente un bambino realmente esistente, ancorché non identificato, in quanto il prodotto finale, rappresentativo di una situazione simile al reale e dunque lesivo dell’onore, del decoro e dell’equilibrio della persona minorenne rappresentata, cagiona una lesione del bene giuridico protetto dalla norma, da riconoscersi, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, nello ‘sviluppo fisico, psicologico, spirituale, morale e sociale’ del minore stesso; al contrario, restano esclusi dalla previsione normativa i disegni pornografici e, dunque, anche i cartoni animati che rappresentano bambini e adolescenti di fantasia.
Cass. pen., Sez. III, Sentenza, 22/10/2020, n. 2252 (rv. 280825-03)
REATI CONTRO LA PERSONA – Delitti contro la liberta’ individuale – In genere – Detenzione di materiale pornografico – Pornografia minorile – Concorso di reati – Condizioni
Il reato di detenzione di materiale pornografico di cui all’art. 600-quater cod. pen. e quello di pornografia minorile ex art. 600-ter cod. pen., che incrimina la produzione di detto materiale, non integrano due distinti illeciti ma due diverse modalità di realizzazione del medesimo reato, con la conseguenza che non possono concorrere tra loro se riguardano il medesimo materiale, mentre può sussistere il concorso se il materiale oggetto della produzione e quello oggetto della detenzione siano diversi. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto configurabile il concorso tra i due reati in quanto la condotta di detenzione aveva ad oggetto immagini di “repertorio” della vittima e, pertanto, diverse da quelle che l’imputato aveva tentato di produrre fornendo alla minore specifiche indicazioni sulla sua realizzazione). (Annulla in parte con rinvio, CORTE APPELLO TORINO, 28/10/2019)
Cass. pen., Sez. III, Sentenza, 14/12/2017, n. 14001
In tema di pornografia minorile, la sussistenza del reato di cui all’art. 600-ter, comma 3, c.p. deve essere esclusa nel caso di semplice utilizzazione di programmi di file sharing che comportino nella rete internet l’acquisizione e la condivisione con altri utenti del files contenenti materiale pedopornografico, solo quando difettino ulteriori elementi indicativi della volontà dell’agente di divulgare tale materiale, anche sotto il profilo dell’individuazione del dolo eventuale, desumibile dall’esperienza dell’imputato e dalla durata nel tempo del possesso di materiale pedopornografico, dall’entità numerica del materiale, e dalla condotta, già illecita ex art. 600-quater, c.p., connaturata da accorgimenti volti alla difficoltà di individuazione dell’attività (specificamene utilizzo del computer del luogo di lavoro, come elemento che avrebbe garantito la difficoltà dell’individuazione dell’agente).
Cass. pen., Sez. III, 27/11/2019, n. 15208
La clausola di riserva contenuta nell’art. 600 quater c.p. non opera e il reato di detenzione di materiale pedopornografico concorre con quello di divulgazione di materiale pedopornografico di cui all’art. 600 ter, 3° co., c.p. allorché il materiale sia di tale ingente quantità che solo una parte sia stata oggetto di divulgazione, essendo, in questo caso, la condotta di detenzione autonoma ed ulteriore sotto il profilo cronologico e naturalistico ed essendo dotata di una carica di offensività propria.
Cass. pen., Sez. VII, Ordinanza, 19/06/2020, n. 20427 (rv. 280231-01)
REATI CONTRO LA PERSONA – Delitti contro la liberta’ individuale – Violenza sessuale – In genere – Adescamento di minore – Dolo specifico – Fonte di prova
In tema di reato di adescamento previsto dall’art. 609-undecies cod. pen., il dolo specifico consistente nell’intenzione di commettere i reati di cui agli artt. 600, 600-bis 600-ter e 600-quater cod. pen., non deve necessariamente risultare manifesto da quanto esplicitato nella condotta direttamente posta in essere nei confronti del minore, ben potendo la relativa prova essere ricavata anche “aliunde”. (In motivazione la Corte ha anche precisato che, ove il soggetto agente prospettasse con chiarezza al minore il proposito di compiere con lo stesso atti sessuali, ricorrerebbe il diverso reato di tentata prostituzione minorile). (Dichiara inammissibile, CORTE APPELLO BOLOGNA, 17/05/2018)
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACETO Aldo – Presidente –
Dott. GENTILI Andrea – rel. Consigliere –
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –
Dott. REYNAUD Gianni F. – Consigliere –
Dott. CORBO Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
C.A., nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 1714 della Corte di appello di Ancona del 22 aprile 2016;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. TOCCI Stefan, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 22 aprile 2016, la Corte di appello di Ancona ha confermato la precedente decisione con la quale, in data 3 marzo 2015, il Tribunale di Ancona aveva dichiarato la penale responsabilità di C.A. in ordine al reato di cui all’art. 600-quater c.p., per essersi costui consapevolmente procurato ed avere disposto di materiale pedopornografico rinvenuto all’interno dell’hard disk di un pc in uso e nella sua disponibilità presso la impresa ove questi lavorava e su di un CD Rom rinvenuto presso la sua abitazione, e lo aveva, pertanto, condannato alla pena, peraltro integralmente condonata, di mesi 3 di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa.
Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione la difesa del prevenuto, articolando 7 motivi di impugnazione.
Secondo l’ordine di loro presentazione il contenuto di questi è il seguente: con il primo motivo il ricorrente ha contestato la identificazione dell’indirizzo IP attraverso il quale è stato fatto accesso ad un sito internet contenente immagini pedopornografiche quale indirizzo riferibile al C., essendo questo, invece, riguardante non la società di pertinenza dell’imputato.
Con il secondo motivo è stata contestata la stessa sussistenza del fatto costituente reato, posto che, essendo stato ascritto al C. il fatto di avere visionato del materiale pedopornografico, si osserva che – sulla base della normativa vigente al momento dei fatti di cui in imputazione, la quale punisce esclusivamente la detenzione del materiale in questione e non anche la sua mera visione – la condotta ascritta al prevenuto era penalmente irrilevante.
Con il terzo motivo la ricorrente difesa ha dedotto la mancanza di certezza in ordine alla volontarietà degli accessi al sito pedopornografico, potendo accedersi ad esso anche in maniera inconsapevole.
Il quarto motivo di impugnazione riguarda la incertezza rispetto alla volontarietà dell’avvenuto scaricamento delle immagini pedopornografiche, non essendovi, peraltro, la certezza che quelle rinvenute presso l’imputato fossero rappresentative di persone di età minore.
Così come emerge anche dal confuso e contraddittorio tenore della relazione tecnica redatta dal Ctu – e questo è l’oggetto specifico del quinto motivo di ricorso – questi esprime esclusivamente un suo parere personale, peraltro confutato da altri testi, sul fatto che le immagini rinvenute appartenessero a soggetti minorenni.
Il sesto motivo è riferito alla censura di contraddittorietà e difetto di risultanze probatorie nella motivazione della sentenza impugnata, il cui contenuto e riferito a giudizi di mera probabilità ovvero ad inferenze logiche operate dalla Corte di appello senza un adeguato supporto probatorio.
Infine, il settimo motivo ha ad oggetto il difetto di motivazione in punto di determinazione della pena.
Motivi della decisione
Il ricorso, essendo risultati i motivi posti a suo supporto ora manifestamente infondati ora direttamente inammissibili, deve essere, a sua volta, dichiarato, nel suo complesso inammissibile.
Il primo motivo è chiaramente inammissibile; invero, nella sentenza impugnata è chiaramente precisato che l’accesso ai siti web da cui sono state scaricate immagini pedopornografiche è stato eseguito da una utenza telefonica in uso presso la azienda gestita dal padre del prevenuto, ove quest’ultimo svolgeva, senza avere altri colleghi con analoghi compiti, mansioni aventi oggetto la materia informatica, utilizzando un gestore presso il quale proprio l’odierno imputato aveva stipulato un contratto per l’attivazione di un collegamento internet; sulla base di tali obbiettivi dati i giudici del merito hanno, con motivazione indubbiamente congrua ed immune da vizi logici o giuridici, plausibilmente desunto il fatto che l’autore dei collegamenti nel corso dei quali vi è stato lo scaricamento delle immagini di cui al capo di imputazione sia stato l’odierno ricorrente.
Il secondo motivo è manifestamente infondato; si osserva, infatti, che, anche sulla base della normativa vigente al momento in relazione al quale i fatti sono stati contestati, cioè nel dicembre del 2012, la condotta attribuita all’imputato – l’avere disposto del materiale pornografico procuratosi (e non la sua mera visione) – era, ed è tuttora, idonea a realizzare il reato a lui contestato, nessun rilievo avendo il fatto che nella materiale redazione del capo di imputazione la Procura della Repubblica anconetana abbia fatto riferimento, seguendo una lezione normativa non più in vigore, all’atto di “disporre” e non di “detenere” il materiale in questione, essendo evidente che il significato del costrutto lessicale adoperato era quello di “avere a propria disposizione”, cioè un concetto del tutto equivalente a quello espresso, nel comune modo di intendere la lingua, dalla parola “detenere”.
Il terzo motivo di impugnazione – che può essere esaminato congiuntamente al quarto, attesa la prossimità logica che li caratterizza, oltre al comune percorso motivazionale della soluzione dei quesiti da essi posti attiene, il primo, al ritenuto difetto di certezza in ordine alla volontarietà dell’avvenuto accesso ai siti dai quali sono state scaricate le immagine pedopornografiche di cui alla imputazione, mentre il successivo motivo attiene alla certezza in ordine alla volontarietà dell’avvenuta operazione di download della predette immagini.
Si tratta di censure sviluppate in fatto, cui la Corte di merito ha già dato congrua risposta, avendo osservato che la ipotesi dell’accesso involontario appare esclusa sia dal fatto che il C. avesse contatti con altri soggetti avvezzi alla divulgazione di materiale pedopornografico sia, principalmente, dalla circostanza che il materiale in questione era conservato in files ed in altri supporti informatici creati ad hoc, con indubbia consapevolezza, da un utente, cioè il C., che non poteva, visti i nomi con i quali i predetti contenitori erano stati catalogati – evidentemente allusivi ed a volte con plateale volgarità al loro oggetto, ignorarne il contenuto.
Passando al successivo motivo di ricorso, il quinto, con il quale è contestata la concludenza della perizia tecnica in esito alla quale è stata rilevata la minore età dei soggetti effigiati nelle immagini pornografiche rinvenute presso l’imputato, essendo stato rilevato dalla ricorrente difesa che il Ctu avrebbe semplicemente affermato la “verosimile” minore età di tali soggetti, è stata ben precisa la sentenza della Corte dorica nel rilevare che, al di là di una certa prudenza espressa dal teste attraverso la parola “verosimile”, la diretta visione di talune delle immagini da questo, nello svolgimento del suo incarico, estrapolate dal ben più corposo compendio rinvenuto della disponibilità dell’imputato, ed acquisite al fascicolo del processo, ha permesso di evidenziare, sulla base dei diversi e tutti attendibili indici morfologici posti in evidenza dalla Corte di Ancona nella motivazione della sentenza impugnata, che le figure ivi rappresentate riproducessero la immagine di persone aventi ancora uno stadio incompleto di maturazione fisica e, pertanto, è legittimo ritenere che si trattasse di individui cronologicamente ancora minorenni.
