COMUNIONE TRA EREDI COME SCIOGLIERLA AVVOCATO ESPERTO
BOLOGNA VICENZA MILANO VENEZIA TREVISO ANCONA
assazione civile sez. II, 29/02/2016, n.3933
I lotti entrano a far parte del patrimonio di ogni ex comunista con il passaggio in giudicato della sentenza che ha disposto lo scioglimento della comunione
(Cassa senza rinvio, App. Venezia, 15/04/2011)
Divisione – Divisione giudiziale – Passaggio in giudicato della sentenza di divisione – Conguagli – Inammissibilità.
In tema di divisione giudiziale, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale è stato disposto lo scioglimento della comunione e sono stati determinati i lotti, questi entrano da quel momento a far parte del patrimonio di ciascuno degli ex comunisti seppure, nel caso ne sia disposto il sorteggio, l’individuazione in concreto di costoro abbia luogo successivamente in concomitanza con tale adempimento di carattere puramente formale, sicché qualsiasi evento si verifichi nel frattempo a vantaggio o in danno dei beni costituenti ciascun singolo lotto, produce il relativo effetto nei confronti dell’ex comunista cui lo stesso verrà assegnato in sede di sorteggio, senza che tali accadimenti possano più influire sulla determinazione della composizione dei lotti e dar luogo ad ulteriori aggiustamenti o conguagli.
AVVOCATO SERGIO ARMAROLI DI BOLOGNA LAVORA PRESSO BOLOGNA MILANO BRESCIA BERGAMO COMO VICENZA TREVISO PADOVA VENEZIA ANCONA FERMO ASCOLI PICENO MACERATA PER RISOLVERE LITI E CAUSE EREDITARIE DIVISIONI EREDITARIE TRA EREDI
Cassazione civile sez. II, 29/02/2016, (ud. 26/01/2016, dep. 29/02/2016), n.3933
Massime
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato in data 14 aprile 1993 Ca.
- conveniva dinanzi al Tribunale di Verona la sorella C.A. onde procedere alla divisione giudiziale degli immobili caduti nella successione del genitore C.E., deceduto in data (OMISSIS), nonchè per ottenere la condanna della convenuta al pagamento della somma di Euro 14.092,43, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal 5 maggio 1992 al saldo, e di Euro 2197,76, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal 27 aprile 1990 al saldo, quali somme corrispondenti alla quota parte di quelle depositate, rispettivamente, su di un libretto aperto presso il Credito Italiano di Verona, e cointestato ai germani C., e su di un conto corrente acceso presso la Cassa di Risparmio di Verona, cointestato alla convenuta ed al de cuius.
Inoltre veniva richiesta altresì la condanna della convenuta al pagamento di un’indennità di occupazione della quota di immobili appartenente all’attore, a far data dall’apertura della successione sino all’effettiva immissione in possesso nella sua quota da parte dell’attore.
In particolare deduceva che C.A.M., dopo la morte del padre, con il quale abitava nella casa di famiglia, aveva disposto a proprio piacimento di tutti i beni immobili caduti in successione, estromettendo l’attore anche dalla gestione dei terreni agricoli, egualmente caduti in successione, unitamente alla casa familiare.
Si costituiva la convenuta che non si opponeva alla domanda di scioglimento della comunione, assumendo però di non dovere nulla riguardo alle somme depositate sul conto e sul libretto cointestati.
Eccepiva altresì di non dover nulla per l’occupazione dell’immobile, atteso che aveva in precedenza assistito la madre, sino alla morte, e poi il padre, evidenziando altresì di essersi allontanata dall’immobile, dopo l’apertura della successione, a causa del comportamento arbitrario del fratello.
Disposta consulenza tecnica d’ufficio e richiesti chiarimenti all’ausiliare, il Tribunale di Verona con la sentenza n. 3708 del 30 dicembre 2004, approvava il progetto di divisione redatto dal c.t.u., e disponeva procedersi alla divisione secondo quanto previsto dal tecnico d’ufficio, rimettendo le parti dinanzi al Giudice Istruttore per l’estrazione a sorte delle quote, disponendo altresì la compensazione tra le parti delle spese di lite, ivi incluse quelle di c.t.u..
Procedutosi in data 25 maggio 2005 all’estrazione a sorte dei lotti, il Tribunale con sentenza n. 1096 del 5 aprile 2007, dava atto dell’intervenuta divisione giudiziale dei beni immobili, così come disposto con la sentenza del 2004, e, confermata l’attribuzione dei lotti in favore dei condividenti, conformemente agli esiti del sorteggio, aggiungeva di non poter esaminare le domande di condanna avanzate da parte dell’attore, in quanto respinte con la precedente sentenza collegiale del 2004.
Avverso tale sentenza proponeva appello alla Corte di Appello di Venezia, C.A., reiterando la richiesta di condanna della sorella al pagamento delle somme di cui al libretto ed al conto corrente cointestati, nonchè al pagamento delle somme compensative dell’occupazione esclusiva dei beni comuni da parte della germana.
Quanto alla divisione, chiedeva che fosse determinato il nuovo valore del fondo di cui al mappale n. 93, assumendo che nelle more del giudizio era divenuto edificabile, occorrendo pertanto modificare la somma dovuta a titolo di conguaglio.
Si costituiva l’appellata, la quale in via preliminare deduceva la tardività dell’appello in quanto indirizzato sostanzialmente avverso la prima sentenza del 2004, che doveva ritenersi passata in cosa giudicata, attesa la natura definitiva della stessa. Aggiungeva altresì che le domande di condanna dovevano ritenersi implicitamente respinte con la prima sentenza emessa da parte del Tribunale, occorrendo in ogni caso considerare che le stesse erano state rinunziate da parte dell’attore allorchè, all’udienza di conclusioni del 14 marzo 2002, si era limitato a richiedere esclusivamente la divisione del compendio immobiliare.
In ogni caso la sentenza emessa nel 2007 doveva considerarsi nulla in quanto assunta dal Tribunale in composizione monocratica, sebbene si trattasse di un giudizio già pendente alla data del 30 aprile 1995.
Inoltre, e relativamente alla divisione dei beni, l’appello era inammissibile in quanto l’appellante aveva chiesto una non consentita rivalutazione di uno solo dei cespiti, senza che però fosse stata altresì richiesta una modifica del progetto divisionale.
Disposti due supplementi di c.t.u., la Corte di Appello di Venezia con la sentenza n. 252 del 15 aprile 2011, dopo aver disatteso l’eccezione di tardività dell’appello, assumendo che avverso la prima sentenza n. 3708 del 2004, l’appellante aveva formulato tempestiva riserva di gravame, riteneva che effettivamente il Tribunale avesse omesso di pronunziarsi sulle domande di condanna formulate da parte dell’appellante, vizio questo che non determinava però la remissione della causa al giudice di primo grado. Nel decidere su tali domande, riteneva le stesse fondate sulla base dei documenti versati in atti, essendo emerso che le somme depositate sul libretto e sul conto corrente erano state prelevate interamente da parte della convenuta, la quale pertanto andava condannata alla restituzione in favore dell’attore della quota parte di sua spettanza.
Osservava altresì che effettivamente l’appellata aveva occupato l’intero compendio ereditario sino alla data in cui si era data esecuzione coattiva al verbale di sorteggio, così che la medesima andava condannata per tale causale al pagamento in favore dell’attore della complessiva somma di Euro 66.100,00.
Riteneva del pari meritevole di accoglimento la richiesta di procedere alla rivalutazione del conguaglio in conseguenza del mutamento di valore del mappale n. 93, frazionato successivamente nelle particelle nn. 421, 422 e 423, assegnato all’appellata.
