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in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l’offensività delle frasi che si assumono lesive dell’altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, P.G., P.C. in proc. Demofonti, Rv. 261284; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio e altro, Rv. 256706; Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv. 233749).
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n materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare la frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere, in primo luogo, a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato. (Cass., Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv. 233749; conf. Sez. 5 n. 41869 del 14.2.2013, Rv. 256706; Sez. 5 n. 48698 del 19/09/2014. Rv. 261484).
Ed è bene ricordare che, secondo l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, il bene giuridico tutelato dall’art. 595 cod.pen., è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (la reputazione intesa quale patrimonio di stima, di fiducia, di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera) di ciascuna persona; come è stato affermato, secondo quella che viene comunemente identificata come concezione fattuale dell’onore, ciò che è tutelato attraverso l’incriminazione in parola, è l’opinione sociale del ‘valore’ della persona offesa dal reato, distinguendosi la lesione della reputazione da quella dell’identità personale, che, secondo la definizione di autorevole dottrina, corrisponde al diritto dell’individuo alla rappresentazione della propria personalità agli altri senza alterazioni e travisamenti. Interesse che può essere violato anche attraverso rappresentazioni offensive dell’onore ma che, al di fuori di tale evenienza, non ha autonoma rilevanza penale, integrando la lesione esclusivamente un illecito civile. ( Sez. 5 n. 849 del 6/11/1992, dep. 1993, Rv. 193494). Pertanto, la condotta tipica consiste nell’ offesa alla reputazione, nel senso che è necessario che, attraverso la comunicazione, scritta o orale, le parole o il segno utilizzati siano oggettivamente idonei a ledere la reputazione del soggetto passivo. L’evento del reato di diffamazione è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno ( parola, scritto, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente, a incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino (tra le tante, Sez. 5 n. 5654 del 19/10/2012). Si tratta di evento, non fisico, ma, psicologico, consistente nella percezione sensoriale e intellettiva, da parte di terzi, dell’ espressione offensiva (Cass. Sez. 5 n. 47175 del 04/07/2013, Rv. 257704).
Quanto poi alla nozione di ‘critica’, quale espressione della libera manifestazione del pensiero, oramai ammessa senza dubbio dall’ elaborazione giurisprudenziale, e che viene in rilievo nella fattispecie scrutinata, essa rimanda non solo all’area dei rilievi problematici, ma, anche e soprattutto, a quella della disputa e della contrapposizione, oltre che della disapprovazione e del biasimo, anche con toni aspri e taglienti, non essendovi limiti astrattamente concepibili all’oggetto della libera manifestazione del pensiero, se non quelli specificamente indicati dal legislatore. I limiti sono rinvenibili, secondo le linee ermeneutiche tracciate dalla giurisprudenza e dalla dottrina, nella difesa dei diritti inviolabili, quale è quello previsto dall’art. 2 cost., onde non è consentito attribuire ad altri fatti non veri, venendo a mancare, in tale evenienza, la finalizzazione critica dell’espressione, né trasmodare nella invettiva gratuita, salvo che la offesa sia necessaria e funzionale alla costruzione del giudizio critico. ( Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866 Vesicchelli). A differenza della cronaca, del resoconto, della mera denunzia, la critica si concretizza nella manifestazione di un’opinione (di un giudizio valutativo). È vero che essa presuppone, in ogni caso, un fatto che è assunto a oggetto o a spunto del discorso critico, ma il giudizio valutativo, in quanto tale, è diverso dal fatto da cui trae spunto e, a differenza di questo, non può pretendersi che sia ‘obiettivo’ e neppure, in linea astratta, ‘vero’ o ‘falso’. La critica postula, insomma, fatti che la giustifichino e cioè, normalmente, un contenuto di veridicità limitato all’ oggettiva esistenza dei dati assunti a base delle opinioni e delle valutazioni espresse (Sez. 5, n. 13264 del 16/03/2005, non massimata; Sez. 5, n. 20474 del 14/02/2002, Rv. 221904; Sez. 5, n. 7499 del 14/02/2000, Rv. 216534), ma non può pretendersi che si esaurisca in essi. In altri termini, come rimarca la giurisprudenza CEDU, la libertà di esprimere giudizi critici, cioè ‘giudizi di valore’, trova il solo, ma invalicabile, limite nella esistenza di un ‘sufficiente riscontro fattuale’ (Corte EdU, sent. del 27.10.2005 caso Wirtshafts-Trend Zeitschriften-Verlags Gmbh c. Austria rie. n 58547/00, nonché sent. del 29.11.2005, caso Rodrigues c. Portogallo, ric. n 75088/01), ma, al fine di valutare la giustificazione di una dichiarazione contestata, è sempre necessario distinguere tra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, perché, se la materialità dei fatti può essere provata, l’esattezza dei secondi non sempre si presta ad essere dimostrata (Corte EDU, sent. del 1.7.1997 caso Oberschlick c/Austria par. 33).