La natura fattuale di tale inferenza, logicamente operata dalla Corte, ne impedisce il riesame in questa sede di legittimità, rendendo, pertanto, inammissibile il motivo di ricorso con il quale una tale verifica era stata sollecitata.
Il sesto motivo di impugnazione concerne la contraddittorietà e la mancanza degli elementi probatori in forza dei quali è stata affermata la penale responsabilità dell’imputato.
Si tratta di doglianza priva di pregio, posto che, a differenza di quanto ritenuto dalla parte ricorrente, nella sentenza impugnata si è dato atto della esistenza di elementi dimostrativi univoci della sua penale responsabilità, essendo stata evidenziata la presenza, di per sè atta a tacitare qualsivoglia lamento difensivo, di ben 596 foto ritraenti ragazze (sulla raggiunta prova della minore età di diverse delle quali già ci si è dianzi intrattenuti) “vestite, seminude e nude in atti sessuali”, di un CD Rom contenente immagini cinematografiche a contenuto pedopornografico, oltre a quella di numerosi collegamenti effettuati a siti specializzati nella pedopornografia; che poi nella sentenza della Corte il termine in questione, sia utilizzato promiscuamente con quello di “pornografico” non è certo indice di contraddittorietà della motivazione di detta sentenza, posto che quella della “pedopornografia” non è certo una categoria concettuale che si contrapponga in termini di reciproca esclusione a quella della “pornografia” (nel senso che laddove si sia in presenza di immagini pedopornografiche vi è la negazione della pornografia e viceversa), costituendo, semmai, essa una species, avente rilevanza penale, di un più ampio genus di cui la medesima, indubbiamente, fa tuttavia parte.
In ordine al settimo motivo di ricorso, riguardante il difetto di motivazione in punto di determinazione del trattamento sanzionatorio, si rileva che essendo stato questo ampiamente contenuto entro i limiti del medio edittale, anzi essendo stato lo stesso, pur nel consapevole rilievo del “carattere non isolato della condotta” e della “astuzia dimostrata dal C. nel tentativo di occultare le proprie responsabilità”, benevolmente delimitato ad un dipresso dal minimo della pena che l’astratta comminatoria legislativa prevede – onere motivazionale che il giudice del merito doveva soddisfare onde giustificare la dosimetria sanzionatoria poteva ritenersi esaurito anche attraverso il riferimento, come è infatti avvenuto nel caso di specie, alla effettiva congruità della pena irrogata (cfr. Corte di cassazione, Sezione IV penale, 26 giugno 2013, n. 27959).
Il ricorso deve, conclusivamente, essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente, visti l’art. 616 c.p.p. va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 25 ottobre 2021
Cass. pen., Sez. Unite, Sent., (data ud. 15/07/2021) 26/10/2021, n. 38402
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Presidente –
Dott. BRUNO Paolo Antonio – Consigliere –
Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere –
Dott. PICCIALLI Patrizia – Consigliere –
Dott. ZAZA Carlo – rel. Consigliere –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere –
Dott. PELLEGRINO Andrea – Consigliere –
Dott. BELTRANI Sergio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
- Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Roma;
- M.A., nata a (OMISSIS) nel procedimento a carico di quest’ultima;
avverso la sentenza del 21/04/2020 della Corte di assise di appello di Roma;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal Consigliere Carlo Zaza;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Birritteri Luigi, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale e per il rigetto del ricorso dell’imputata;
udito il difensore delle parti civili I.G., I.A., I.R. e C.G.A., avv. Dino Lucchetti, che ha concluso per il rigetto del ricorso dell’imputata depositando conclusioni e nota spese;
uditi i difensori dell’imputata M.A. avv. Giuseppe Cincioni, in sostituzione dell’avv. Giovanni Aricò, e avv. Pasquale Cardillo Cupo, che hanno concluso per l’accoglimento del proprio ricorso e per l’inammissibilità del ricorso del Procuratore generale.
Svolgimento del processo
- Con sentenza del 2 aprile 2017 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Latina, a seguito di giudizio abbreviato, condannava M.A. alla pena di sedici anni di reclusione per la continuazione fra il reato di cui all’art. 612-bisc.p. e quello di cui all’art. 575c.p., quest’ultimo aggravato dai futili motivi e dalla commissione del fatto ad opera di persona responsabile del reato di atti persecutori in danno della stessa vittima dell’omicidio C.A.L., riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti.
- Il corpo privo di sensi della C., impiegata presso l’ufficio postale di Sperlonga, era stato rinvenuto il 14 giugno 2016 sul pavimento del vano scale del parcheggio pubblico multipiano attiguo a detto ufficio con lesioni, successivamente identificate dagli accertamenti medico-legali, in fratture zigomatiche, nasali e craniche. Queste ultime cagionavano il decesso della C. il successivo 21 giugno in conseguenza di emorragia extraparenchimale.
Secondo i giudici di merito l’imputata, dopo aver raggiunto la C. sulle scale, l’aveva aggredita e spinta, cagionandone la caduta e il violento urto del capo che provocava le lesioni craniche. Tale ricostruzione si fondava sulle dichiarazioni dei testi intervenuti che indicavano la presenza sul luogo, nell’immediatezza del fatto, della collega della vittima M.A., su altri contributi testimoniali, su riprese dell’impianto di sorveglianza del parcheggio, da cui risultava che la C. percorreva le scale in discesa e la M. si dirigeva verso il vano scale dopo essere entrata nel parcheggio da altro accesso, nonchè sul rilevamento di tracce di sangue della C. in corrispondenza del primo gradino della scala e di una ciocca di capelli, stretta nella mano della vittima, corrispondente al profilo genetico della M..
Alla luce delle dichiarazioni di colleghi delle due donne e di congiunti e conoscenti della vittima, si riteneva altresì che la M., dal 2015 fino al giorno dell’omicidio, avesse dato luogo, nel corso dell’attività lavorativa presso l’ufficio postale, ad una reiterata condotta persecutoria in danno della C., rivolgendole epiteti ingiuriosi, inviandole messaggi offensivi e minacciosi e cercando continuamente il contatto fisico con la stessa mediante gomitate e spallate, in modo da creare uno stato di ansia e timore che induceva la C. ad evitare di incrociare la M., ad uscire dall’ufficio al termine della giornata lavorativa solo dopo che la predetta si era allontanata e a programmare la cessazione anticipata del rapporto di lavoro.
- Essendo stato proposto appello avverso la sentenza di cui sopra dal pubblico ministero, dalle parti civili e dall’imputata, con sentenza del 28 giugno 2018 la Corte di assise di appello di Roma, in accoglimento del gravame della M., assolveva quest’ultima dall’imputazione di atti persecutori per insussistenza del fatto e, riqualificato il reato di omicidio volontario come preterintenzionale ed escluse le aggravanti, rideterminava la pena in sei anni di reclusione.
- A seguito di ricorso per cassazione proposto da tutte le parti avverso la decisione di secondo grado, la Prima sezione di questa Corte, il 10 luglio 2019, annullava la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio sui seguenti punti.
4.1. La sentenza impugnata, nel riqualificare il fatto omicidiario, aveva escluso l’intento dell’imputata di sorprendere la vittima sulle scale per ucciderla, il pericolo, a seguito della spinta, di una precipitazione della vittima nel vuoto, in considerazione dell’assenza di una tromba delle scale, nonchè la configurabilità del dolo omicidiario a fronte della caduta da pochi gradini e delle deposizioni testimoniali sull’atteggiamento compassionevole tenuto dalla M..
Nel motivare su questi profili i giudici di appello avevano, però, omesso di confrontarsi criticamente con le diverse narrazioni sulla dinamica del fatto e sulle caratteristiche delle scale e, comunque, con l’articolato contenuto delle argomentazioni della sentenza di primo grado in merito alla sussistenza di un dolo omicidiario quanto meno eventuale, desumibile dalla accettazione dell’evento insita nello scaraventare per le scale una persona di mezza età già stordita dalle procurate fratture allo zigomo e alle ossa nasali.
4.2. La sentenza di questa Corte rilevava altresì, a quest’ultimo proposito, l’illogicità della motivazione fondata sull’astratta ipotesi di una caduta della vittima per rotolamento, nonostante la presenza di elementi oggettivi di segno contrario.
4.3. Anche la motivazione sull’assoluzione dall’imputazione di atti persecutori era ritenuta carente, in quanto fondata sulla qualificazione dei rapporti fra la M. e la C. in termini di reciproca ostilità, sulla base di testimonianze contrastanti delle quali non era stata vagliata l’attendibilità.
- Con sentenza del 21 aprile 2020 la Corte di assise di appello di Roma, giudicando in sede di rinvio, riteneva la M. responsabile del reato continuato di atti persecutori ed omicidio volontario aggravato dalla commissione del fatto ad opera di persona responsabile del reato di atti persecutori in danno della stessa vittima dell’omicidio, e, ritenute le attenuanti generiche equivalenti a tale residua aggravante, rideterminava la pena in quindici anni e quattro mesi di reclusione.
La responsabilità dell’imputata per il reato di atti persecutori era ritenuta provata da quanto dichiarato dai congiunti, da una vicina e da colleghe della C., destinatarie di confidenze di quest’ultima in ordine agli atti persecutori subiti dalla M.’. Le prove dichiarative erano suffragate, ad avviso dei giudici, dal rinvenimento, su un opuscolo divulgativo delle poste, di commenti offensivi nei confronti della C. che la consulenza grafica riconduceva alla grafia dell’imputata, e dai fotogrammi tratti dalle videoriprese dell’impianto di sorveglianza, indicativi dell’atteggiamento di cautela della C. nel percorso di uscita dall’ufficio al fine di non avere contatti con la M..
Quanto al reato di omicidio volontario, i giudici ritenevano che il narrato dei testi, i quali avevano visto la M. dirigersi verso il vano scale del parcheggio e subito dopo avevano udito l’urlo di una donna e un tonfo, valutato unitamente alle risultanze medico-legali, consentisse di ritenere accertato che l’imputata aveva colpito la C. con un pugno al viso, cagionando le lesioni nasali e zigomatiche, e successivamente le aveva inferto una spinta, provocandone la caduta all’indietro e l’urto della testa contro il pianerottolo della scala. Sulla base di questa ricostruzione la Corte di assise di appello di Roma argomentava che l’evento letale era stato quanto meno accettato dall’imputata ed escludeva che indicazioni di segno contrario potessero essere tratte dal successivo comportamento assunto dalla M., la quale avrebbe brevemente sorretto il capo della vittima per poi allontanarsi repentinamente. La sentenza osservava in proposito che tale comportamento non era stato confermato dai primi testimoni giunti sul luogo, ma era stato descritto solo dai testi successivamente sopraggiunti, e che, quindi, poteva essere stato adottato in chiave difensiva.
Il concorso fra i reati di atti persecutori ed omicidio volontario aggravato ai sensi dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 era affermato sulla base di un orientamento giurisprudenziale in tal senso.
La richiesta prevalenza delle attenuanti generiche era esclusa in considerazione della concorrente condotta persecutoria e del negativo comportamento processuale costituito dalla falsa accusa di aggressione rivolta alla vittima.
- Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale e l’imputata.
6.1. Il Procuratore generale ricorrente deduce vizio motivazionale in ordine al giudizio di equivalenza delle circostanze, lamentando l’omesso esame del motivo di appello relativo alla richiesta subvalenza delle attenuanti generiche. Lamenta, inoltre, la contraddittorietà del giudizio di equivalenza, tenuto conto degli elementi sfavorevoli all’imputata indicati nella sentenza impugnata.