Infatti, poichè nelle more il terreno era divenuto edificabile, così come risultava dalle indagini peritali svolte in grado di appello, era emersa una differenza di valore rispetto a quanto accertato con la prima sentenza che aveva disposto la divisione, di Euro 114.003,40. Per l’effetto, considerato che nel progetto approvato era previsto un conguaglio a carico dell’appellante di Euro 15.427,94, riteneva dovuta in favore di quest’ultimo la somma di Euro 98.575,41, pari alla differenza tra il maggior valore della particella scaturente dalla sopravvenuta edificabilità, e l’ammontare del conguaglio inizialmente posto a carico dell’appellante.
Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, C. A. ha proposto ricorso, sulla base di venti motivi.
Ca.An. ha resistito con controricorso.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con i primi due motivi di ricorso si lamenta la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n. 4, artt. 327 e 340 c.p.c., in relazione al disposto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, nonchè l’omessa e insufficiente motivazione riguardo un punto decisivo della controversia.
Sostiene la ricorrente che erroneamente il giudice d’appello avrebbe affermato che il Ca. aveva tempestivamente effettuato riserva di appello avverso la prima sentenza pronunziata dal Tribunale, trascurando tuttavia di considerare che la previsione di cui all’art. 340 c.p.c. consente la riserva di gravame solo per le sentenze aventi natura non definitiva. Viceversa, come si evincerebbe dalla lettura della sentenza n. 3708 del 2004 – la quale dopo avere approvato il progetto di divisione degli immobili caduti in successione, si era semplicemente limitata a rimettere le parti dinanzi all’istruttore per il sorteggio delle quote – emerge che trattasi di sentenza definitiva, relativamente alla quale non poteva essere formulata alcuna riserva di impugnazione. D’altronde lo stesso appellante nel proprio atto di appello aveva chiaramente indirizzato il gravame nei confronti della successiva sentenza n. 1096 del 2007.
Secondo la ricorrente attesa l’intempestività dell’atto di appello, la prima sentenza emessa da parte del Tribunale è ormai divenuta definitiva con la conseguenza che non poteva più essere rimesso in discussione il progetto di divisione, nè si potevano valutare nuovamente le domande di condanna inizialmente avanzate da parte dell’attore.
Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso si denunzia la nullità della sentenza ovvero del procedimento per violazione degli artt. 5, 161, 187, 188, 189 e 354 c.p.c. nonchè del R.D. n. 12 del 1941, art. 48 in relazione alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, oltre l’omessa e insufficiente motivazione riguardo un punto decisivo della controversia, deducendosi che la sentenza n. 1096 del 2007 sarebbe affetta da nullità in quanto emessa da giudice monocratico anzichè dal Tribunale in composizione collegiale. Si lamenta inoltre che la Corte distrettuale ha deciso la controversia facendo applicazione delle norme processuali applicabili ai procedimenti pendenti alla data del 30 aprile 1995, senza pertanto prendere in considerazione l’eccezione di nullità sollevata dalla ricorrente nella propria comparsa di risposta.
Con il quinto ed il sesto motivo di ricorso si sostiene la nullità della sentenza ovvero del procedimento per la violazione degli articoli 100 e 112 c.p.c. in relazione alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 nonchè l’omessa e insufficiente motivazione riguardo un punto decisivo della controversia.
Ad avviso della ricorrente, con l’atto di appello il C. ha chiesto semplicemente una nuova valutazione del bene di cui al mappale n. 93, con una conseguente modifica dell’entità del conguaglio, laddove tale richiesta doveva necessariamente passare per una richiesta di modifica dell’intero progetto divisionale. In assenza di un motivo di gravame in tal senso, non risultava pertanto possibile incidere sulla determinazione del conguaglio.
Con il settimo, ottavo e nono motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza ovvero del procedimento per la violazione dell’art. 345 c.p.c. nonchè degli artt. 727 e 728 c.c., oltre che l’omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Argomenta la ricorrente che la richiesta di determinare il maggior valore di un bene costituisce in realtà una domanda nuova, inammissibile in sede di appello ex art. 345 c.p.c., e ciò soprattutto in ragione della mancata impugnazione del progetto di divisione. La determinazione del valore dei beni e del valore delle quote andava compiuta unicamente in riferimento alla data dell’approvazione del progetto, essendo del tutto irrilevanti le successive modifiche nella stima dei beni. Peraltro non risultava nemmeno specificamente dedotto quando fosse intervenuta la modificazione del valore del fondo di cui alla particella n. 93, essendosi altresì trascurata la circostanza che solo una parte di tale bene aveva ricevuto una diversa disciplina urbanistica, e che tale porzione era stata alienata da parte dei condividenti, i quali avevano distribuito tra di loro, ed in quote uguali, il ricavato della vendita.
Con il decimo e l’undicesimo motivo di ricorso si sostiene la violazione e falsa applicazione degli artt. 727 e 728 c.c. nonchè l’omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.
A detta della ricorrente, ove ravvisato un diverso valore di un bene inserito in una delle due quote oggetto del progetto di divisione, sarebbe stato necessario provvedere ad una radicale modifica del progetto, non potendosi limitare l’intervento del giudice di appello alla sola rideterminazione del conguaglio. Peraltro, attesa l’entità delle quote, a seguito delle modifiche apportate dai giudici di secondo grado, la ricorrente risulterebbe costretta al pagamento di un conguaglio il cui ammontare è pari a circa il 50% del valore dell’intera quota in natura assegnatale, costringendola pertanto, per soddisfare il credito vantato dal fratello, ad alienare i beni ricevuti all’esito del sorteggio.
Inoltre, anche a voler ritenere effettivamente esistente il maggior valore del suddetto fondo, la Corte veneziana aveva errato nell’attribuire l’intera differenza di valore in favore dell’appellante, laddove tale somma andava ripartita in quote eguali fra i condividenti.
Con il dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza ovvero del procedimento per la violazione dell’art. 112 c.p.c. nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 720, 727 e 738 c.c., oltre che l’omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.
A sostegno di tale deduzione si evidenzia che in realtà la particella n. 93 ormai non esisteva più, in quanto frazionata in altre particelle. Di queste, l’unica divenuta edificabile è quella contrassegnata dal n. 423, che però è già stata alienata dai condividenti, che ne hanno diviso in parti uguali il ricavato. Ciò comporta che a subire un effettivo pregiudizio è la stessa ricorrente, che ha visto inclusa nella propria quota un bene ormai non più appartenente ai comunisti.
Peraltro sarebbe del tutto erroneo prendere in considerazione le vicende relative ai beni in comunione, successive all’assegnazione delle quote, dovendosi in ogni caso evidenziare che l’unica particella assegnata alla convenuta è quella contrassegnata con il n. 421, che pacificamente ha una destinazione agricola.
Con il quindicesimo, sedicesimo e diciassettesimo motivo di ricorso si lamenta la nullità della sentenza ovvero del procedimento per la violazione degli artt. 113 e 116 c.p.c. nonchè per la violazione e falsa applicazione degli artt. 720, 727 e 728 c.c., oltre che l’omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Nell’illustrazione del motivo si evidenzia che in sede di appello la ricorrente aveva ribadito l’impossibilità di poter emettere una sentenza di condanna nei suoi confronti, attesa l’intervenuta rinunzia a tale domanda da parte del fratello. Inoltre la sentenza n. 3708 del 2004 aveva rimesso le parti dinanzi al giudice istruttore esclusivamente per l’estrazione a sorte delle quote, di modo che correttamente anche la successiva sentenza del 2007 non si era pronunziata sulle richieste in questione di parte attrice che invece erano ricomparse in maniera del tutto inammissibile solo in sede di appello.