In realtà, secondo il consolidato canone ermeneutico di questa Corte, occorre contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio – temporale e dialettico nel quale sono state profferite, e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere ( Sez. 5 n. 32027 del 23/03/2018, Rv. 273573). Così, si è ravvisato il requisito della continenza, in relazione a espressioni inquadrate in un ‘botta e risposta’ giornalistico, che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione ( Sez. 5 n. 4853 del 18/11/2016, Rv. 269093; Sez. 1 n. 36045 del 13/06/2014 Rv. 26112)
Il requisito della continenza delle espressioni attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con la parola o qualunque altro mezzo di diffusione, di rilevanza e tutela costituzionali ( ex art. 21 Cost.), postula una forma espositiva corretta della critica – e cioè astrattamente funzionale alla finalità di disapprovazione – e che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione. D’altro canto, esso non è incompatibile con l’uso di termini che, pure oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, per non esservi adeguati equivalenti.
Compito del giudice è, dunque, di verificare se il negativo giudizio di valore espresso possa essere, in qualche modo, giustificabile nell’ambito di un contesto critico, e funzionale all’argomentazione, così da escludere la invettiva personale volta ad aggredire personalmente il destinatario ( Sez. 5 n. 31669 del 14/04/2015, Rv. 264442), con espressioni inutilmente umilianti e gravemente infamanti ( Sez. 5 n. 15060 del 23/02/2011, Rv. 250174). Il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta può, dunque, essere valutato ai limitati fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può mai scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale (Sez. 5 n. 37397 del 24/06/2016, Rv. 267866 Vesicchelli). Si è così affermato, per esempio, che esula dai limiti del diritto di critica l’accostamento della persona offesa a cose o concetti ritenuti ripugnanti, osceni, o disgustosi, considerata la centralità che i diritti della persona hanno nell’ordinamento costituzionale (Sez. 5 n. 50187 del 10/05/2017, Rv. 27143).