6.2. L’imputata ricorre con due atti di impugnazione proposti dai propri difensori.
Con l’atto proposto dall’avv. Cardillo Cupo si deducono i seguenti cinque motivi.
6.2.1. Vizio motivazionale sulla sussistenza del reato di atti persecutori.
Le dichiarazioni testimoniali favorevoli alla ricostruzione accusatoria sono state illogicamente preferite a quelle difensive, malgrado le prime si limitassero a riferire confidenze della persona offesa. E’ stata omessa la valutazione delle testimonianze dei dipendenti dell’ufficio sulla reciprocità delle condotte offensive fra la M. e la C.. Quanto ai ritenuti riscontri, l’opuscolo contiene in realtà annotazioni riferite a tutti i dipendenti. La cautela della vittima nell’uscire dall’ufficio dopo la M. è stata desunta unicamente da una videoripresa del giorno del ritenuto omicidio, che non evidenzia in maniera univoca questo atteggiamento e documenta l’uscita della C. dall’ufficio a distanza di pochi secondi dall’imputata. Non sono state considerate le dichiarazioni del padre dell’imputata, pur se confermate da produzione documentale, da cui risulta che la M. aveva deciso di cambiare sede di lavoro a causa dell’atteggiamento della C.. Non vi è traccia della domanda di trasferimento di quest’ultima di cui ha riferito la teste T.. Non sono state valutate neppure le dichiarazioni del teste N. che attribuiscono chiaramente al marito della C. la volontà di convincere la moglie al pensionamento anticipato.
6.2.2. Violazione di legge e vizio motivazionale sulla configurabilità del reato di cui all’art. 612-bis c.p..
La condotta contestata è riconducibile alla diversa fattispecie civilistica del mobbing, in quanto svoltasi esclusivamente in ambito lavorativo.
6.2.3. Violazione di legge con riferimento al ritenuto concorso del reato di atti persecutori con il reato di omicidio volontario.
La fattispecie aggravata di quest’ultimo delitto, prevista dall’art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, realizza un’ipotesi di reato complesso ai sensi dell’art. 84 c.p., e tanto non consente di aderire all’orientamento, richiamato nella sentenza impugnata, per il quale l’assorbimento del reato di atti persecutori in quello di omicidio aggravato sarebbe escluso dalla diversità strutturale delle fattispecie incriminatrici. E’, altresì, inconferente il richiamo alla disciplina di cui all’art. 15 c.p., applicabile ai casi nei quali un unico reato è riferibile a più disposizioni in rapporto di specialità, e non ad un caso, come quello in esame, in cui il rapporto intercorre non fra più reati, ma fra il reato di atti persecutori e la contestata aggravante del reato di omicidio. La suddetta aggravante non può essere qualificata come circostanza soggettiva diretta ad inasprire il trattamento sanzionatorio nei confronti del soggetto responsabile anche del reato di atti persecutori, essendo la formulazione letterale della norma chiaramente espressiva della previsione di un’aggravante oggettiva.
6.2.4. Vizio motivazionale sulla sussistenza del reato di omicidio volontario.
Non è provato che la M. si fosse diretta verso le scale dopo aver notato la presenza della C., e sul punto non è stata tenuta in adeguata considerazione la versione dell’imputata, che riferiva di essere tornata verso l’ufficio dal parcheggio per parlare con il collega D.B..
L’affermazione contenuta nella sentenza impugnata, che argomenta l’inverosimiglianza della versione difensiva dell’aggressione della M. ad opera della C. con le mani ingombre, contrasta con lo strappo di un ciuffo di capelli dell’imputata da parte della vittima.
La ricostruzione della spinta che l’imputata avrebbe inferto alla C. è difforme da quella proposta nella sentenza di primo grado e priva di supporto probatorio, in quanto non è stato accertato da quale gradino della scala la persona offesa era caduta, e dalla tempistica descritta dai testimoni si desume che la M. aveva potuto salire solo pochi gradini.
L’argomentazione circa la precostituzione difensiva dell’atteggiamento compassionevole verso la C., da parte dell’imputata, è illogica, in quanto sarebbe stato ben più agevole per l’imputata allontanarsi.
La sentenza impugnata non tiene conto della relazione psichiatrica da cui emergono le sofferenze manifestate dall’imputata durante l’esecuzione della custodia cautelare.
6.2.5. Violazione di legge su(giudizio di mera equivalenza delle attenuanti generiche rispetto all’aggravante.
Il riconoscimento delle attenuanti è oggetto di un giudicato formatosi sulla statuizione della precedente sentenza di appello che aveva applicato la corrispondente diminuzione di un terzo della pena, i cui effetti sono stati vanificati dalla mancata applicazione di detta diminuzione in conseguenza del bilanciamento con la circostanza aggravante.
6.3. Con l’atto proposto dall’avv. Aricò si deducono i seguenti due motivi. 6.3.1. Violazione di legge e vizio motivazionale in ordine alla sussistenza del reato di omicidio volontario.
La sentenza rescindente aveva fissato il principio di diritto per il quale la natura del dolo doveva essere accertata con riferimento al momento dell’azione lesiva, ed a questi fini il materiale probatorio doveva essere interamente rivalutato. In questa ottica la sentenza impugnata non ha colmato il vuoto conoscitivo sull’individuazione dell’esatto luogo nel quale la condotta sarebbe stata sarebbe stata posta in essere, imprescindibile ai fini delle valutazioni sulla ravvisabilità del ritenuto dolo eventuale. In merito alla tesi difensiva di un’aggressione iniziata dalla C., oltre a quanto osservato in precedenza, la ricostruzione dello strappo dei capelli della M. quale mera reazione istintiva alla caduta è illogica, nel momento in cui un siffatto gesto aveva cagionato conseguenze lesive al cuoio capelluto dell’imputata.
6.3.2. Violazione di legge e vizio motivazionale sulla sussistenza del reato di atti persecutori.
In aggiunta a quanto dedotto in precedenza, il mandato della sentenza rescindente, che imponeva di valutare l’attendibilità dei diversi contributi dichiarativi, non è stato rispettato, in quanto sono state valutate solo le dichiarazioni che riportavano quanto riferito dalla vittima sugli atti vessatori subiti, e non anche quelle che rappresentavano una situazione di reciprocità di offese.
- Con ordinanza del 1 marzo 2021 la Quinta Sezione penale di questa Corte, investita della decisione sui ricorsi, ha rilevato, con riguardo alla questione sul concorso fra i reati di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576c.p., comma 1, n. 5.1, l’esistenza di due contrastanti orientamenti giurisprudenziali.
Osserva che il primo di essi, richiamato nella sentenza impugnata, considera la natura soggettiva dell’aggravante, in quanto fondata sull’identità dell’autore dei due reati, traendone la conseguenza che l’elemento aggravatore non è pertinente alla condotta. Esclude la riconducibilità del caso alla previsione dell’art. 15 c.p. per l’insussistenza del rapporto di specialità che detta norma presuppone.
Evidenzia tuttavia la ricorrenza di un secondo indirizzo interpretativo, secondo cui il caso in esame realizza un’ipotesi di reato complesso nella quale la fattispecie omicidiaria aggravata assorbe il disvalore degli atti persecutori.
Secondo tale interpretazione, ciò che aggrava il reato di omicidio non è, infatti, la commissione dello stesso da parte del persecutore in quanto tale, ma il fatto che l’omicidio sia stato preceduto dalle condotte persecutorie. In questa prospettiva il concorso dei due reati farebbe pesare inammissibilmente per due volte sul soggetto agente il disvalore degli atti persecutori.
Ha rimesso, pertanto, i ricorsi alle Sezioni Unite per la soluzione del contrasto.
- Con decreto del 21 aprile 2021 il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissandone la trattazione per l’udienza odierna.
- Nell’interesse delle parti civili I.G., I.A., I.R. e C.G., è stata depositata memoria con la quale, sulla questione oggetto della rimessione, si osserva che la norma che prevede la circostanza aggravante in esame sanziona la maggiore pericolosità dell’omicidio in quanto commesso nei confronti della persona vittima di una condotta persecutoria. La tesi del reato complesso è fondata su una progressione criminosa non chiaramente identificabile e non necessariamente sussistente, potendo l’omicidio essere commesso in occasione di uno qualsiasi degli atti persecutori. Le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione confondono il reato complesso con i diversi istituiti della progressione criminosa e dell’antefatto non punibile, che richiedono l’omogeneità degli interessi offesi. La formulazione letterale dell’art. 576c.p., comma 1, n. 5.1 non comprende gli atti persecutori. Quanto agli ulteriori motivi proposti dall’imputata, si osserva che la sussistenza della fattispecie di omicidio volontario è motivata nella sentenza impugnata in base alle risultanze oggettive e medico-legali sulla precipitazione del corpo della vittima. Sulla sussistenza del reato di atti persecutori le dichiarazioni indicate dalla difesa sono state esaminate. Il mutamento delle abitudini di vita della vittima era motivato dalla necessità di attendere l’uscita dal lavoro della M.: tale circostanza esprimeva anche il timore della C. per la propria incolumità. La sentenza impugnata è sorretta da idonea motivazione anche sulla riconducibilità alla condotta vessatoria della M. dell’intenzione della C. di chiedere il pensionamento.
- Sulla questione oggetto della rimessione il Procuratore generale in sede e il difensore dell’imputata avv. Aricò hanno depositato note d’udienza a sostegno delle rispettive richieste.
Motivi della decisione
- La questione rimessa alle Sezioni Unite può essere formulata nei seguenti termini: “Se, in caso di omicidio commesso dopo l’esecuzione di condotte persecutorie poste in essere dall’agente nei confronti della medesima persona offesa, i reati di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576c.p., comma 1, n. 5.1 concorrano tra loro o sia invece ravvisabile un reato complesso, ai sensi dell’art. 84c.p., comma 1″.
- La questione è oggetto di contrasto giurisprudenziale fra due pronunce pervenute, sul tema in discussione, a conclusioni opposte.
2.1. Nella prospettiva adottata dal primo orientamento (Sez. 1, n. 20786 del 12/04/2019, P., Rv. 275481) non ricorre nel caso di specie alcuna delle ipotesi generali di esclusione del concorso fra le norme incriminatrici, da considerarsi pertanto sussistente sulla base delle seguenti argomentazioni.
L’art. 84 c.p., comma 1, esclude l’applicazione delle disposizioni sul concorso di reati quando “la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sè stessi, reato”. Quindi, condizione imprescindibile per la ravvisabilità della figura del reato complesso è l’interferenza fra le norme incriminatrici su un fatto oggettivo, comune agli ambiti applicativi delle stesse. L’attenzione normativa è riposta sui “fatti”, per tali dovendosi intendere i profili oggettivi e non anche la relazione eminentemente soggettiva tra il fatto e il suo autore, posto che il rapporto è tra fattispecie e, dunque, tra accadimenti umani.