Con il diciottesimo e diciannovesimo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza ovvero del procedimento per la violazione degli artt. 113 e 116 c.p.c. nonchè l’omessa e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in quanto erroneamente la corte distrettuale avrebbe affermato la fondatezza della domanda di condanna al pagamento di somme in ragione dell’esistenza di univoche risultanze documentali, trascurando di prendere in considerazione altri documenti ritualmente versati in atti, idonei a confutare gli elementi valorizzati da parte del giudice di appello.
Analogamente per quanto concerne l’occupazione degli immobili ereditari, la sentenza impugnata non avrebbe in alcun modo considerato che mai era stato impedito all’attore di abitare una parte dei beni ereditari, e che questi nel corso degli anni non aveva mai formulato alcuna richiesta in tal senso, risultando pertanto del tutto infondata l’affermazione secondo cui la ricorrente avrebbe ostacolato il godimento da parte del germano dei beni in comunione.
In ogni caso la stima dell’indennità di occupazione risultava del tutto eccessiva, se parametrata all’effettiva consistenza dei beni caduti in successione.
Infine con il ventesimo motivo di ricorso si lamenta la nullità della sentenza ovvero del procedimento per la violazione dell’art. 350 c.p.c. in quanto nel giudizio di secondo grado, nonostante la previsione secondo cui la trattazione del giudizio è collegiale, era stato delegato il giudice monocratico al compimento di attività istruttorie, che si erano poi manifestate anche nel compimento di attività di tipo valutativo e decisorio. Infatti, sebbene il Collegio con l’ordinanza del 10/3/2009 avesse attribuito al CTU il compito di valutare il compendio ereditario, alla luce dell’aggiornamento dei valori di mercato nonchè della nuova classificazione urbanistica delle aree interessate, alla successiva udienza del 17/2/2010, il Consigliere Istruttore, compiendo valutazioni non consentitegli, aveva richiesto al CTU di determinare il valore dei beni secondo una “vocazione edificatoria”, quantificando altresì l’indennità di occupazione, esorbitando chiaramente dalle attribuzioni delegategli dal Collegio.
Reputa il Collegio che il primo ed il secondo motivo di ricorso siano fondati e che pertanto debbano trovare accoglimento.
Dalla lettura delle sentenze emesse nel corso del giudizio di primo grado, la cui disamina è in ogni caso consentita attesa anche la deduzione di un vizio rientrante nella previsione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4 emerge che con la sentenza n. 3708 del 5 marzo 2008, il Tribunale di Verona, in composizione collegiale, esaminava il progetto di divisione predisposto dal CTU, ritenendolo condivisibile (non potendo trovare accoglimento le deduzioni del consulente tecnico di parte convenuta) e per l’effetto lo approvava, rimettendo le parti dinanzi al Giudice Istruttore per l’estrazione a sorte dei due lotti.
La pronuncia poi dichiarava la compensazione delle spese di lite, ponendo quelle di CTU a carico di entrambi i condividenti, e, nell’ultimo rigo della motivazione, disponeva che la causa dovesse proseguire per l’esame delle altre domande.
Con la successiva sentenza n. 1096 del 5 marzo 2008, lo stesso Tribunale, ma in composizione monocratica, ritenendo che tutte le domande diverse da quella di divisione fossero state già decise e disattese dalla precedente sentenza, assegnava i lotti di cui al progetto di divisione in precedenza già approvato, in conformità delle richieste provenienti dai due germani, ponendo a carico dell’attore un conguaglio, onde perequare le differenze di valore tra le due quote.
Alla luce di tali elementi, deve ritenersi errata l’affermazione della Corte distrettuale laddove ha ritenuto che la sentenza n. 3704 del 204, relativamente alla decisione sulla domanda di divisione, avesse natura non definitiva, e che pertanto dovesse ritenersi ammissibile l’appello proposto avverso la stessa, sul presupposto dell’operatività della riserva di gravame formulata dall’attore all’udienza del 25 maggio 2005.
Va premesso che nella fattispecie risultavano sottoposte all’esame del Tribunale, oltre alla domanda di divisione del compendio ereditario di C.E., nella quale doveva ritenersi inclusa anche l’attribuzione della quota parte della somma depositata sul conto corrente bancario cointestato alla ricorrente ed al padre, trattandosi di un diritto di credito del de cuius, come tale rientrante nella comunione ereditaria (cfr. Cass. S.U. 28 novembre 2007 n. 24657), anche la domanda di rendiconto ricollegata alla pretesa occupazione esclusiva dei beni comuni da parte della convenuta, e la domanda di attribuzione della quota parte delle somme depositate su di un libretto di deposito cointestato ai due germani.
E’ evidente pertanto l’autonomia, rispetto alla domanda di divisione, sia della richiesta di conseguire una parte delle somme di cui al libretto da ultimo menzionato (trattandosi chiaramente di una pretesa del tutto estranea alle vicende successorie), sia di quella di rendiconto. In tal senso si veda Cass. 30 dicembre 2011 n. 30552, secondo cui, nell’ambito dei rapporti tra coeredi, la resa dei conti di cui all’art. 723 cod. civ., oltre che operazione inserita nel procedimento divisorio, può anche costituire un obbligo a sè stante, fondato – così come avviene in qualsiasi situazione di comunione – sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da uno dei partecipanti; ne consegue che l’azione di rendiconto può presentarsi anche distinta ed autonoma rispetto alla domanda di scioglimento della comunione pur se le due domande abbiano dato luogo ad un unico giudizio, sicchè le medesime possono essere scisse e decise senza reciproci condizionamenti, nonchè Cass. 27 marzo 2002 n. 4364 per la quale la domanda di conguaglio in relazione ai frutti prodotti dai cespiti ereditari, asseritamente percetti in misura non proporzionale alle quote da parte di alcuni dei coeredi rispetto ad altri, deve essere proposta non nell’ambito della domanda relativa alla divisione ed ai conseguenti conguagli divisionali, bensì, sia pure contestualmente, con una distinta ed autonoma domanda di rendiconto.
Poste tali premesse, appare alla Corte che alla sentenza del 2004 debba attribuirsi il carattere della definitività relativamente alla decisione sulla domanda di divisione (inclusa in quest’ultima, per quanto detto, la richiesta di assegnazione di quota parte delle somme depositate sul c/c cointestato al de cuius), avendo effettivamente risolto tutte le questioni inerenti la formazione del progetto di divisione, ed essendosi limitata a disporre il prosieguo, limitatamente a tale domanda, solo per quanto concerne le operazioni materiali di sorteggio, avendo peraltro provveduto, atteso il riferimento al fatto che la causa dovesse proseguire per l’esame delle altre domande, anche alla separazione della domanda di divisione dalle altre domande, autonome, sebbene proposte contestualmente alla prima.
Conforta tale convincimento in primo luogo la circostanza che la pronuncia in esame abbia altresì ritenuto di dover provvedere sulle spese del giudizio, ancorchè al fine di operarne la compensazione, di modo che risulta presente uno degli indici formali che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è risolutivo al fine di stabilire la natura definitiva o meno di una sentenza.
In tal senso si veda Cass. S.U. 1 marzo 1990 n. 1577, la quale, proprio a risoluzione del contrasto in passato esistente, ha affermato che nel caso di cumulo di domande fra gli stessi soggetti, la sentenza, che decida una o più di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, ha natura non definitiva, e come tale può essere oggetto di riserva d’impugnazione differita (artt. 340 e 361 cod. proc. civ.), qualora non disponga la separazione, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n. 5, e non provveda sulle spese relative alla domanda od alle domande decise, rinviando all’ulteriore corso del giudizio, atteso che, anche al fine indicato, la definitività della sentenza esige un espresso provvedimento di separazione, ovvero la pronuncia sulle spese, che chiude la contesa cui si riferisce e che quindi necessariamente implica la separazione medesima.