E’ utile, altresì, ricordare che, secondo la giurisprudenza convenzionale, la libertà di dibattito di questioni di pubblico interesse è il cuore della democrazia, e rispetto ad essa il margine di apprezzamento degli Stati è ristretto, ( ex plurimis, Morice c. Francia [GC], n. 29369/10, § 125, CEDU 2015), vigendo, pertanto, un livello massimo di tutela, tanto che rispetto a essa la Corte Edu, per assicurare che tale dibattito si svolga il più liberamente possibile, ammette il ricorso ad affermazioni esagerate, provocatorie e persino smodate. La Corte Edu considera la libertà di espressione come <>, conferendole un riconoscimento assai ampio, e che applica non solo a informazioni o idee che sono accolte favorevolmente o considerate come inoffensive o neutre, ma anche a quelle che offendono, disturbano o creano shock. Inoltre, le eccezioni alle quali tale libertà è soggetta in base all’art. 10 par. 2 devono essere interpretate restrittivamente (Kaperzynski c. Polonia (43206/07), 3 aprile 2012, par. 54), sebbene l’espansione potenzialmente illimitata della libertà di espressione incontri un limite nel divieto di abuso dei diritti (art. 17 CEDU).Tra le varie modalità di manifestazione della libertà di espressione individuate dalla Corte sovranazionale, e soggette ciascuna a una specifica tutela, viene in rilievo, per quanto qui rileva, la libertà di opinione, che non è un diritto a diffondere informazioni, ma ad esprimere opinioni e a trasmettere idee (art. 10 par. 1), concetto che è alla base della distinzione fra dichiarazioni di fatto e giudizi di valore, e che implica il divieto, per il legislatore nazionale, di richiedere la prova della verità per le affermazioni che consistono in meri giudizi di valore, pur richiedendosi, comunque, che non siano del tutto svincolati da qualsiasi base fattuale.
DEFINIZIONE DI DIFFAMAZIONE: DATA DAL CODICE PENALE :
Diffamazione.
- Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito [c.p. 598] con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032 (1) (2).
- Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065 (3) (4).
- Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico [c.c. 2699] (5), la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516 (6).
- Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate [c.p. 29, 64] (7) (8).
Cosa tutela la norma:
Oggetto della tutela penale del delitto di diffamazione è l’interesse dello Stato all’integrità morale della persona: il bene giuridico è dato dalla reputazione dell’uomo, dalla stima diffusa nell’ambiente sociale, dall’opinione che gli altri hanno del suo onore e decoro.
Per quanto riguarda il soggetto passivo del delitto di diffamazione, analogamente a quanto già detto in materia di ingiuria, ci possiamo chiedere se possano rientrare all’interno di tale categoria gli infermi di mente ed i minori, posto che tali soggetti non sarebbero in grado di sentire l’offesa come tale, non potendo, di conseguenza, subire alcuna diminuzione della loro reputazione.
La reputazione non risiede in uno stato o un sentimento individuale, indipendente dal mondo esteriore: la reputazione è il senso della dignità personale nell’origine degli altri, un sentimento limitato dall’idea di ciò che, per la comune opinione, è socialmente esigibile da tutti in un dato momento storico4.»
- ribadito che ai fini della integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa (Sez. 5, n. 7410 del 20/12/2010, rv. 249601), i giudici di secondo grado non hanno adeguatamente indicato le ragioni logico-giuridiche per quali il limitato il numero delle persone in grado di identificare il soggetto passivo della frase a contenuto diffamatorio determini l’esclusione della prova della volontà del S. di comunicare con più persone in grado di individuare il soggetto interessato.Ed invero, il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due. Ed ai fini di detta valutazione non può non tenersi conto dell’utilizzazione del social network – come, del resto la stessa Corte di appello ha evidenziato – a nulla rilevando che non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla Guardia di finanza, né la circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona.
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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I PENALE
Sentenza 12 febbraio – 8 giugno 2015, n. 24431
(Presidente Chieffi – Relatore Bonito)
La Corte, ritenuto in fatto e considerato in diritto
- Il 18 luglio 2013 il Giudice di pace di Roma, chiamato a giudicare una fattispecie diffamatoria, dichiarava la sua incompetenza per materia a decidere in ordine al reato di cui all’art. 595 c.p., co. 3, precisando che, ancorchè non contestata, quella al suo esame integrava fattispecie aggravata ai sensi del terzo comma della norma incriminatrice.
Il Tribunale di Roma, monocraticamente composto, non ritenendo configurabile l’aggravante viceversa considerata dal giudice di pace sul rilievo che postare un commento sulla bacheca facebook della p.o. non implica pubblicazione né diffusione del relativo contenuto offensivo, possibile soltanto se non attivati, dalla stessa p.o., meccanismi di protezione della privacy, declinava anch’esso la propria competenza a giudicare della fattispecie dedotta in favore del Giudice di pace di Roma e rimetteva pertanto gli atti alla Corte di Cassazione per la risoluzione del conflitto.