La scelta legislativa di attribuire specifico rilievo, nella disciplina dell’aggravante ex art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, alla identità del soggetto autore sia del delitto di atti persecutori che di quello di omicidio volontario, e non alla relazione tra i fatti commessi, è frutto di una consapevole modalità espressiva, come si evince dalla disposizione aggravatrice immediatamente precedente in cui è usata una formula lessicale significativamente diversa, incentrata sulle condotte lesive il cui disvalore aggiuntivo risiede nel fatto che esse sono state compiute “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572, 600-bis, 600-ter, 609-bis, 609-quater e 609-octies”; l’omessa riproposizione, nella disposizione che qui interessa, dell’espresso riferimento al legame, quanto meno occasionale, con il reato diverso dall’omicidio (nella specie il delitto di atti persecutori), esclude che il fatto costitutivo di detto reato sia considerato in quanto tale integrativo della fattispecie aggravata.
Per altro verso, non è possibile ravvisare nell’ipotesi considerata un caso di concorso apparente di norme ex art. 15 c.p., che le Sezioni Unite (ultimamente Sez. U, n. 2664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668) hanno ritenuto applicabile qualora fra le norme evocate dal caso concreto sussista un rapporto di specialità in astratto, indiscutibilmente non sussistente fra le incriminazioni di omicidio volontario ed atti persecutori. Irrilevante, infine, per il corretto inquadramento della questione, è la clausola di riserva contenuta nell’art. 612-bis c.p., comma 1, (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), attesa la oggettiva diversità tra il fatto idoneo ad integrare il delitto di cui all’art. 575 c.p. e quello riconducibile al paradigma normativo dell’art. 612-bis c.p., dei quali, peraltro, l’uno ha natura istantanea e l’altro abituale.
Sulla base di tali considerazioni, l’indirizzo in esame giunge alla conclusione che il delitto di atti persecutori concorre con quello di omicidio, pur se aggravato dalla commissione della condotta persecutoria in danno della stessa vittima.
2.2. Nel percorso argomentativo dell’opposto indirizzo (Sez. 3, n. 30931 del 13/10/2020, G., Rv. 280101) il concorso fra i reati di omicidio e atti persecutori è invece escluso in conseguenza della ritenuta ravvisabilità, nella fattispecie omicidiaria aggravata dal compimento di una condotta persecutoria da parte dello stesso autore nei confronti della medesima vittima, di una figura di reato complesso che assorbe il delitto di cui all’art. 612-bis c.p..
E’ opportuno precisare che la decisione citata riguardava un caso particolare nel quale la questione si poneva nella prospettiva del ne bis in idem processuale, e non sostanziale; era infatti dedotta, in quel giudizio di legittimità, la violazione dell’art. 649 c.p.p. in relazione alla condanna (fra gli altri) per il reato di atti persecutori, intervenuta dopo una precedente condanna per il reato di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, in una situazione concreta nella quale vi era coincidenza fattuale e temporale della condotta persecutoria contestata nei due procedimenti. La questione veniva tuttavia risolta in base a considerazioni valide in termini generali circa l’assorbimento del reato di atti persecutori in quello di omicidio aggravato.
Secondo questo orientamento, la formulazione testuale della menzionata disposizione aggravatrice, contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza di segno contrario precedentemente esposta, non limita il suo oggetto descrittivo alla posizione soggettiva dell’autore dell’omicidio quale persecutore della vittima, ma estende la sua portata fino a comprendere il fatto persecutorio nella sua interezza. Tanto in conseguenza del riferimento all’espressa indicazione dell’identità non solo del soggetto agente dei due reati, ma anche del soggetto passivo degli stessi; il che implica necessariamente l’inclusione, nella previsione normativa, di entrambi i fatti criminosi intercorsi fra tali soggetti, realizzando la condizione della comprensione dei fatti in un reato complesso di cui l’opposto indirizzo giurisprudenziale nega l’esistenza.
In questa prospettiva, traspare l’intento del legislatore di aggravare la pena non per quello che il soggetto agente dell’omicidio appare essere, ma per ciò che lo stesso ha fatto; e quindi non perchè l’omicidio è commesso da un persecutore, ma in quanto tale delitto è preceduto da una condotta persecutoria della quale lo stesso costituisce l’esito. Tale conclusione sarebbe confermata dai lavori preparatori all’introduzione della circostanza aggravante in esame con il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, art. 1, comma 1, lett. a), convertito con modificazioni dalla L. 23 aprile 2009, n. 38. Dagli stessi si desume che l’integrazione normativa è stata giustificata con la necessità di fronteggiare l’allarmante fenomeno della commissione di omicidi in danno delle vittime di atti persecutori, in tal modo presupponendo, quale oggetto della nuova previsione aggravatrice, una connessione fra i due fatti criminosi, entrambi compresi nella stessa.
In presenza di questi elementi testuali e sistematici, una lettura nel senso del concorso dei reati si tradurrebbe nella sostanziale abrogazione della disciplina del reato complesso di cui all’art. 84 c.p. e, per altro verso, nel duplice addebito, a carico del soggetto agente, del delitto volontario aggravato ex art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 e di quello di atti persecutori, in violazione del principio generale del ne bis in idem, nei suoi aspetti sia processuali che sostanziali.
Nell’economia della motivazione della decisione citata assume peraltro rilievo contrale, ai fini dello sviluppo del ragionamento, la circostanza che la fattispecie assorbente sia costituita da un omicidio volontario verificatosi quale sviluppo conseguente della condotta persecutoria.
- Ai fini del corretto inquadramento della problematica in esame, sono innanzitutto e senz’altro condivisibili le argomentazioni della sentenza della Prima Sezione in ordine all’irrilevanza, per un verso, della normativa sul concorso apparente di norme (art. 15c.p.), e, per altro, della clausola di riserva contenuta in una delle norme incriminatrici astrattamente incidenti sulla fattispecie, ossia l’art. 612-bisc.p..
3.1. Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza delle Sezioni Unite ha da tempo chiarito che la sussistenza dell’identità della materia regolata da più disposizioni della legge penale, che costituisce il presupposto normativo dell’operatività dell’istituto del concorso apparente, non può essere valutata alla luce di criteri diversi dal principio di astratta specialità fra le norme (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668). L’ipotesi dell’esclusiva applicabilità di una sola delle norme incriminatrici ricorre pertanto unicamente ove, all’esito del confronto strutturale fra le fattispecie astratte configurate e della comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle, sia da escludere il presupposto della convergenza di norme (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248864).
Tali condizioni non sono all’evidenza ravvisabili nel raffronto tra le articolazioni strutturali degli artt. 575 e 612-bis c.p., che non presentano elementi comuni nè con riguardo alle condotte, costituite nella prima norma da atti lesivi dell’integrità fisica e nella seconda da comportamenti minacciosi o molesti, nè per quanto concerne gli eventi, diversamente individuati, per il primo reato, nella morte della vittima, e, per il secondo, nell’induzione nella stessa di stati di ansia, paura o timore per l’incolumità propria o di congiunti, ovvero dalla costrizione della persona offesa all’alterazione delle proprie abitudini di vita. Non senza considerare, peraltro, che anche l’eventuale riferimento agli ormai superati criteri fondati sull’omogeneità o meno degli interessi tutelati dalle norme (Sez. 5, n. 13164 del 01/10/1999, Melluccio, Rv. 214712) condurrebbe nel caso di specie a risultati analoghi, essendo i reati in discussione diretti ad offendere l’uno il valore della vita e l’altro quello della libertà morale della persona.
3.2. Per quanto riguarda il secondo aspetto, relativo alla presenza nell’art. 612-bis c.p. della clausola di riserva per il caso in cui il fatto costituisca un più grave reato, le stesse osservazioni che precedono, in ordine alla radicale difformità strutturale delle fattispecie incriminatrici dell’omicidio e degli atti persecutori e alla estraneità dei relativi elementi costitutivi, implicano inevitabilmente l’impossibilità che il fatto persecutorio integri di per sè il più grave e diverso fatto omicidiario.
3.3. A prescindere da queste considerazioni, va però richiamata l’attenzione su un dato che in ogni caso le supera, rivelandosi in definitiva dirimente. Il riferimento normativo per la soluzione della questione, anche per i termini nei quali la stessa è stata proposta alle Sezioni Unite, si individua esclusivamente nell’art. 84 c.p.; si tratta di stabilire, infatti, se il caso in esame sia e meno riconducibile all’istituto del reato complesso, disciplinato da detta norma.
E’ noto a questa Corte il risalente dibattito dottrinario sulla identificazione del principio generale del quale il citato art. 84 sarebbe espressione. Essoe ha visto contrapporre ai richiami ai criteri della specialità in concreto, della sussidiarietà, della consunzione o del ne bis in idem sostanziale quello alla specialità in astratto posta a fondamento dell’art. 15 c.p., di cui l’art. 84 sarebbe una sostanziale duplicazione. Questa tesi ha trovato anche un riconoscimento giurisprudenziale in un caso in cui l’assorbimento del reato di procurata somministrazione di sostanze stupefacenti (art. 613 c.p.) in quello di rapina, aggravata dal porre il soggetto passivo in stato di incapacità di volere e agire (art. 628 c.p., comma 3, n. 2), è stato giustificato quale applicazione specifica del principio di specialità e del conseguente concorso apparente di norme (Sez. 2, n. 50155 del 1/11/2004, Minicucci, Rv. 230601).
E’ tuttavia alla particolare struttura normativa del reato complesso, per come delineata dall’art. 84, che occorre avere riguardo per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici richiamate.
- La soluzione del quesito richiede a questo punto una preliminare riflessione sulla fattispecie del reato complesso, come tale nominata nella rubrica dell’art. 84c.p., e descritta, nel comma 1 di detto articolo, quale sussunzione, come elementi costitutivi o circostanze aggravanti di un reato, di fatti di per sè costituenti autonomi reati.
4.1. Dal tenore letterale della disposizione risulta immediatamente che la figura in esame presenta più forme di manifestazione. Va tralasciata, in quanto non attinente al caso oggetto della questione rimessa, la problematica dell’inclusione o meno tra queste forme del cosiddetto “reato complesso in senso lato”, nel quale una fattispecie incriminatrice è composta da un fatto costituente altro reato e da ulteriori elementi di fatto in sè privi di rilevanza penale. Tale ipotesi è stata ritenuta configurabile dalla giurisprudenza con riguardo al reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, in quanto comprendente un fatto di appropriazione indebita a cui si aggiunge la sentenza dichiarativa di fallimento (Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015, dep. 2016, Marafioti, Rv. 266018), mentre viene diversamente ricondotta da parte della dottrina alla diretta applicazione del principio generale di specialità.
Tanto premesso, nel testo della norma citata si individuano chiaramente due distinte ipotesi, rispettivamente denominate in dottrina come “reato composto”, costituito da elementi che di per sè integrererebbero altre figure criminose, e come “reato complesso circostanziato”, nel quale, ad una fattispecie-base, distintamente prevista come reato, si aggiunge quale circostanza aggravante un fatto autonomamente incriminato da altra disposizione di legge.
La seconda di tali ipotesi è quella che evidentemente ricorrerebbe nel caso proposto alle Sezioni Unite secondo una delle interpretazioni giurisprudenziali in contrasto, per la quale il reato-base di omicidio volontario è aggravato dalla commissione di un fatto costituente il diverso reato di atti persecutori.
Dal testo normativo emergono peraltro, per il reato complesso in genere come per quello circostanziato in particolare, alcune indicazioni di contenuto chiaro e indiscutibile.