Con specifico riferimento alle pronunce con le quali venga approvato il progetto di divisione, questa Corte ha poi affermato che nel giudizio di divisione ereditaria, costituisce sentenza definitiva soltanto quella che scioglie la comunione rispetto a tutti i beni che ne facevano parte, mentre le eventuali sentenze che concludono le singole fasi del procedimento hanno carattere strumentale e natura di sentenza non definitiva e sono, come tali, suscettibili di riserva di gravame, ai sensi dell’art. 340 cod. proc. civ. (Cass. 29 dicembre 2011 n. 29829; Cass. 7 marzo 2007 n. 5203; Cass. 16 novembre 1996 n. 10066). Trattasi di principio che conferma che la sentenza in esame, la quale ha definito tutte le questioni strettamente riferentisi alla divisione del patrimonio immobiliare, disponendo solo il prosieguo per l’estrazione a sorte dei lotti, ha chiaramente natura definitiva.
Tale conclusione trova poi conferma nell’ulteriore considerazione secondo cui, negando il carattere di definitività alla pronuncia che approva il progetto di divisione, il processo stesso rischierebbe di entrare in una situazione di stallo dalla quale appare pressochè impossibile poter uscire.
Ed, infatti, secondo il costante orientamento della Corte (cfr. Cass. 1 ottobre 2013 n. 22435) nel procedimento di scioglimento della comunione, il giudice istruttore, alla stregua di quanto sancito dall’art. 789 c.p.c., commi 3 e 4, può procedere all’estrazione a sorte dei lotti solo quando le contestazioni al progetto di divisione da lui predisposto siano state risolte con sentenza passata in giudicato (conf. da ultimo Cass. 31 luglio 2013 n. 18354).
Ove si attribuisse alla pronuncia che approva il progetto e rinvia per le sole operazioni di estrazione a sorte dei lotti, natura non definitiva, sarebbe possibile per una delle parti formulare riserva di gravame, impedendo in tal modo il passaggio in giudicato della sentenza stessa, e di riflesso, impedendo che possa procedersi all’estrazione a sorte dei lotti, senza che tale situazione di impasse sia altrimenti rimediabile.
Viceversa, la soluzione della natura definitiva della pronuncia de qua, impone alla parte, interessata a contestare la correttezza della medesima, di proporre impugnazione immediata, alla cui definizione con sentenza passata in cosa giudicata, sarà poi dato far seguire le operazioni di sorteggio, ancorchè l’istruttore ovvero il notaio delegato debbano attendere l’esaurimento delle fasi di impugnazione.
All’esito di tali considerazioni, una volta ribadita la natura definitiva della sentenza n. 3708/2004 pubblicata in data 30 dicembre 2004, quanto alla domanda di divisione, come sopra identificata anche nell’individuazione dei beni dalla stessa interessati, deve effettivamente ritenersi tamquam non esset la riserva di gravame formulata dall’appellante all’udienza del 25 maggio 2005, così che la successiva proposizione dell’appello solo in data 29 febbraio 2008, ne evidenzia la palese tardività e la conseguente inammissibilità, non potendosi ovviare a tale decadenza mediante la formulazione delle censure di cui all’atto di appello, avverso la successiva sentenza n. 1096 del 2008, la quale ha correttamente preso atto dell’intangibilità del progetto di divisione già approvato con la prima sentenza limitandosi ad individuare gli assegnatari dei singoli lotti.
La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata nella parte in cui ha ritenuto di poter esaminare le doglianze dell’appellante concernenti il progetto di divisione, atteso il passaggio in giudicato della pronuncia che aveva definitivamente approvato lo stesso, ma senza che si imponga il rinvio dovendosi unicamente prendere atto del fatto che il giudizio, relativamente alla domanda di divisione, non poteva essere esaminata nel prosieguo del giudizio.
Il terzo ed il quarto motivo sono invece immeritevoli di accoglimento.
Ed, infatti, emerge che mentre la prima sentenza è stata emessa dal Tribunale in composizione collegiale, la seconda è stata adottata dallo stesso ufficio giudiziario ma in composizione monocratica.
Tuttavia, trattasi di vizio che, come si ricava dall’art. 50 quater c.p.c., implica l’applicazione dell’art. 161 c.p.c., comma 1, così che, per poter essere ulteriormente dedotto in questa sede, era necessario che la ricorrente avesse previamente proposto appello incidentale, ancorchè condizionato, nel quale dedurre il mancato rispetto delle regole di composizione del Tribunale.
La mancata deduzione di tale circostanza, e cioè della proposizione di uno specifico motivo di appello circa la corretta composizione del Tribunale in occasione della pronuncia della seconda sentenza, rende i motivi in esame inammissibili.
In ragione dell’accoglimento dei due primi motivi di ricorso, deve poi ritenersi che siano invece assorbiti il quinto, il sesto il settimo e l’ottavo e nono motivo con i quali si sostiene l’impossibilità di poter procedere ad una nuova valutazione dei beni ricompresi nella divisione, ancorchè al fine di determinare la diversa misura dei conguagli.
Il giudicato formatosi sulla sentenza che ha approvato il progetto di divisione preclude ogni sua successiva modifica da parte del giudice di appello, nè appare possibile addurre a giustificazione di una richiesta di tal contenuto la circostanza che in epoca successiva all’approvazione del progetto, ma prima dell’estrazione a sorte ovvero dell’attribuzione dei lotti, siano intervenuti dei mutamenti nella consistenza materiale o giuridica dei beni destinati a comporre le quote in natura.
Infatti costituisce principio affermato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. 25 maggio 2001 n. 7129) quello secondo cui, una volta passata in giudicato la sentenza con la quale è stato disposto lo scioglimento della comunione e siano stati determinati i lotti, questi entrano da quel momento a far parte del patrimonio di ciascuno degli ex comunisti se pure, nel caso ne sia disposto il sorteggio, l’individuazione in concreto di costoro abbia luogo successivamente in concomitanza con tale adempimento di carattere puramente formale, onde qualsiasi evento si verifichi nel frattempo a vantaggio o in danno dei beni costituenti ciascun singolo lotto, si verifica a vantaggio od in danno dell’ex comunista cui lo stesso verrà assegnato in sede di sorteggio, senza che tali accadimenti possano più minimamente influire sulla determinazione della composizione dei lotti e dar luogo ad ulteriori aggiustamenti o conguagli.
Sempre in ragione dell’accoglimento dei precedenti motivi di ricorso deve ritenersi l’assorbimento dei motivi da 10 a 14.
Passando alla disamina dei motivi da 15 a 17, una volta ribadito che la sentenza del Tribunale del 2004 aveva disposto la prosecuzione anche per quanto concerneva le altre domande, va anzitutto chiarito che ad avviso della Corte, attesa l’inclusione del credito derivante dal prelievo dal conto corrente cointestato al de cuius, nel novero dei beni ereditari, la sentenza in questione, laddove ha approvato il progetto di divisione ha effettivamente precluso la riproponibilità della richiesta di pagamento di tale somma nel prosieguo del giudizio.
Ed, invero, in assenza di una statuizione anche su tale componente dell’attivo ereditario ad opera della prima sentenza, deve ritenersi che la richiesta di includere anche tale somma nel novero dei beni comuni sia stata quanto meno implicitamente rigettata, così che è evidente che la parte avrebbe dovuto proporre immediatamente appello avverso la relativa pronunzia.
Ma anche laddove si reputi che vi sia stata un’omissione di pronuncia, essendosi previsto il prosieguo del giudizio solo per quanto attiene alla domanda di rendiconto ed a quella di restituzione delle somme prelevate dal libretto cointestato ai germani C., del pari si imponeva la necessità di un’immediata proposizione del gravame, onde dedurre il vizio de quo.
