Il danno parentale per la morte di un prossimo congiunto, consistente nella privazione di un valore non economico ma personale costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali,
- Tutti coloro che avevano dei contatti attivi ed economici con la persona deceduta oltre a coloro che erano legati da un rapporto congiunto.
Qui dobbiamo fare una piccola precisazione. In caso muore uno zio in un incidente stradale, che non frequentate, con cui non avete alcun rapporto familiare e nemmeno un sostentamento economico oppure morale, allora la compagnia risarcitoria potrebbe usare questa realtà familiare per rifiutarsi di darvi un risarcimento.
Mentre le persone che hanno un legame reale, quindi consanguinei diretti che hanno un legame emotivo o economico, hanno diritto di richiedere ili risarcimento. Perfino i futuri coniugi, come fidanzati, conviventi oppure coppie di fatto, hanno il diritto (noi aggiungiamo anche il dovere) di fare tale procedura.
Inoltre in caso si parla di un supporto economico dato dal deceduto, nonostante non ci fossero legami di sangue o di altri legami affettivi, che possono confermare che ogni mese c’era comunque un rapporto di sostegno economico, possono fare la denuncia e intraprendere la causa.
secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare, si colloca nell’area dell’art. 2059 c.c. e riguarda la lesione di due beni della vita, ovvero il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, ed il bene della solidarietà familiare, riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia.
Nella determinazione del quantum rilevano, pertanto, criteri quali il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, l’età del congiunto (il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite), l’età della vittima, il rapporto di convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite (dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite) e la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi. Il danno derivante dalla perdita, invero, è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.
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La prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità della famiglia o avrebbe comunque apportato utilità economiche (così Cass. n. 18490 del 25/08/2006).
Ai prossimi congiunti di un soggetto deceduto in conseguenza del fatto illecito di un terzo compete, dunque, il risarcimento del danno patrimoniale futuro, nel caso in cui il defunto svolgesse attività lavorativa remunerata ed a condizione che preesistesse una situazione di convivenza ovvero una concreta pratica di vita, in cui rientri l’erogazione di provvidenze all’interno della famiglia allargata, in mancanza della quale, non essendo altrimenti prevedibile con elevato grado di certezza un beneficio durevole nel tempo, non può sussistere perdita che si risolva in un danno patrimoniale (cass. n. 4253 del 16/03/2012).
La liquidazione del danno patrimoniale da perdita delle contribuzioni di persona defunta deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito della vittima, al netto sia di tutte le spese per la produzione dello stesso prudentemente stimabili, sia del prelievo fiscale (in tal senso Cass. n. 10853 del 28/06/2012).
Tale danno deve essere liquidato sulla base di una valutazione equitativa circostanziata, a carattere satisfattivo, che tenga conto della rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale, dall’altro (Cass. n. 3966 del 13/03/2012). Pertanto, versandosi in tema di danno patrimoniale regolato dal principio dell'”id quod interest” (e, cioè, di una valutazione soggettiva del danno delineata dall’emergere di un interesse del creditore – danneggiato dotato di una veste costituzionalmente garantita), del tutto legittimo appare, nella specie, il ricorso a criteri ispirati a prudente apprezzamento equitativo, secondo una equità “circostanziata” che assicuri la reintegrazione anche patrimoniale del danno gravissimo subito.
I prossimi congiunti del soggetto deceduto in conseguenza di un sinistro stradale da altri causato hanno diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per lesione del vincolo parentale, in quanto l’altrui condotta illecita lede i diritti della persona costituzionalmente qualificati fondati sugli artt. 2, 29, 30 della Costituzione. L’esistenza del danno deve ritenersi provata in via presuntiva, sulla base del vincolo familiare degli istanti con la vittima, e la sua entità deve essere valutata secondo criteri di equità. In tale contesto non è invece risarcibile come autonoma voce di danno il pregiudizio esistenziale e morale, quale alterazione della vita di relazione dei congiunti del de cuius; al contrario opinando si determinerebbe una duplicazione di risarcimento poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente e unitariamente ristorato.
Il danno parentale per la morte di un prossimo congiunto consiste nella privazione di un valore non economico ma personale costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo la varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare.
Eloquente, al riguardo, appare una nota sentenza della Cassazione (09/05/2011 n. 10107) la quale afferma testualmente che il danno da perdita del rapporto parentale è rappresentato “dal vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nella irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti fra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nella alterazione che una scomparsa del genere irreversibilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti”.
Il danno parentale si colloca nell’area dell’art. 2059 c.c. e riguarda, in definitiva, la lesione di due beni della vita: 1) il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, che trova il suo supporto costituzionale negli artt. 2, 3, 29, 301, 31, 36; b) il bene della solidarietà familiare riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia.
I criteri che rilevano nella determinazione del quantum possono essere così riassunti:
1) il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, dovendosi presumere che, secondo l’id quod plaerunque accidit, il danno è tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto;
2) l’età del congiunto: il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite; tale danno infatti è destinato a protrarsi per un tempo maggiore, soprattutto quando si tratta di minori di età, la cui perdita di un familiare può pregiudicare il loro sviluppo psicofisico;
3) l’età della vittima: anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita;
4) la convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite.
5) la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi in quanto il danno derivante dalla perdita è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.
Il danno parentale, detto anche edonistico, è rappresentato dall’impossibilità di continuare a godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno, ossia dall’irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti fra il de cuius ed i suoi congiunti, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere irreversibilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti. Esso rappresenta, dunque, la privazione di un valore non economico ma personale costituito dall’irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali. Trattandosi di lesione di valori inerenti alla persona e come tali privi di contenuto economico, ai fini della determinazione del quantum debeatur non può che tenersi conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.