4.2. E’ in primo luogo necessario che l’elemento costitutivo o la circostanza aggravante del reato complesso abbiano ad oggetto un fatto oggettivamente identificabile come tale. Ne segue che la fattispecie in esame non ricorre allorchè la norma incriminatrice, in tesi assorbente, consideri in questa prospettiva una mera qualificazione soggettiva del soggetto agente. E’ il caso della condizione di persona facente parte di un’associazione finalizzata alla commissione di reati di contrabbando (L. 17 luglio 1942, n. 907, art. 81, n. 4), in relazione alla quale è stato ravvisato il concorso fra il reato di contrabbando aggravato e quello di associazione per delinquere (Sez. 3, n. 11916 del 05/10/2016, dep. 2017, Colombo, Rv. 269276).
4.3. Occorre, altresì, che il fatto di cui sopra sia inserito nella struttura del reato complesso nella completa configurazione tipica con la quale è previsto quale reato da altra norma incriminatrice. Per questa ragione è stata coerentemente esclusa la natura di reato complesso della rissa, aggravata dalla morte o dalle lesioni subite da taluno nel corso della stessa, rispetto ai reati di omicidio o lesioni personali, essendo gli eventi aggravanti inclusi nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 588 c.p. nella loro oggettiva verificazione quale conseguenza della colluttazione, e non in tutte le componenti materiali e psicologiche dei reati specificamente previsti dagli artt. 575 e 582 c.p. (Sez. 1, n. 30215 del 07/04/2016, R., Rv. 267224). Analogamente, è stato escluso l’assorbimento del reato di porto illegale di arma nel delitto di rapina aggravata dall’uso della medesima arma (art. 628 c.p., comma 3, n. 1), in quanto il delitto di porto illegale è integrato da una condotta diversa da quella sufficiente per la realizzazione dell’aggravante della rapina, che richiede unicamente l’utilizzazione di un’arma anche non detenuta o portata illegalmente (Sez. 2, n. 8999 del 18/11/2014, dep. 2015, Di Stefano, Rv. 263229). La giurisprudenza ha, inoltre, ritenuto assorbita la contravvenzione di possesso ingiustificato di strumenti di effrazione (art. 707 c.p.) nel delitto di furto aggravato dalla violenza sulle cose o dal mezzo fraudolento solo allorchè gli strumenti abbiano trovato effettivo impiego nell’azione furtiva e la detenzione sia attuata esclusivamente con l’uso necessario all’effrazione (Sez. 2, n. 5731 del 02/10/2019, dep. 2020, Lamonaca, Rv. 278371).
4.4. Il fatto deve, infine, essere previsto dalla norma incriminatrice, che si assume configurare un reato complesso, quale componente necessaria della relativa fattispecie astratta, non essendone rilevante l’eventuale ricorrenza nel caso concreto quale occasionale modalità esecutiva della condotta. In tal senso la Corte di legittimità ha ritenuto il concorso del reato di falso in atto pubblico con quello di truffa del quale il falso abbia costituito un artificio nella situazione specificamente contestata (Sez. 5, n. 2935 del 05/11/2018, dep. 2019, Manzo, Rv. 274589), nonchè il concorso del reato di esercizio abusivo di attività finanziaria con quello di usura, non necessariamente realizzabile mediante l’irregolare erogazione di un finanziamento (Sez. 2, n. 43916 del 04/10/2019, Abbate, Rv. 277740).
Le citate decisioni hanno sostanzialmente ritenuto estranea alla fattispecie dell’art. 84 c.p., nella sua inequivoca e insuperabile formulazione testuale, la figura del “reato eventualmente complesso”, ipotizzata da parte della dottrina.
- Sulla base di quanto sinora esposto è possibile affermare che i tratti strutturali della fattispecie normativa del reato complesso, chiaramente rilevabili dalla formulazione letterale dell’art. 84c.p., richiedono la previsione testuale di più fatti di per sè costituenti autonomi e diversi reati, puntualmente riconducibili a distinte fattispecie incriminatrici.
A questo punto si tratta di verificare, alla luce della ratio e della collocazione sistematica dell’istituto, se sussistano ulteriori presupposti per la configurabilità del reato complesso.
Il tema, come si è visto, è prospettato nella stessa ordinanza di rimessione. Secondo uno dei due indirizzi interpretativi esaminati, il reato complesso si configura in presenza anche di un collegamento sostanziale fra la condotta omicidiaria e quella persecutoria, collegamento la cui necessità è stata affermata anche da una parte della dottrina. Quest’ultima, pur ammettendo che la figura del reato complesso è il risultato di un’operazione legislativa di unificazione di reati, individua alla base di tale costruzione normativa un substrato sostanziale che riconduce i fatti ad un contesto criminoso esso stesso unitario e ne identifica il profilo di congiunzione in una comune matrice ideologica quanto ai motivi a delinquere, in un rapporto finalistico fra i fatti o nella convergenza degli stessi verso un unico risultato finale.
Orbene, guardando in questa prospettiva al testo dell’art. 84, si nota che i caratteri del reato complesso sono costruiti come funzionali ad un effetto giuridico immediatamente ed espressamente indicato (“le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano…”), ossia l’inoperatività dei meccanismi di cumulo sanzionatorio previsti in detti articoli e la conseguente applicazione della sola pena edittale prevista per il reato complesso, escludendo qualsiasi incidenza sanzionatoria dei reati in esso unificati. Fra le disposizioni oggetto di richiamo dell’incipit dell’art. 84 rientra il concorso formale di reati disciplinato dall’art. 81 c.p., comma 1, per la quale è previsto un trattamento sanzionatorio che, pur nella forma mitigata del cumulo giuridico, è determinato dalla pluralità delle pene corrispondenti ai singoli reati concorrenti. La normativa dell’art. 84 si connota particolarmente come derogatoria rispetto a quella dell’art. 81 e il reato complesso ne emerge quale fattispecie di esenzione dal regime sanzionatorio del concorso formale, in quanto “assorbe” la pene stabilite per i singoli reati in quella stabilita per il reato complesso.
Questo rapporto fra le due disposizioni suggerisce la riferibilità delle stesse ad un fondamento sostanziale comune che dà ragione della previsione specifica di una particolare disciplina sanzionatoria nell’ipotesi del reato complesso; tale fondamento è identificabile nell’unitarietà dell’azione complessiva che comprende i fatti criminosi, da intendersi come implicitamente sottesa anche alla figura del reato complesso, secondo quanto sottolineato dalla dottrina sopra citata.
Si pone nella stessa linea argomentativa la considerazione della ratio della previsione dell’art. 84, volta ad evitare una duplicazione della risposta sanzionatoria per gli stessi fatti in violazione del principio del ne bis in idem sostanziale (oggetto di recente e reiterata affermazione nella giurisprudenza costituzionale, v. Corte Cost., sent. n. 20 del 2016 sull’identità del fatto ai fini del divieto di procedere per precedente giudicato ai sensi dell’art. 649 c.p.p., ma con evidenti ricadute sul piano sostanziale; Corte Cost., sent. n. 43 del 2018 e sent. n. 236 del 2016 in tema di proporzionalità della previsione punitiva). E’ evidente che tale necessità si manifesta segnatamente nel rapporto fra il reato complesso e gli altri reati che lo compongono, contraddistinti da un contesto unitario, nell’ambito del quale maggiormente risalta la possibilità di una sproporzione nel cumulo di pene previste per fatti inseriti nella stessa azione criminosa.
- Vi sono dunque convincenti ragioni sistematiche per le quali deve ritenersi che il reato complesso sia caratterizzato, oltre che dagli elementi strutturali esplicitamente indicati dalla norma, anche da un ulteriore elemento sostanziale, costituito dall’unitarietà del fatto che complessivamente integra il reato riconducibile a questa fattispecie.
L’esistenza di questo presupposto è stata peraltro colta dalla giurisprudenza di legittimità nelle situazioni in cui la casistica concreta ha posto in rilievo la relativa problematica; e in tali occasioni il concetto di unitarietà del fatto è stato arricchito di ulteriori connotazioni descrittive.
Una di esse è stata ravvisata nella contestualità spaziale e temporale fra i singoli fatti criminosi che compongono la fattispecie del reato complesso.
In aggiunta a questo, però, si è posto in luce un altro aspetto allorchè è stata esaminata l’ipotesi della rapina commessa in un luogo destinato a privata dimora, che, in quanto prevista quale forma aggravata del reato di rapina dall’art. 628 c.p., comma 3, n. 3-bis, costituisce in linea generale e in termini strutturali un reato complesso circostanziato che assorbe il delitto di violazione di domicilio (in tal senso Sez. 2, n. 40382 del 17/07/2014, Farfaglia, Rv. 260322). Qui non vi è dubbio che la stessa formulazione della fattispecie astratta, radicando la forma circostanziale in un dato ambientale relativo al particolare luogo di commissione del fatto, implichi inevitabilmente la descritta contestualità dei fatti di rapina e di violazione di domicilio. Quando tuttavia è stato presentato all’attenzione della giurisprudenza il caso particolare della violazione di domicilio commessa al fine di danneggiare l’abitazione della vittima, e nel corso della quale il soggetto agente abbia approfittato della disponibilità di detta abitazione per impossessarsi di beni della persona offesa, si è sottolineato come in una situazione del genere i fatti di violazione di domicilio e rapina assumano il carattere della contestualità per un limitato segmento temporale, inserendosi solo occasionalmente il secondo nell’azione relativa al primo e per il resto divergendone le finalità. E’ stata di conseguenza esclusa la configurabilità nel caso in esame del reato complesso, ritenendosi il concorso fra i reati di rapina aggravata e violazione di domicilio (Sez. 2, n. 1925 del 18/12/2015, dep. 2016, Singh, Rv. 265990). Questa linea interpretativa ha trovato successiva conferma nell’affermazione di carattere generale per la quale l’assorbimento della violazione di domicilio nel reato complesso di rapina aggravata si verifica allorchè la predetta violazione sia posta in essere al fine esclusivo della sottrazione di beni della persona offesa (Sez. 2, n. 17147 del 28/03/2018, Andolina, Rv. 272808).
L’insufficienza della mera contestualità dei fatti criminosi, previsti quali costitutivi di un reato complesso, ad integrare detta fattispecie con i relativi effetti di assorbimento nella stessa dei reati componenti, è stata peraltro ribadita con riguardo ad un’ipotesi nella quale il legame finalistico fra i fatti è letteralmente enunciato nella formulazione della norma incriminatrice del reato complesso: è il caso della violenza sessuale commessa mediante minaccia. L’assorbimento dell’autonomo reato di minaccia di cui all’art. 612 c.p. in quello di violenza sessuale è stato, infatti, rigorosamente limitato ai casi in cui la condotta minacciosa sia strumentale alla costrizione della vittima a subire la violenza sessuale; è stato, viceversa, escluso, con il conseguente concorso fra i due reati, nei casi in cui le espressioni minacciose siano rivolte alla persona offesa anche per una finalità diversa, come quella di indurre la stessa a ristabilire una relazione sentimentale con il soggetto agente (Sez. 3, n. 23898 del 12/03/2014, R., Rv. 259433).
Alla luce di queste indicazioni, oltre ad essere confermata sul piano applicativo la necessità, per la configurabilità del reato complesso, del presupposto sostanziale dell’unitarietà del fatto – in aggiunta alle condizioni strutturali previste dall’art. 84 c.p. – detto presupposto si presenta come articolato non solo nella contestualità dei singoli fatti criminosi sussunti della fattispecie assorbente, ma anche nella loro collocazione in una comune prospettiva finalistica. Ed in tal senso l’esperienza giurisprudenziale si salda con i menzionati riferimenti dottrinali che individuano il fondamento del reato complesso nella convergenza dei fatti che lo compongono in direzione di un unico risultato finale.