Ed, infatti, secondo la giurisprudenza della Corte (cfr. Cass. 11 giugno 2002 n. 8327) qualora il giudice ometta di pronunciare su una delle domande proposte, la parte ha la facoltà – oltre a quella di far valere tale omissione in sede di gravame – di rinunciare alla domanda stessa, per riproporla in separato giudizio (conf. Cass. 9 ottobre 1998 n. 10029; Cass. 30 maggio 2002 n. 7917).
Pertanto, atteso il carattere definitivo della sentenza che si è pronunziata sulla divisione, il vizio di omessa pronuncia sulla domanda relativa al credito ereditario andava dedotto immediatamente con il gravame al fine di poter consentirne l’esame nell’ambito dello stesso giudizio, essendo quindi preclusa la possibilità per la Corte di appello di poter esaminare tale domanda in occasione dell’impugnazione proposta avverso la successiva sentenza del 2008.
Viceversa per la altre domande, per le quali si era disposta la prosecuzione del giudizio, il motivo pecca di autosufficienza atteso che si assume che il controricorrente avrebbe rinunziato alle stesse nel verbale di conclusioni del 14 marzo 2002, senza che però si riproduca nel ricorso il contenuto delle conclusioni effettivamente rese dalla parte.
Per l’effetto i motivi vanno accolti per quanto di ragione, e la sentenza impugnata deve essere cassata, e senza necessità di rinvio, nella parte in cui ha accolto la domanda dell’attore al pagamento della somma di Euro 2.147,76, quale quota parte delle somme giacenti sul conto corrente cointestato al de cuius.
Il diciottesimo ed il diciannovesimo motivo di ricorso sono invece infondati.
Gli stessi, oltre a peccare del requisito dell’autosufficienza, facendosi riferimento a documenti che dovrebbero offrire la prova contraria a quanto accertato dalla Corte distrettuale (assegno bancario che avrebbe costituito l’iniziale provvista del libretto di deposito, estratti conto relativi alle movimentazioni del rapporto bancario) dei quali non si riporta in dettaglio il contenuto, e senza specificare quando ed ad opera di chi sarebbero stati introdotti nel processo nelle precedenti fasi di merito, appaiono in parte generici (laddove a fronte dell’adesione del giudice di merito alle conclusioni del CTU, si afferma apoditticamente l’inattendibilità dei valori di stima utilizzati per determinare l’indennità di occupazione), ed in ogni caso volti sostanzialmente a sollecitare una nuova rivalutazione dei fatti di causa, attività preclusa al giudice di legittimità.
Del pari deve reputarsi infondato il ventesimo motivo di ricorso. Il ricorrente a suffragio del proprio assunto ha richiamato alcuni precedenti di questa Corte per i quali (cfr. Cass. 22 dicembre 2005 n. 28497) la violazione dell’art. 350 cod. proc. civ. nel testo introdotto dalla L. n. 353 del 1990, ovvero della regola della trattazione collegiale della causa in appello (nella specie si trattava dell’impugnazione di un lodo arbitrale) non si traduce in violazione del principio di cui all’art. 158 cod. proc. civ. nè in nullità della pronuncia, a meno che essa abbia dato luogo, da parte del consigliere istruttore, ad attività valutativa di spettanza del collegio (sostanzialmente conforme Cass. 22 luglio 2005 n. 15503).
Reputa tuttavia il Collegio che debba darsi seguito al più recente orientamento della Corte (cfr. Cass. 14 giugno 2011 n. 12957) per il quale l’attività istruttoria (nella specie assunzione di prova testimoniale) svolta su delega del collegio da parte di uno dei suoi componenti, in violazione della regola della trattazione collegiale dell’appello davanti alla corte d’appello, non si traduce automaticamente in un vizio di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ., con conseguente nullità assoluta della relativa pronuncia, occorrendo, a tal fine, la specifica deduzione e il positivo riscontro, che l’attività stessa abbia, in concreto, comportato l’esplicazione di funzioni, se non decisorie, certamente valutative, riservate dalla legge al collegio (conf. Cass. 19 marzo 2014 n. 6426).
Orbene, nella fattispecie oltre a doversi evidenziare che l’ordinanza del Collegio aveva espressamente previsto lo svolgimento di un supplemento di CTU, di modo che l’ampliamento del mandato da parte del consigliere istruttore non si pone in insanabile contrasto con quanto deciso dal Collegio, in ogni caso l’attività ulteriore svolta dal CTU in relazione agli ulteriori quesiti formulati dal C.I.. è stata nuovamente sottoposta alla valutazione del Collegio al momento della decisione della causa, Collegio il quale ne ha ravvisato la effettiva utilità, ratificando in tal modo anche l’eventuale operato eccedenti i limiti del provvedimento di delega.
Ne consegue che il motivo deve essere disatteso.
Atteso il parziale accoglimento del ricorso e considerata la complessità delle questioni trattate specialmente per quanto attiene ai rapporti tra le varie sentenze emesse nell’ambito del giudizio divisionale, si ritiene che sussistano validi motivi per disporre la compensazione delle spese del presente giudizio.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo e, per quanto di ragione, i motivi da 15 a 17, e per l’effetto cassa senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui ha rideterminato i conguagli dovuti tra i condividenti difformemente da quanto statuito con la sentenza del Tribunale di Verona n. 3708/2004 e nella parte in cui ha condannato la ricorrente al pagamento in favore della controparte della somma di Euro 2.147,76, quale quota parte delle somme giacenti sul conto corrente cointestato al de cuius;
dichiara assorbiti i motivi da 3 a 14;
rigetta gli altri motivi di ricorso;
compensa le spese del presente grado.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 gennaio 2016.
Depositato in Cancelleria il 29 febbraio 2016
AVVOCATO SERGIO ARMAROLI DI BOLOGN A LAVORA PRESSO BOLOGNA MILANO BRESCIA BERGAMO COMO VICENZA TREVISO PADOVA VENEZIA ANCONA FERMO ASCOLI PICENO MACERATA PER RISOLVERE LITI E CAUSE EREDITARIE DIVISIONI EREDITARIE TRA EREDI
cccCassazione civile sez. III, 27/05/2024, (ud. 10/01/2024, dep. 27/05/2024), n.14788
Massime
FATTI DI CAUSA
- Me.Vi. , nonché la di lui moglie As.Ma. , ricorrono, sulla base di sei motivi, per la cassazione della sentenza n. 2613/19, del 17 settembre 2019, della Corte d’appello di Bologna, che – accogliendone solo parzialmente il gravame avverso la sentenza n. 1437/14, del 30 ottobre 2014, del Tribunale di Reggio Emilia- ha condannato gli stessi a pagare la somma di Euro 59.600,00 in favore dell’Avv. Brunella Bertani, in qualità di amministratrice di sostegno di Or.Di. , poi deceduta nelle more del presente giudizio.
- Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di essere stati convenuti in giudizio dall’Avv. Bertani, nella già indicata qualità, affinché fossero condannati alla restituzione, alla sua amministrata, degli importi di Euro 59.605,00 e di Euro 22.300,00, dei quali il Me.Vi. aveva in passato disposto, nella veste di (precedente) amministratore di sostegno della propria genitrice, Or.Di. . In particolare, la prima (e maggiore) di tali somme, trasferita dal Me.Vi. da un conto corrente bancario intestato alla madre il 19 dicembre 2005, sarebbe stata oggetto – nella prospettazione attorea – di un contratto di donazione, in favore dei coniugi Me.Vi.- As.Ma. , da ritenersi nullo per difetto di forma solenne, non potendo ritenersi di “modico valore”. Quanto, invece, alla pretesa restitutoria relativa all’altro importo, essa riguardava l’incasso – dal medesimo conto corrente – di somme prelevate tra il 20 dicembre 2005 e il 16 giugno 2006.