Con memoria ritualmente depositata la difesa di ufficio dell’imputato sosteneva la competenza del Giudice di pace ripercorrendo le ragioni già articolate dal tribunale.
- Il conflitto sussiste, in quanto due giudici ordinari, contemporaneamente, ricusano di giudicare in ordine alla medesima vicenda giurisdizionale, dando così luogo a quella situazione di stallo processuale prevista dall’art. 28 c.p.p., la cui risoluzione è demandata a questa Corte dalla norme successive.
Tanto premesso ritiene il Collegio che competente a conoscere del fatto dedotto in giudizio è il Tribunale di Roma, in composizione monocratica.
A siffatte conclusioni la Corte perviene richiamando, innanzitutto, la lezione di legittimità secondo cui i reati di ingiurie e diffamazione possono essere commessi a mezzo di internet, (cfr. a partire dalla fondamentale ed esaustiva Cass., Sez. 5, 17 novembre 2000, n. 4741 e poi 4 aprile 2008 n. 16262, 16 luglio 2010 n. 35511 e, da ultimo, 28 ottobre 2011 n. 44126) e che tale ipotesi integran l’ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice (cfr. altresì sul punto, Cass., Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012, Rv. 254044).
E’ pur vero che la fattispecie dedotta si appalesa sotto più profili diversa da quelle delibate dalla Corte con i citati arresti, giacchè diverso l’utilizzo di internet, di cui si è occupato il giudice di legittimità, da quello relativo ad una bacheca facebook, ma v’è tra esse, e non solo perché in entrambi i casi v’è l’applicazione di risorse informatiche, un decisivo fondamento comune.
Ed infatti, il reato tipizzato al terzo comma dell’art. 595 c.p.p. quale ipotesi aggravata del delitto di diffamazione trova il suo fondamento nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorchè non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa. D’altra parte lo strumento principe della fattispecie criminosa in esame è quello della stampa, al quale il codificatore ha giustapposto “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, giacchè anche in questo caso, per definizione, si determina una diffusione dell’offesa ed in tale tipologia, quella appunto del mezzo di pubblicità, ha fatto rientrare la lezione ermeneutica della corte, ad esempio, un pubblico comizio (Sez. 5, n. 9384 del 28/05/1998, Forzano, Rv. 211471) ovvero (Sez. 5, 6/4/11, n. 29221, rv. 250459) l’utilizzo, al fine di inviare un messaggio, della posta elettronica secondo le modalità del “farward” e cioè verso una pluralità di destinatari. Detti arresti risultano infatti argomentati con il rilievo che, sia un comizio che la posta elettronica, vanno considerati mezzi di pubblicità, giacchè idonei a provocare una ampia e indiscriminata diffusione della notizia
tra un numero indeterminato di persone.
Tornando ora , come di necessità, alla fattispecie dedotta, osserva il Collegio che anche la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.
Identificata nei termini detti, la condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza, pertanto, la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone comunque apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dal terzo comma dell’art. 595 c.p.p.
Appare inoltre opportuno sottolineare, ai fini della risoluzione del proposto conflitto, che, come da insegnamento di Cass, Sez. 1, Sentenza n.18888 del 26/04/2007, Rv. 237368, il conflitto di competenza, quando vi è incertezza sul titolo del reato o sulla sussistenza di circostanze aggravanti, deve essere risolto con la dichiarazione di competenza del giudice superiore, il quale é in grado di decidere definitivamente sulla esatta qualificazione giuridica del fatto, in base a ulteriori elementi acquisiti, pronunciandosi anche sul reato meno grave.
P.Q.M.
la Corte dichiara la competenza del Tribunale di Roma, cui dispone trasmettersi gli atti.