- Occorre ora verificare se i requisiti necessari per la ravvisabilità di un reato complesso, fin qui descritti, siano o meno sussistenti nella fattispecie aggravata del reato di omicidio di cui all’art. 576c.p., comma 1, n. 5.1, rispetto al reato di atti persecutori.
L’orientamento che propende per la conclusione negativa sul punto incentra le sue argomentazioni sulla mancanza nel caso di un elemento strutturale del reato complesso, ossia la puntuale descrizione della fattispecie tipica del reato assorbito all’interno di quella del reato assorbente. Difetterebbe in particolare, trattandosi, in tesi, nel caso in esame di un reato complesso circostanziato, la riproduzione testuale del fatto aggravante in termini corrispondenti a quelli del fatto tipico del reato di atti persecutori. L’oggetto dell’aggravante si ridurrebbe viceversa ad un aspetto eminentemente soggettivo, inerente alla qualificazione del soggetto agente come autore di una condotta persecutoria, e quindi ad un profilo negativo della sua personalità con riguardo alla maggiore capacità criminale dimostrata.
La lettura della norma nella sua interezza fornisce, però, indicazioni di segno contrario.
Va in primo luogo attribuito il giusto rilievo al dato per il quale la fattispecie del reato di atti persecutori è richiamata nella previsione circostanziale mediante la citazione della relativa norma incriminatrice.
Questo elemento deve essere valutato in collegamento con la descrizione normativa del fatto aggravante quale commissione dell’omicidio ad opera “dell’autore del delitto previsto dall’art. 612-bis nei confronti della stessa persona offesa”. Questa formulazione non comprende unicamente il riferimento all’identità del soggetto agente dei reati di omicidio volontario e di atti persecutori, sul quale l’orientamento contrario alla configurabilità del reato complesso sofferma la sua attenzione per limitare la portata della circostanza aggravante alla mera posizione soggettiva dell’autore del fatto omicidiario. L’espressione della norma, come viceversa sottolineato dall’opposto indirizzo giurisprudenziale, attribuisce analogo risalto all’essere i due reati diretti contro la medesima persona, e quindi all’identità della vittima dei reati.
La fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p. è, dunque, menzionata nella previsione della circostanza aggravante attraverso l’indicazione non solo del titolo di reato, ma anche dell’autore e della vittima della relativa condotta, ossia dei soggetti fra quali l’azione persecutoria si svolge. In questi termini, la predetta fattispecie è di conseguenza inequivocabilmente riportata all’interno della fattispecie aggravatrice nella sua integrale tipicità.
L’omicidio volontario è pertanto aggravato, nell’ipotesi in esame, non per le caratteristiche personali del soggetto agente, ossia l’essere un persecutore, ma per ciò che egli ha fatto, vale a dire per il fatto persecutorio commesso. Fatto che in quanto tale, e non solo per il suo significato in termini di capacità criminale del soggetto agente, è costitutivo della fattispecie astratta di un reato a questo punto complesso nella forma circostanziata.
Sostiene ulteriormente questa interpretazione il contenuto dei lavori preparatori al D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, introduttivo della circostanza aggravante in esame. L’intenzione del legislatore era nell’occasione chiaramente espressa dall’intento di affrontare con adeguato rigore sanzionatorio un fenomeno criminale notoriamente ricorrente ed ingravescente nella realtà attuale, ossia il verificarsi di fatti omicidiari in danno di vittime di atti persecutori da parte degli stessi autori di tali atti. Orbene, in questa prospettiva la ratio della previsione si individua nella risposta ad un fatto complessivo visto come meritevole di aggravamento per la sua oggettiva valenza criminale, ossia lo sviluppo omicidiario di una condotta persecutoria, con l’effetto di sanzionare tale aggravamento con la massima pena dell’ergastolo; nel quale, pertanto, tale condotta è intranea nella sua fattualità alla struttura della disposizione circostanziale.
La fattispecie in esame presenta, in conclusione, le caratteristiche strutturali del reato complesso circostanziato, che include il reato di atti persecutori in una specifica forma aggravata del reato di omicidio.
Le considerazioni da ultimo svolte rendono inoltre coerente una lettura della norma che sottende l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti di omicidio volontario ed atti persecutori. Non vi è dubbio infatti che, se l’intento legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta persecutoria, è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale gli atti persecutori e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono altresì in una prospettiva finalistica unitaria.
- La tesi della ravvisabilità di un reato complesso nella fattispecie aggravata in esame, convalidata dalle argomentazioni che precedono, non è inficiata dalle obiezioni che alla stessa sono state opposte. Tanto in considerazione, soprattutto, delle caratteristiche del reato complesso come delineate in generale e, per quanto detto, presenti nel caso di specie, con particolare riguardo alla necessaria ricorrenza di un’unitarietà non solo contestuale, ma anche finalistica dei fatti complessivamente considerati; aspetto, quest’ultimo, che rende irrilevante la maggior parte di dette obiezioni.
8.1. Deve innanzitutto escludersi che l’accoglimento della opzione interpretativa del reato complesso possa condurre all’irragionevole risultato di escludere la punibilità della condotta persecutoria nel caso in cui la stessa sia seguita, a distanza consistente di tempo, dall’omicidio della vittima ad opera dello stesso persecutore. E’ del tutto evidente, infatti, che in una situazione di questo genere non si realizzerebbe il requisito minimo dell’unitarietà del fatto rappresentato dalla contestualità dei due reati; con la conseguente impossibilità di configurare il reato complesso e, quindi, l’assorbimento del reato di atti persecutori in quello di omicidio.
8.2. Non è rilevante l’osservazione critica, proposta nella contraria decisione della Prima Sezione, relativa al raffronto con la disposizione aggravatrice dettata dall’art. 576 c.p., stesso comma 1, n. 5 per i casi in cui l’omicidio sia commesso “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli artt. 572, 583-quinquies, 600-bis, 600-ter, 609-bis, 609-quater e 609-octies”; con particolare riguardo alla mancata riproposizione, nella descrizione normativa dell’aggravante di cui al n. 5.1 successivamente introdotta, del riferimento al legame “occasionale” dell’omicidio con il diverso reato che dà luogo all’ipotesi aggravata.
Va premesso, per l’esatta comprensione dell’argomento, che la costante giurisprudenza di legittimità riconosce, nella citata disposizione del n. 5, una fattispecie di reato complesso, in forza specificamente della contestualità del reato di omicidio con taluno degli altri indicati nella norma (Sez. 1, n. 29167 del 26/05/2017, Nwajiobi, Rv. 2702181; Sez. 1, n. 6775 del 28/01/2015, Erra, Rv. 230149). Ebbene, proprio la mancanza di un esplicito riferimento a tale contestualità nella previsione di cui al n. 5.1 è stata considerata, nella prospettazione critica esaminata, quale indicativa dell’intento legislativo di escludere la configurabilità del reato complesso nel caso di concorso dell’omicidio con il reato di atti persecutori.
Se tuttavia si tiene conto della presenza, fra le caratteristiche generali del reato complesso, dell’unitarietà del fatto in termini finalistici oltre che contestuali, il riferimento letterale contenuto nell’art. 576, n. 5 alla sola contestualità acquisisce un significato non solo diverso, ma addirittura opposto a quello attribuitogli nell’argomentazione in discussione. E’ in tal senso significativo quanto osservato dalla giurisprudenza di legittimità formatasi sulla norma in esame, allorchè ha da tempo sottolineato che il concorso dell’omicidio con uno degli altri reati ivi indicati è escluso “senza che neppure sia richiesta alcuna connessione di tipo finalistico fra i due delitti” (Sez. 1, n. 12680 del 29/01/2008, Giorni, Rv. 239365; Sez. 1, n. 4690 del 10/02/1992, De Pasquale, Rv. 189872). Perchè nel delitto di omicidio sia assorbito il diverso reato in occasione del quale il primo è commesso, è in altre parole sufficiente la mera contestualità dei reati, mentre non è necessaria la sussistenza di un rapporto di connessione tra i fatti. Non occorre in particolare l’inserimento dei fatti nella stessa ottica finalistica, che costituisce il presupposto sostanziale per la configurabilità del reato complesso. Ne segue che, nei casi in cui l’omicidio venga commesso contestualmente a reati di maltrattamenti, lesioni deformanti, prostituzione e pornografia minorile e violenza sessuale, la legge prevede sostanzialmente una “soglia” di configurabilità del reato complesso diversa e di livello inferiore rispetto a quella generalmente richiesta per tale figura, in quanto limitata per l’appunto a tale contestualità spazio-temporale tra i fatti. E’ del resto coerente con questa scelta legislativa la mancata previsione per l’aggravante di cui al n. 5, a differenza di quella di cui alla questione rimessa, dell’identità della persona offesa dell’omicidio e degli altri reati.
Il fatto che nella disposizione di cui al n. 5.1 non sia espressamente prevista la contestualità dei fatti di omicidio e atti persecutori, lungi dall’escludere per tale fattispecie la ravvisabilità del reato complesso riconosciuta per l’ipotesi di cui al n. 5, assume a questo punto un valore contrario. Dove per i casi di cui al n. 5 tale esplicita previsione limita alla mera contestualità dei fatti il presupposto dell’assorbimento nel delitto di omicidio degli altri reati ivi indicati, l’assenza del riferimento in esame nella formulazione dettata all’art. 576, n. 5.1 ha l’effetto di ristabilire, per il caso in cui l’omicidio venga commesso dall’autore del reato di persecutori in danno della stessa vittima, il presupposto sostanziale del reato complesso nella sua interezza. In tale ipotesi, di conseguenza, la contestualità dei fatti criminosi non è sufficiente per l’assorbimento del reato di astti persecutori in quello di omicidio, se ad essa non si aggiunge in concreto l’unicità della prospettiva finalistica nella quale i fatti sono realizzati.
8.3. Il riferimento contenuto nella sentenza n. 20786 del 12/04/2019 alla giurisprudenza di legittimità sul concorso fra i reati di atti persecutori e lesioni personali non appare dirimente.
Occorre rammentare a questo proposito che l’art. 585 c.p., comma 1, prevede per i reati di lesioni – anche nelle forme autonome delle mutilazioni genitali femminili e delle lesioni deformanti di cui, rispettivamente, agli artt. 583-bis e 583-quinquies – oltre che per il reato di omicidio preterintenzionale, un aumento della pena da un terzo alla metà ove ricorra alcuna delle aggravanti indicate nell’art. 576; in tal modo richiama per i predetti reati, fra le altre, l’aggravante della commissione del fatto ad opera dell’autore di atti persecutori in danno della stessa vittima.
Come correttamente rammentato nella sentenza sopra citata, si è ritenuto procedibile il reato di atti persecutori, in quanto connesso con quello di lesioni, anche nel caso in cui la procedibilità d’ufficio per quest’ultimo delitto sia determinata dalla contestazione dell’aggravante in discussione (Sez. 5, n. 11409 del 08/10/2015, dep. 2016, C., Rv. 266341). Tale decisione si colloca, però, all’interno di una linea interpretativa che ammette il concorso fra i reati di atti persecutori e lesioni sulla base dell’insussistenza, fra le relative norme incriminatrici, di un rapporto di specialità, tenuto conto sia della struttura delle fattispecie che dell’oggettività giuridica delle stesse (Sez. 5, n. 10051 del 19/01/2017, B., Rv. 269456; Sez. 5, n. 54923 del 08/06/2016, V., Rv. 268408), e della conseguente inoperatività dell’istituto del concorso apparente di cui all’art. 15 c.p. La tematica non è stata viceversa affrontata in quella sede sotto il diverso profilo, che qui invece rileva, dell’applicabilità della disciplina del reato complesso di cui all’art. 84; l’indirizzo citato non incide di conseguenza sulla questione qui discussa.