A tali domande restitutorie l’attrice affiancava la richiesta di rendimento del conto, ex art. 1713 cod. civ. , della gestione operata sul patrimonio della Or.Di. , nonché quella di risarcimento dei danni, quantificati in Euro 20.000,00.
Costituitisi in giudizio, i convenuti resistevano alle avversarie pretese, assumendo – quanto, in particolare, alla richiesta di restituzione di Euro 59.605,00 – che tale somma era stata trattenuta da Me.Vi. “quale importo minimale spettantegli per la sua quota di eredità” del patrimonio del padre, Me.Ig.. In ogni caso, parte convenuta chiedeva, eventualmente, compensarsi i crediti oggetto di domanda con quello di Euro 7.197,23, per somma anticipata da Me.Vi. per conto della madre, sia nel corso dell’incarico di amministratore di sostegno, sia prima che dopo l’espletamento dello stesso. In via di riconvenzione, infine, i convenuti domandavano – all’uopo chiedendo di essere autorizzati a chiamare in causa l’altra figlia della Or.Di. , Me.Il. , e il figlio di costei, Va.Ro. – la divisione di tutti i beni dell’eredità di Me.Ig. , con richiesta rivolta all’attrice, e ai terzi chiamati, di rendere il conto della gestione del patrimonio relitto di costui, con condanna al pagamento di ogni somma che fosse risultata dovuta, a titolo di mandato e/o gestione d’affari e/o d’indebito. Assumevano, infatti, che Me.Il. avesse trattenuto, dai conti della madre, somme pari a Lire. 226.315.797.
Istruita la causa anche mediante lo svolgimento di prova testimoniale, l’esito del primo grado di giudizio consisteva nell’accoglimento della domanda restitutoria di Euro 59.605,00, non avendo i convenuti provato l’esistenza del debito della Or.Di. , verso il figlio, in relazione all’eredità di Me.Ig. , mentre la domanda relativa all’importo di Euro 22.300,00 veniva accolta solo in parte, atteso che la somma richiesta veniva compensata con quella spettante a Me.Vi. per il mantenimento della madre e per altre spese in suo favore, così rideterminando l’ammontare di quanto dovuto a parte attrice – a tale titolo – in Euro 8.101.62. Quanto, infine, alle domande riconvenzionali, esse venivano dichiarate inammissibili, giacché ritenute prive di specifica connessione – ex art. 36 cod. proc. civ. – con quelle attoree.
Esperito gravame dai già convenuti, che in sede di comparsa conclusionale rinunciavano alle domande riconvenzionali, il giudice di appello – nella contumacia dell’Avv. Bertani – accoglieva il gravame solo in parte, segnatamente dichiarando inammissibile, per difetto di autorizzazione del giudice tutelare, la domanda di restituzione dell’importo di Euro 22.300,00, confermando, per il resto, la decisione appellata.
- Avverso la sentenza della Corte felsinea hanno proposto ricorso per cassazione il Me.Vi. e l’As.Ma. (indirizzandolo anche nei confronti di Me.Il. e Va.Ro. , nonché dello stesso Me.Vi. , quale erede di Or.Di. , stante il sopravvenuto decesso della stessa in data 11 maggio 2015), sulla base – come detto – di sei motivi.
3.1. Il primo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2697 e 2033 cod. civ.
Viene dedotta la violazione dei principi di diritto relativi sia alla ripartizione dell’onere probatorio in materia di ripetizione di indebito oggettivo, sia all’accertamento dell’inesistenza della causa della dazione patrimoniale oggetto del giudizio.
I ricorrenti censurano la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la decisione del primo giudice, di accoglimento della domanda di ripetizione di indebito, sebbene sprovvista di prova – da fornirsi da parte attrice – della mancanza di causa della contestata dazione, ciò che costituisce, invece, presupposto indefettibile dell’azione di ripetizione. In particolare, è contestato quel passaggio della motivazione in cui si afferma che la prova dell’avvenuta dazione nsine causa” dell’importo di Euro 59.605,00 sarebbe stata “fornita dalla stessa parte convenuta”, essendo “rimasta priva di riscontro” la sua allegazione secondo cui “il trasferimento dei fondi sarebbe stato effettuato”, da parte di Me.Vi. , “a titolo di pagamento della quota di eredità del padre Me.Ig.”. Così argomentando, tuttavia, la Corte bolognese avrebbe operato un’inversione dell’onere della prova, a giustificare il quale non potrebbe richiamarsi neppure quell’orientamento secondo cui “l’attore in ripetizione che prospetti come ignoto lo specifico titolo sulla base del quale sia avvenuto il pagamento che si assume indebito non sarebbe tenuto a dimostrare l’assenza di qualunque causa astrattamente idonea a giustificare la “solutio”, potendo limitarsi a invocare e provare l’inidoneità del titolo ipotizzato e indicato, come “causa petendi”, nella propria domanda di ripetizione.
Invero, nel caso in esame ricorrerebbe una fattispecie del tutto diversa, in quanto l’attrice in ripetizione “non si è affatto limitata a prospettare come ignota la causa della contestata dazione patrimoniale”, avendo “specificamente qualificato il trasferimento fondi di Euro 59.605,00” come “donazione, asseritamente nulla per difetto di forma”. In ogni caso, anche ad accedere all’interpretazione suddetta, l’attrice in ripetizione sarebbe stata onerata dalla dimostrazione della diversa “causa debendi” invocata dai convenuti (è citata, sul punto, Cass. Sez. 3, sent. 11 febbraio 1999, n. 1170).
3.2. Il secondo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2033 e 2697 cod. civ. e all’art. 167 cod. proc. civ.
La sentenza impugnata è censurata là dove ha ritenuto provata la domanda di ripetizione unicamente sulla base della contestazione, da parte dei convenuti, in ordine alla reale causa del versamento, contestazione, per contro, inidonea a integrare gli estremi dell’eccezione in senso sostanziale e a comportare alcuna inversione dell’onere probatorio.
Secondo i ricorrenti il giudice d’appello avrebbe erroneamente riversato su di essi le carenze probatorie sottese alle difese dell’attrice.
3.3. Il terzo motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2727 e 2729 cod. civ.
Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che il patrimonio mobiliare di Me.Ig. , al momento della morte, ammontava “presuntivamente” a Lire 84.917.766, secondo le risultanze del conto cointestato al medesimo e alla moglie Or.Di. . Orbene, poiché sulla metà di tale somma – ovvero, Lire 42.458.883 (pari a Euro 21.928,18) – si era aperta la successione “mortis causa” della moglie e dei due figli del “de cuius”, risultava, per Me.Vi. , una quota pari a Euro 7.309,39, “del tutto incongrua” rispetto a quanto si assume essere stato al medesimo versato, dalla genitrice, a titolo di quota ereditaria, ciò che, pertanto, confermerebbe come il trasferimento fosse rimasto privo di causa.
Così argomentando, tuttavia, il giudice di appello avrebbe violato il divieto di ricorrere alla “praesumptio de praesumptio”, ricavando da una presunzione – quella relativa all’ammontare del patrimonio mobiliare di Me.Ig. – un’altra presunzione.
3.4. Il quarto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 2697 cod. civ. e agli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
Si addebita alla sentenza impugnata di aver ritenuto non provato il titolo giustificativo dedotto dai convenuti quale causa della contestata dazione patrimoniale, giungendo a motivare l’accoglimento della domanda di ripetizione di parte attrice unicamente sulla base di tale presunto difetto di prova.
