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Caparra confirmatoria liquidazione convenzionale anticipata del danno
Caparra confirmatoria liquidazione convenzionale anticipata del danno
In tema di caparra confirmatoria, il principio di cui al comma 2 dell’art. 1385 c.c. (in virtù del quale la parte non inadempiente ha facoltà di recedere dal contratto ritenendo la caparra ricevuta od esigendone il doppio rispetto a quella versata) non è applicabile tutte le volte in cui la parte non inadempiente, anziché recedere dal contratto, si avvalga del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, perdendo, in tal caso, la funzione di liquidazione convenzionale anticipata del danno; tuttavia, deve affermarsi (cfr, ad es., Cass. n. 11356 del 2006) che, qualora, anziché recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio,
la restituzione della caparra
la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacché in tale ipotesi essa perde la suindicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 ss. c.c., salvo che non ne sia stata convenzionalmente predeterminata la misura sotto forma di clausola penale.
In tal senso, occorre richiamare il costante orientamento di questa Corte per il quale (Cass. 4 novembre 2010 n. 22464) la possibilità di eccepire, nel legittimo esercizio del potere di autotutela che l’art. 1460 comma 1 c.c. espressamente attribuisce a ciascuno dei contraenti nei contratti a prestazioni corrispettive, al fine di paralizzare la pretesa avversaria chiedendone il rigetto, l’inadempimento o l’imperfetto adempimento dell’obbligazione assunta da controparte, trova un limite nella ipotesi in cui siano stabiliti termini diversi per l’adempimento in relazione ai diversi contraenti (nello stesso senso Cass. 24 settembre 2009 n. 20614; Cass. 16 luglio 2004 n. 13271; Cass. 26 maggio 2003 n. 8314; Cass. 14 ottobre 1970 n. 2026).
Qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (in questo caso per la risoluzione per inadempimento) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello
(come previsto dall’art. 345 c.p.c. anche nel regime anteriore alla riforma del 1990), quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra, avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento; infatti la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative (Cass. S.U. 14/1/2009 n. 553; Cass. 23/2/2012 n. 2737).
In passato alcune sentenze di questa Corte avevano escluso che la domanda di recesso in appello fosse domanda nuova, affermando che la parte adempiente che avesse agito per l’esecuzione o la risoluzione del contratto e per la condanna al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1453 cod. civ., poteva, in sostituzione di dette pretese, chiedere anche in appello il recesso dal contratto a norma dell’art. 1385, secondo comma, cod. civ., non costituendo tale richiesta una domanda nuova, bensì configurando, rispetto alla domanda di adempimento o di risoluzione, l’esercizio di una perdurante facoltà e solo un’istanza ridotta con riguardo alla proposta risoluzione, nello stesso ambito risarcitorio, in relazione all’inadempimento dell’altra parte (cfr. Cass. 849/2002).
Tuttavia tale orientamento, contraddetto da altra giurisprudenza (cfr. Cass. 2/12/2005 n. 26232) è stato poi definitivamente superato dalla richiamata sentenza delle SS.UU.,seguita da altre conformi.
Le S.U. al riguardo si sono così espresse: ‘ In tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative ‘(Cass. Sez. U, n. 553 del 14/01/2009). Alla luce di queste considerazioni, non v’è dubbio che la M. non poteva chiedere la risoluzione del contratto per poi trasformarla, all’occorrenza, in domanda di recesso (nel caso in cui i pretesi danni fossero stati inferiori al doppio della caparra), senza incorrere, così facendo, in una forma di abuso processuale che proprio l’art. 1385 c.c. mira a prevenire, in relazione alla particolare natura della caparra come sopra evidenziata.
delle Sezioni Unite di questa Corte che con la sentenza n.553/2009 , componendo un contrasto insorto sul punto, ha affermato che
ha affermato che : i rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall’altro, si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra perché verrebbe così a vanificarsi la stessa funzione della caparra, quella cioè di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale dei danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, consentendosi inammissibilmente alla parte non inadempiente di ‘scommettere’ puramente e semplicemente sul processo, senza rischi di sorta;
l’azione di risoluzione avente natura costitutiva e l’azione di recesso si caratterizzano per evidenti disomogeneità morfologiche e funzionali che rendono inammissibile la trasformazione dell’una nell’altra ;
i rapporti tra l’azione di risarcimento integrale e l’azione di recesso, isolatamente e astrattamente considerate, sono, a loro volta, di incompatibilità strutturale e funzionale;
la parte, in sostituzione della domanda adempimento o di risoluzione contrattuale per inadempimento con domanda di risarcimento del danno, può legittimamente invocare (senza incorrere nelle preclusioni derivanti dalla proposizione dei ‘nova’ in sede di gravame) la facoltà di cui all’art. 1385 c.c., comma 2
i principi espressi dalla sentenza delle sezioni unite dei 2009,non condividendo quanto affermato nella isolata ordinanza di questa Corte n. 24.841 del 2011 dove si afferma che la parte, in sostituzione della domanda adempimento o di risoluzione contrattuale per inadempimento con domanda di risarcimento del danno, può legittimamente invocare (senza incorrere nelle preclusioni derivanti dalla proposizione dei ‘nova’ in sede di gravame) la facoltà di cui all’art. 1385 c.c., comma 2, poiché tale modificazione delle istanze originarie costituisce legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda di adempimento, ed un’istanza di ampiezza più ridotta rispetto all’azione di risoluzione (Cass. Sez. 2, 11-1-1999 n. 186; Sez. 2, 23-9-1994 n. 7644).
Tale decisione si fonda su una giurisprudenza di legittimità risalente nel tempo e dei tutto superata dalla decisione delle sezioni unite del 2009 da cui detta ordinanza si discosta senza contrastarne la motivazione con alcun argomento convincente e senza tenere conto dell’ulteriore rilievo che chi ammette una fungibilità tra le azioni lato sensu risarcitorie ignora che ciò si risolverebbe nella indiscriminata e gratuita opportunità di modificare, per ragioni di mera convenienza economica, la strategia processuale iniziale dopo averne sperimentato gli esiti ‘; dall’altro ancora, soltanto l’esclusione di una inestinguibile fungibilità tra rimedi consente di evitare situazioni di abuso e rende il contraente non inadempiente doverosamente responsabile delle scelte operate, impedendogli di sottrarsi ai risultati che ne conseguono, quando gli stessi non siano corrispondenti alle aspettative che ne hanno dettato la linea difensiva.[wpforms id=”21592″]