8.4. Il rapporto fra i reati di atti persecutori e lesioni è oggetto delle note d’udienza depositate, in cui vengono illustrate le conseguenze asseritamente paradossali derivanti dall’accoglimento della tesi del reato complesso nell’ipotesi in cui gli atti persecutori concorrano con fatti di lesioni in danno della stessa vittima. Si osserva, in particolare, che l’applicazione dell’art. 84 c.p. anche in questa ipotesi porterebbe all’assorbimento del reato di atti persecutori nel reato di lesioni, che, pur tenuto conto dell’aumento di pena previsto dall’art. 585 c.p. per la richiamata aggravante (che si è visto poc’anzi essere della misura variante da un terzo alla metà della pena prevista per il reato di lesioni) sarebbe meno grave, nel massimo edittale, del delitto di cui all’art. 612-bis c.p..
Sul punto va osservato in primo luogo che effetti eventualmente distorsivi, anche nelle conseguenze sanzionatorie, sarebbero nella specie imputabili alla scelta legislativa di mantenere inalterato, nel citato art. 585, il richiamo alle circostanze aggravanti previste dall’art. 576, pur in presenza della progressiva inclusione in dette fattispecie circostanziali di ipotesi di concorso di reati di gravità superiore a quello di lesioni. Effetti analoghi, del resto, sono potenzialmente verificabili anche nel caso della contestualità del reato di lesioni con quelli indicati nell’art. 576, comma 1, n. 5 esso pure richiamato dall’art. 585, situazione in cui è indiscussa in giurisprudenza la ravvisabilità di un reato complesso. Tali conseguenze indirette, in altre parole, non sono in grado di superare gli argomenti che, per quanto detto, convergono nell’individuare la configurazione di un reato complesso anche nella fattispecie aggravata di cui all’art. 576, n. 5.1.
A prescindere da questa, già di per sè dirimente, osservazione, deve peraltro aggiungersi che gli effetti di cui sopra sono comunque notevolmente depotenziati, nella loro concreta ricorrenza, dalla portata che il requisito dell’unitarietà del fatto assume nel reato complesso; condizione che, lo si ribadisce, si dispiega interamente nella circostanza aggravante di cui al n. 5.1, in quanto non è limitata alla mera contestualità dei fatti richiesta dalla disposizione di cui al n. 5, ma comprende anche l’inserimento dei fatti in una comune prospettiva finalistica. Tale prospettiva, con riguardo al contesto persecutorio posto in essere con la condotta e gli eventi descritti nell’art. 612-bis c.p., inerisce al condizionamento e, in ottica finale, all’annientamento della personalità della vittima, progressivamente limitata e impedita, nell’esercizio della sua libertà di determinazione, dalle molestie e dalle minacce che ne inibiscono lo svolgimento dalla normale vita sociale.
In questa visione prospettica della condotta criminosa, l’omicidio del soggetto perseguitato si presenta nell’esperienza giudiziaria come il risultato estremo, ma purtroppo non infrequente, dell’intento di annullamento della personalità della vittima; e quindi si integra compiutamente nella complessiva direzione finalistica del fatto, come peraltro sottolineato nei rammentati lavori preparatori.
Nella stessa esperienza, viceversa, i fatti di lesioni si presentano solitamente come collaterali all’azione del soggetto agente, che ha la sua mira essenziale nel controllo e nell’appropriazione della vita quotidiana della persona offesa. Nella normalità dei casi, pertanto, tali fatti non potranno essere considerati come inclusi nella prospettiva finalistica del contesto persecutorio. Difetteranno di conseguenza, in questi casi, le condizioni per l’assorbimento della condotta persecutoria in quelle di lesioni, che manterranno la loro autonoma e specifica offensività.
8.5. Non sono, infine, fondati gli ulteriori rilievi formulati dal Procuratore generale.
In primo luogo, l’asserita difficoltà di concepire l’assorbimento di un delitto abituale come quello di atti persecutori in un delitto istantaneo come l’omicidio non sussiste, nel momento in cui la legge, come nel caso in esame, assume la condotta abituale quale fatto aggravante del reato istantaneo, facendone coincidere l’ultimo atto con detto reato. Anche per questo aspetto, del resto, una situazione analoga si propone per l’aggravante prevista dall’art. 576, n. 5 nell’ipotesi dell’omicidio commesso in occasione del reato, anch’esso abituale, di maltrattamenti, ipotesi della quale, come si è detto più volte, è indiscussa la natura di reato complesso.
Non è neppure sostenibile che la configurazione del reato complesso provochi un’irragionevole eliminazione o riduzione degli effetti sanzionatori di un reato grave come quello di atti persecutori. E’ appena il caso di rammentare, a questo proposito, che l’affermazione di responsabilità per il delitto di omicidio aggravato comporta edittalmente la massima pena dell’ergastolo, ampiamente adeguata rispetto ad un fatto complessivo che comprende sia l’offensività propria dell’omicidio che quella conseguente alla condotta persecutoria. Non è rilevante in contrario la possibilità che, trattandosi di un reato complesso circostanziato, l’aggravamento di pena, nella forma della sostituzione della pena detentiva temporanea con quella perpetua, sia eliso da circostanze attenuanti ove ritenute equivalenti o prevalenti. In quanto eventuale risultato del giudizio di bilanciamento fra circostanze, al quale il legislatore ha mantenuto piena operatività anche nella fattispecie in esame, tale possibile esito non costituisce infatti un elemento ostativo al riconoscimento di una configurazione giuridica sostenuta da ragioni sia letterali che sistematiche.
- Deve in conclusione essere affermato il seguente principio di diritto: “La fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi dell’art. 575c.p. e art. 576c.p., comma 1, n. 5.1 – punito con la pena edittale dell’ergastolo – integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84 c.p., comma 1, in ragione della unitarietà del fatto”.
- L’applicazione del principio di cui sopra nel caso di specie comporta la fondatezza del motivo dedotto dall’imputata sul ritenuto concorso del reato di atti persecutori con il reato di omicidio. Il fatto omicidiario contestato, ultimo degli atti persecutori oggetto della relativa imputazione e, come meglio si vedrà, in linea continuativa con i precedenti, è indiscutibilmente contestuale alla conclusione della condotta persecutoria e inserito nella stessa prospettiva finalistica di annichilimento della personalità della vittima.
Le conseguenze sanzionatorie dell’accoglimento del motivo saranno esposte in seguito (cfr. paragrafo 15).
- I motivi proposti dall’imputata ricorrente sul vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del fatto di atti persecutori sono infondati.
La decisione rescindente aveva chiamato sul punto il giudice del rinvio ad approfondire la valutazione dell’attendibilità dei contributi testimoniali, non limitandosi a prendere atto dell’esistenza di deposizioni confermative dell’assunto accusatorio e di altre rappresentative di una situazione di reciprocità di atteggiamenti offensivi fra la M. e la C., ma verificando la credibilità intrinseca ed estrinseca di queste ricostruzioni dei fatti.
La sentenza impugnata è stata puntualmente motivata in questa prospettiva. La Corte territoriale ha esaminato il complesso delle dichiarazioni testimoniali tenendo conto che le stesse riportavano informazioni rispettivamente apprese dalla persona offesa e dall’imputata, ma verificandone l’attendibilità in base ad elementi diversi dalla natura indiretta di tali dichiarazioni. I giudici hanno osservato, in primo luogo, che le dichiarazioni del marito della C., per le quali i coniugi avevano concordato di non parlare nelle sedi ufficiali delle vessazioni subite dalla donna, davano ragione della comprensibile ritrosia della C. a raccontare a chiunque nell’ambito lavorativo le vessazioni subite. Tenuto conto di questo, hanno ritenuto significativo che di tali vessazioni la predetta avesse parlato con le colleghe con le quali aveva maggiore confidenza, ossia T.M.A. e C.P.. La sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha valorizzato la testimonianza della T., destinataria delle confidenze della C. circa le ripetute aggressioni fisiche subite ad opera della M. nel parcheggio e nel vano scale dello stesso. Ha dato altresì rilievo alla deposizione della C., in ordine a quanto confidatole dalla C. su frasi offensive e provocatorie rivoltele dall’imputata e sul timore della prima che la M. le sottraesse qualcosa dalla cassa per crearle dei problemi con la contabilità, condizione che la induceva a non allontanarsi mai dalla propria postazione di lavoro. Ha, infine, sottolineato che la C. subiva le lesioni fatali in quel medesimo vano scale dove, secondo le confidenze riportate dalla T., sarebbe stata in precedenza più volte aggredita dalla M., circostanza idonea ad offrire alla ricostruzione accusatoria una conferma, costituita dalla corrispondenza delle modalità del fatto omicidiario con taluni degli atti persecutori.
Ulteriori elementi in tal senso sono stati peraltro individuati dai giudici di merito nel rinvenimento dell’opuscolo divulgativo dei servizi postali, sul quale erano tracciate annotazioni offensive nei confronti della C., redatte con una grafia attribuita all’imputata dalla consulenza tecnica, e nei fotogrammi delle riprese dell’impianto di videosorveglianza dell’ufficio postale, da cui risultava che la C. usciva dall’ufficio dopo la M. assicurandosi che la stessa non si trovasse sul suo tragitto.
La censura della ricorrente, secondo la quale le dichiarazioni a carico dell’imputata sarebbero state illogicamente privilegiate, nonostante avessero natura indiretta analoga a quella delle dichiarazioni favorevoli alla difesa, non si confronta con le riportate considerazioni della sentenza impugnata sulle particolari caratteristiche di attendibilità riconosciute alle informazioni riferite dalla T. e dalla C.. Sui riscontri indicati nei contenuti dell’opuscolo e nelle videoriprese il ricorso propone difformi valutazioni di merito, non consentite nel giudizio di legittimità, in presenza di un’argomentazione completa e ben sviluppata, e comunque generiche rispetto al giudizio di valenza di detti elementi quali dati convergenti con quelli dichiarativi nella complessiva convalida dell’ipotesi accusatoria.
Quanto, infine, all’evento del reato costituito dall’alterazione delle abitudini di vita della persona offesa, la doglianza di omessa valutazione delle dichiarazioni del teste N., in ordine all’iniziativa del marito della C. con riguardo al pensionamento anticipato della stessa, è per più profili generica. Essa, in primo luogo, si appunta solo su un aspetto di tale evento, ossia il congedo dal lavoro della persona offesa, trascurando gli altri, individuati dalla sentenza impugnata negli accorgimenti che la vittima era costretta ad adottare sul luogo di lavoro per evitare gli incontri con l’imputata. Non tiene conto, in secondo luogo, degli ulteriori eventi contestati, ossia le condizioni di ansia e timore indotte nella persona offesa. Non considera, infine, le risposte che ai rilievi difensivi sono state date dai giudici di merito nel richiamo alle menzionate dichiarazioni del marito della C., in ordine all’accordo con la moglie di tacere le vessazioni della M. negli incontri ufficiali, ed alla conseguente pretestuosità dell’assunzione, da parte del marito stesso, della paternità dell’iniziativa sul pensionamento anticipato della moglie.