3.5. Il quinto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.
Si censura la sentenza impugnata per aver condannato gli odierni ricorrenti al pagamento integrale delle spese di lite relative al giudizio di appello, nonostante il parziale accoglimento dell’impugnazione dagli stessi proposta.
3.6. Il sesto motivo denuncia – ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 4 del d.m. 10 marzo 2014, n. 55, come modificato dal d.m. 8 marzo 2018, n. 37 e alle c.d. “Tabelle parametri forensi” allegate al medesimo decreto.
Si assume che la Corte territoriale avrebbe violato le norme che disciplinano la liquidazione delle spese di lite, quantificando quelle relative al giudizio di appello in manifesto contrasto con i criteri di calcolo enunciati in parte motiva, dal momento che essa non si sarebbe attenuta al prescelto criterio di liquidazioni tra valori minimi e medi.
Si dolgono, inoltre, i ricorrenti del fatto che non sia stata applicata la riduzione del 50% dei valori medi, di cui all’art. 4, terzo periodo, del d.m. n. 55 del 2014.
- Sono rimasti solo intimati Me.Il. e Va.Ro. . Inoltre, sebbene Me.Il. e Me.Vi. (quali eredi della defunta Or.Di.) risultino indicati, in ricorso, quali parti del presente giudizio, gli stessi non sono stati destinatari – in tale qualità – di notificazione del presente atto di impugnazione.
- La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
- I ricorrenti hanno presentato memoria.
- Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
- In via preliminare va rilevato che la (singolare) circostanza per cui Me.Il. – già convenuta nella fase di merito del presente giudizio – e lo stesso ricorrente Me.Vi. abbiano assunto, in corso di causa, la qualità eredi di Or.Di. non comportava che il presente ricorso dovesse essere loro notificato.
Invero, la prima è stata resa edotta della proposizione della presente impugnazione mediante notifica della stessa “in proprio”, mentre, quanto al secondo, l’adempimento non si rendeva necessario, essendo stato egli stesso a ricorrere per Cassazione.
- Ciò premesso, il ricorso va accolto, limitatamente al suo sesto motivo.
9.1. I motivi primo e secondo – suscettibili di scrutinio unitario, giacché addebitano alla sentenza impugnata un’erronea ripartizione dell’onere della prova, in relazione all’esperita azione di ripetizione dell’indebito (primo motivo), con l’effetto di imputare alla parte convenuta gli effetti del “fallimento probatorio” in cui sarebbe incorso, invece, l’attore (secondo motivo) – non sono fondati.
Invero, come attesta lo stesso ricorso, parte attrice ebbe a denunciare il carattere “sine causa” dell’operazione, compiuta il 19 dicembre 2005 e consistita nel trasferimento di Euro 59.600,00 a Me.Vi. e As.Ma. , assumendo che stessa configurava una donazione nulla, in quanto priva di forma solenne e non ascrivibile, data la rilevanza dell’importo, a quella di “modico valore”, esentata dalla necessità dell’osservanza di tale requisito formale. A fronte di tale impostazione, i convenuti ebbero ad eccepire che Me.Vi. aveva compiuto tale operazione, trattenendo la somma suddetta “quale importo minimale spettantegli per la sua quota di eredità” del patrimonio del padre, Me.Ig.. Nondimeno, essendosi accertato che tale quota ereditaria ammontava ad Euro 7.309,39, si è ritenuta la suddetta operazione priva (pure) di tale causa giustificativa.
Tale “iter” argomentativo appare immune dai vizi denunciati con i primi due motivi della presente impugnazione: e ciò proprio alla stregua del precedente invocato in ricorso, relativo ad una fattispecie (qual è, appunto, pure quella presente) in cui l’attore in ripetizione, erede del “solvens”, a fronte di trasferimenti di denaro compiuti dal proprio dante causa in favore del convenuto, aveva allegato l’esistenza di una donazione nulla, appunto, per difetto di forma solenne (si tratta di Cass. Sez. 3, sent. 11 febbraio 1999, n. 1170, Rv. 523147 – 01).
Al riguardo, questa Corte ha osservato come “il fatto giustificativo della pretesa restitutoria del solvens” fosse, nella specie, “costituito dalla invalidità del titolo ipotizzato”, sicché “l’onere probatorio” gravante sull’attore in ripetizione si sostanziava “nella dimostrazione di quella invalidità”, peraltro ritenuta “superflua, posto che la nullità per vizio di forma della donazione di non modico valore (secondo l’effettuato apprezzamento del giudice del merito) che non sia fatta per atto pubblico direttamente discende dal disposto di cui all’art. 782 cod. civ.” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 1170 del 1999, cit.). Ricorrendo, dunque, una simile evenienza “il problema” -secondo questa Corte – “resta quello di rendere compatibile l’inversione dell’onere della prova circa la causa del pagamento effettuato con l’impossibilità della prova, da parte di chi invochi la condictio indebiti ex art. 2033 cod. civ. , di qualunque titolo che lo giustifichi”, sicché “quando il titolo giustificativo del pagamento sia prospettato come ignoto dal solvens (o, come nella specie, dal suo erede), questi può limitarsi ad invocare ed a provare l’inidoneità del titolo ipotizzato, fermo il suo onere di dimostrare l’inidoneità della diversa causa dell’attribuzione eventualmente indicata dal convenuto” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 1170 del 1999, cit.).
Orbene, nella specie, tale ultima dimostrazione è stata ritenuta raggiunta sulla scorta della CTU espletata, che ha, per l’appunto, evidenziato come la pretesa di Me.Vi. di “trattenere” Euro 59.600,00, quale anticipo della liquidazione di una quota ereditaria, quella del patrimonio paterno, minore di otto volte (Euro 7.309,39), rendesse l’operazione del tutto ingiustificata.
E, difatti, non è un caso se – in particolare, con il terzo motivo di ricorso – i ricorrenti contestino proprio tale accertamento fattuale, ipotizzando la violazione delle norme sulle presunzioni.
9.2. Anche il terzo motivo non è fondato.
9.2.1. Assumono i ricorrenti che la Corte felsinea, partendo da un dato non certo o, meglio, determinato presuntivamente (ovvero, la consistenza in Lire 84.917.766 del patrimonio mobiliare di Me.Ig.), stimando in appena Euro 7.309,39 la quota ereditaria spettante a Me.Vi. , avrebbe operato una “praesumptio de praesumpto”.
Orbene, sul punto, va osservato – sulla scorta di una delle più autorevoli dottrine in materia – che, in realtà, il divieto della c.d. “doppia presunzione”, non ha base né normativa, né vieppiù dommatica.
Tale dottrina, infatti, in ragione della natura “inferenziale” del ragionamento presuntivo (e cioè muovendo dalla constatazione che esso “non è un risalire all’indietro ma un muovere dalla premessa, ossia dal fatto noto, “in avanti” verso la conclusione sul fatto ignorato”, che si pone, pertanto, “come ipotesi da verificare”, ovvero che “è prefigurato come possibile conclusione dell’inferenza in cui si articola il ragionamento presuntivo”), ha messo in discussione il principio secondo cui “praesumptio de presumpto non admittitur”. E ciò almeno “nella situazione in cui esiste una serie lineare di inferenze, ognuna delle quali configura, nella sua conclusione, la premessa dell’inferenza successiva”, poiché, in “questa situazione bisogna ragionare diversamente, considerando che in ogni singola inferenza il giudice deve stabilire, secondo i criteri di precisione e di gravità (…), se il fatto noto è in grado di attribuire – in base ad idonei criteri di inferenza – un grado adeguato di attendibilità al fatto ignorato”, sicché “se ciò accade, questo fatto cessa di essere “ignorato” e diventa “noto” in quanto la verità dell’enunciato che lo riguarda risulta confermata sulla base dell’inferenza presuntiva tratta da un altro fatto noto”. In altri termini, si sottolinea che se “questo ragionamento è efficace al fine di stabilire la verità del fatto ignorato quando questo è un fatto principale della causa, non vi è nessuna ragione per escludere che ciò accada anche quando il fatto prima ignorato è in realtà un fatto secondario”, sicché, qualora si giunga “a stabilire – anche per mezzo di presunzioni semplici – che un fatto secondario è vero, non vi è nessuna ragione per escludere che il relativo enunciato possa costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva, questa volta destinata a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale, oppure a confermare l’ipotesi relativa alla verità di un altro fatto secondario”.