- Il motivo dedotto dall’imputata ricorrente sulla configurabilità del reato di cui all’art. 612-bisc.p. è infondato. In particolare, è priva di pregio la tesi per la quale la collocazione del fatto contestato nell’ambito lavorativo consentirebbe di ravvisare nello stesso unicamente la fattispecie civilistica del mobbing. Non vi è dubbio che tale fattispecie, come ricostruita anche dalla giurisprudenza lavoristica, presenti quale componente qualificante, oltre ad un elemento oggettivo costituito dalla sistematica e prolungata reiterazione di atti espressivi di ostilità verso il dipendente, un elemento soggettivo individuato nell’intento persecutorio che unifica tali atti nella esclusiva finalità di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore (Sez. L, n. 12437 del 21/05/2018, Rv. 648956; Sez. L, n. 26684 del 10/11/2017, Rv. 646150). E’ altrettanto certo che detto comportamento rileva anche ove posto in essere, oltre che dal datore di lavoro o da un suo preposto, da un altro dipendente (Sez. L, n. 17698 del 06/08/2014, Rv. 631986), dando luogo all’ipotesi del cosiddetto “mobbing orizzontale”.
Tuttavia, a parte il fatto che anche in questa ipotesi la rilevanza del comportamento, in termini di responsabilità per la violazione dell’art. 2087 c.c., è attribuita a titolo omissivo al datore di lavoro che abbia avuto conoscenza dell’attività persecutoria svolta da propri dipendenti nell’ordinario contesto lavorativo (Sez. L, n. 1109 del 20/01/2020, Rv. 656597), la giurisprudenza penale di legittimità ha evidenziato che l’eventuale illiceità civilistica della condotta persecutoria, in quanto inquadrata nell’ipotesi del mobbing, non esclude comunque che detta condotta integri le condizioni per l’autonoma configurabilità del reato di atti persecutori, ove la stessa determini taluno degli eventi previsti dalla relativa norma incriminatrice (Sez. 5, n. 31273 del 14/09/2020, F., Rv. 279752), eventi in ordine ai quali la sentenza impugnata ha fornito motivazione compiuta, esente da vizi logici e giuridici.
- I motivi dedotti dall’imputata ricorrente sulla sussistenza del reato di omicidio volontario sono infondati.
Sono in primo luogo inammissibili, in quanto precluse in questo giudizio di legittimità, le censure relative all’attribuibilità della caduta della C. all’esito accidentale di una lite dalla stessa ingaggiata con la M. piuttosto che ad una spinta di quest’ultima. Il precedente ricorso per cassazione proposto dall’imputata, che si esauriva nella deduzione della mancata valutazione della versione alternativa della difesa sulla causa della caduta e del conseguente evento letale, è stato infatti dichiarato inammissibile sia nella motivazione che nel dispositivo della sentenza rescindente. Il riferimento alla necessità per il giudice di rinvio di “riesaminare il fatto nel suo complesso, valutando tutte le risultanze probatorie disponibili e confrontandosi con le considerazioni svolte nella sentenza di primo grado” si colloca alla conclusione delle considerazioni sul rilevato vizio motivazionale concernente la qualificazione del fatto come omicidio preterintenzionale anzichè volontario, indicata nel dispositivo come esclusivo oggetto dell’annullamento della precedente sentenza di secondo grado. La rivalutazione probatoria, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, era dunque limitata, nel giudizio di rinvio, alla ricostruzione dell’elemento psicologico con riguardo all’evento cagionato dall’accertata spinta inferta dalla M. alla C. sulle scale del parcheggio.
Le componenti del fatto rilevanti a questi fini sono state ricostruite nella sentenza impugnata in base ad una serie di elementi, di seguito esposti. I testi D.L. e D. vedevano una donna bionda come la M. entrare nel vano scale dal parcheggio nel momento in cui le videoriprese dell’impianto di sorveglianza mostravano la C. percorrere quelle scale e scendere verso il parcheggio. Gli stessi testimoni, in un momento immediatamente successivo, udivano l’urlo di una donna e un tonfo. Sul corpo della C., rinvenuto ai piedi della scala sul cui primo gradino erano rilevate tracce di sangue corrispondente a quello della vittima, venivano riscontrate, oltre alla lesione cranica rivelatasi mortale, altre fratture zigomatiche e nasali, ematomi ai polsi e, infine, veniva trovata una ciocca dei capelli dell’imputata stretta in una mano della vittima.
I giudici di merito, all’esito della valutazione complessiva di questi dati, osservavano in primo luogo che le fratture facciali della C. non potevano essere attribuite agli effetti di un rotolamento sulle scale a seguito della caduta, le quali avrebbero cagionato altre lesioni al resto del corpo. Argomentavano altresì, dallo scarso intervallo temporale colto dai testi fra l’accesso della M. alle scale e la caduta della C., segnalata dall’urlo e dal tonfo udito dagli stessi, che l’aggressione subita dalla vittima aveva fatto immediato seguito a quell’accesso. Rilevavano da ciò che l’imputata, introdottasi nel parcheggio da una diversa entrata, si era diretta verso le scale alla vista della persona offesa. Le lesioni facciali subite da quest’ultima erano di conseguenza ricondotte agli effetti di un pugno con il quale la M. aveva colpito il volto della C.. Evidenziavano, inoltre, che gli ematomi ai polsi e la ciocca strappata convergevano nel delineare una dinamica nella quale la M., che saliva le scale, aveva strattonato la vittima per porla verso il basso e spingerla in quella direzione, mentre la C. afferrava disperatamente e vanamente i suoi capelli. Hanno concluso pertanto che tale azione, volontariamente esercitata nei confronti della persona offesa dopo aver colpito la stessa al capo con forza tale da provocarle le descritte fratture facciali, non poteva che implicare l’accettazione dell’evento letale e la sussistenza di un dolo omicidiario quanto meno di natura eventuale.
Per tutte queste ragioni la motivazione della sentenza impugnata è immune dai vizi denunciati.
La ricorrente deduce carenza probatoria sulla conclusione della Corte territoriale che ha collegato la decisione dell’imputata di risalire le scale alla circostanza dell’avervi visto la C.. Tale censura si riduce tuttavia al riferimento alla tesi difensiva che motivava tale comportamento con la necessità di parlare con un collega. Si tratta pertanto di una doglianza in fatto non proponibile in questa sede e, comunque, generica ove non accompagnata dalla confutazione delle argomentazioni della sentenza impugnata sulla valenza dalla stessa attribuita alla tempistica degli eventi descritti dai testimoni.
La mancanza di un’esatta individuazione del gradino della scala, dal quale sarebbe iniziata la caduta della vittima, è irrilevante rispetto ad un assetto argomentativo nel quale i giudici di merito, conferendo adeguata significatività al devastante colpo al volto subito dalla C. prima della caduta, hanno evidenziato la prevedibile letalità di una spinta inferta ad una vittima le cui condizioni fisiche erano già pregiudicate dalle lesioni facciali subite.
E’ poi oggetto di difformi valutazioni di merito, estranee al giudizio di legittimità, il tema della riconducibilità ad una mera precostituzione difensiva dell’atteggiamento compassionevole dell’imputata verso la vittima notato dai testi D. e D.L., a fronte della motivazione della sentenza impugnata che, senza incorrere in vizi logici, valorizzava in tal senso le deposizioni dei testi C., F. e P., che, giunti sul luogo del fatto prima dei predetti D. e D.L., non notavano tale comportamento ed anzi riferivano che la M. attribuiva la caduta della C. ad una causa accidentale. Non senza considerare, sotto altro profilo, che la circostanza dedotta dalla difesa sarebbe comunque priva di decisività, non essendo l’atteggiamento di cui sopra, successivo al fatto, incompatibile con la precedente e volontaria causazione dell’evento.
Altrettanto privo di decisività è all’evidenza il riferimento della ricorrente ad una relazione psichiatrica che evidenzierebbe problematiche psicologiche dell’imputata durante la custodia cautelare. Di conseguenza è manifestamente infondata la censura di mancanza di motivazione sul punto.
Complessivamente, infine, le doglianze proposte con il ricorso si dirigono su singoli elementi del quadro probatorio, trascurandone la convergenza che sorregge la struttura motivazionale della sentenza impugnata.
- Sono infine inammissibili i motivi dedotti dal Procuratore generale e dall’imputata sul giudizio di equivalenza delle attenuanti generiche rispetto all’aggravante.
Le deduzioni del Procuratore generale sull’omesso esame del motivo di appello relativo alla richiesta subvalenza delle attenuanti e, comunque, sulla contraddittorietà della ritenuta equivalenza in relazione ad aspetti sfavorevoli all’imputata indicati nella stessa sentenza impugnata sono generiche a fronte dell’implicito rigetto della richiesta di subvalenza a fronte della valorizzazione di altri elementi favorevoli che avevano giustificato l’ormai definitivo riconoscimento delle attenuanti, e del bilanciamento di tali elementi con quelli di segno contrario. E’ quindi da escludere la denunciata contraddittorietà.
Il motivo di ricorso dell’imputata, con il quale si deduce la violazione del giudicato che si sarebbe creato sull’applicazione della diminuente per le attenuanti generiche, disposta con la precedente sentenza di appello, è invece manifestamente infondato, in quanto tale diminuzione era operata in quella sede in conseguenza dell’esclusione di tutte le aggravanti contestate. Tale statuizione era pertanto travolta dall’annullamento dell’assoluzione dall’imputazione di atti persecutori e della conseguente esclusione della relativa aggravante, viceversa ripristinata con la sentenza impugnata, per effetto della riaffermata sussistenza del reato di cui sopra, e correttamente sottoposta al giudizio di comparazione con le attenuanti generiche.
- Per effetto dell’accoglimento del motivo di ricorso sull’assorbimento del reato di atti persecutori in quello di omicidio aggravato, in applicazione dell’affermato principio di diritto sulla natura di reato complesso propria di quest’ultimo delitto, la pena corrispondente al reato assorbito deve essere eliminata, ai sensi dell’art. 620c.p.p., lett. l). Con la sentenza impugnata, ritenuta la continuazione fra i due delitti, la pena-base per l’omicidio aggravato era determinata in ventuno anni e sei mesi di reclusione, aumentata ai sensi dell’art. 81c.p. di un anno e sei mesi e ridotta a quindici anni e quattro mesi per il rito abbreviato. Va pertanto eliminato l’aumento di un anno e sei mesi, e la rimanente pena-base deve essere rideterminata, con la riduzione per l’abbreviato, in quattordici anni e quattro mesi di reclusione.
Al rigetto nel resto del ricorso dell’imputata segue la condanna della stessa alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, che, avuto riguardo alla complessità delle questioni affrontate, si liquidano in complessivi Euro 6.900,00 oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Assorbito il delitto di cui al capo B) (art. 612-bis cod. pen.) in quello di cui al capo A) (art. 575 c.p., art. 576 c.p., n. 5.1), annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio che ridetermina in complessivi anni quattordici e mesi quattro di reclusione.
Rigetta, nel resto, il ricorso dell’imputata che condanna alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili I.G., I.A., I.R. e C.G.A., liquidate in complessivi Euro 6.900,00 oltre accessori di legge.
Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore generale.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2021