Considerazioni analoghe, per vero, si ritrovano anche nella giurisprudenza di questa Corte (si veda Cass. Sez. 3, sent. 22 giugno 2020, n. 1218, non massimata), soprattutto della Sezione Tributaria. Essa, infatti, ha osservato come “il divieto di praesumptum de praesumpto (che limiterebbe l’impiego delle presunzioni semplici ai casi nei quali il fatto noto è dimostrato con prove diverse dalle presunzioni o è percepito direttamente dal giudice ed escludendo le presunzioni di secondo grado), sembra scontare un approccio più teso a limitare, in via generale, l’inferenza presuntiva che non a cogliere la logica che in ogni caso deve caratterizzare il ragionamento presuntivo”; difatti, qualora “la prova inferenziale sia caratterizzata da una serie “lineare” di inferenze, ove cioè per ogni singola inferenza il giudice apprezza, secondo i criteri di gravità, precisione e concordanza, che il fatto “noto” sia in grado di attribuire un adeguato grado di attendibilità al fatto “ignorato”, quest’ultimo – secondo logica – cessa di essere fatto “ignorato” divenendo un fatto “noto”, smontando così l’equivoco logico che si cela dietro il divieto di doppia presunzione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 5, ord. 7 dicembre 2020, n. 27982, Rv. 659820 – 01; nello stesso senso, tra le altre, già Cass. Sez. 5. , sent. 3 marzo 2020, n. 5798, in motivazione, Cass. Sez. 5, ord. 1° agosto 2019, n. 20748, Rv. 655040 – 01; Cass. Sez. 5, sent. 16 giugno 2017, n. 15003, Rv. 644693 – 01).
Nella specie, peraltro, neppure può propriamente parlarsi di una presunzione “di secondo grado”, giacché – a tutto voler concedere – il solo dato “presuntivo” è quello relativo alla consistenza del patrimonio mobiliare di Me.Ig. .
9.3. Il quarto motivo è anch’esso non fondato, sulla base delle stesse considerazioni svolte in relazione ai primi due motivi.
9.4. Il quinto motivo è, del pari, non fondato.
9.4.1. Invero, il parziale accoglimento dell’appello poteva, al più, costituire motivo di (discrezionale) compensazione parziale delle spese del grado, ma, di certo, non integra alcuna situazione di reciproca soccombenza.
Difatti, le Sezioni Unite di questa Corte hanno, di recente, chiarito – ponendo fine ad un contrasto di giurisprudenza – che “l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza”, tale evenienza essendo, invece, configurabile o “in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti, ovvero nell’ipotesi di parziale accoglimento di un’unica domanda articolata in più capi” (così Cass. Sez. Un. , sent. 31 ottobre 2022, n. 32061, Rv. 666063 – 01).
Più in generale, deve ribadirsi il principio secondo cui, in materia di compensazione delle spese, “il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. , è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa” (da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 17 aprile 2019, n. 10685, Rv. 653541 – 01), “per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, ord. 17 ottobre 2017, n. 24502, Rv. 646335 – 01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 4 agosto 2017, n. 19613, Rv. 645187-01), giusti motivi ” la cui insussistenza il giudice del merito non è tenuto a motivare” (Cass. Sez. 6 – 3, ord. 26 novembre 2020, n. 26912, Rv. 65992501).
9.5. Infine, il sesto motivo – diversamente dai precedenti – è fondato.
9.5.1. Il giudice di appello afferma, in motivazione, di voler liquidare le spese del secondo grado di giudizio “sulla base di parametri compresi tra i minimi e i medi previsti dal d.m. 55/14 come modificato dal d.m. 37/2018, per lo scaglione di riferimento (cause di valore indeterminabile di bassa complessità)”, tuttavia, “applicando per la fase decisoria i parametri minimi, considerata la ridotta attività difensiva svolta”. In dispositivo, però, esso ha liquidato, per compensi, complessivi Euro 8.599,50, dei quali Euro 2.548,00 per la fase di studio, Euro 1.755,00 per quella introduttiva e Euro 4.296,50 per quella decisionale. Per contro, i valori medi ammontavano a Euro 1.960,00 per la fase di studio ed Euro 1.350,00 per la fase introduttiva, mentre i valori minimi per la fase decisionale erano pari Euro 1.653,00, per un importo complessivo Euro 4.693,00. Sicché, tenendo conto della maggiorazione ex art. 4, comma 2, del d.m. n. 55 del 2014 (visto che le parti appellate, costituite, erano due) si giungeva all’importo di Euro 6.451,90.
Quanto, invece, alla mancata riduzione “fino al 50%”, essa costituiva espressione di una scelta discrezionale, come tale non censurabile in questa sede.
- Ne consegue, pertanto, che il presente ricorso va accolto solo quanto al suo sesto motivo, sicché la sentenza va cassata in relazione e, cioè, esclusivamente quanto alla liquidazione delle spese del grado di appello.
Sussistono, tuttavia, le condizioni perché questa Corte possa decidere nel merito, dovendo essa solo riliquidare le spese del giudizio di appello.
Le stesse vanno riconosciute a parte appellata, liquidandole in favore dell’Avv. Andrea Romano, dichiaratosi antistatario, nella misura, quanto ai compensi, di Euro 1.960,00 per la fase di studio, di Euro 1.350,00 per la fase introduttiva, e di Euro 1.653,00 per quella decisionale, per un importo complessivo Euro 4.693,00, sicché, tenendo conto della maggiorazione ex art. 4, comma 2, del d.m. n. 55 del 2014 (dato che le parti appellate, costituite, erano due) si giunge all’importo di Euro 6.451,90, ai quali vanno aggiunte le spese forfettarie e gli accessori di legge.
- Le spese del presente giudizio vanno compensate integralmente, in ragione del parziale accoglimento del ricorso.
PQM
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, rigettando lo stesso per il resto; per l’effetto, cassa in relazione la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, liquida le spese del giudizio di appello in favore di parte appellata in Euro 6.541,90 per compensi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge, liquidate in favore dell’Avv. Andrea Romano, dichiaratosi antistatario, compensando integralmente le spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di cassazione, svoltasi il 10 gennaio 2024.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2024.
PRESUNZIONI IN MATERIA CIVILE (PROVA INDIZIARIA) – In genere
Sentenza
Documenti correlati
Cassa e decide nel merito, CORTE D’APPELLO BOLOGNA, 17/09/2019
Presunzioni in materia civile (prova indiziaria) – — Divieto di cd. doppia presunzione – Sussistenza – Esclusione – Fondamento – Conseguenze.
Nel sistema processuale non esiste il divieto delle presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma, ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto; ne consegue che, qualora si giunga a stabilire, anche a mezzo di presunzioni semplici, che un fatto secondario è vero, ciò può costituire la premessa di un’ulteriore inferenza presuntiva, volta a confermare l’ipotesi che riguarda un fatto principale o la verità di un altro fatto secondario.