RISARCIMENTO DANNI AL PEDONE BOLOGNA RAVENNA FORLI CESENA

 IL  PEDONE DAI VEICOLI PRENDE  UN ENORME “COLPO” CHE SPESSO SI TRADUCE IN LESIONI GRAVI O MORTALI 

AVVOCATO ESPERTO DANNI AL PEDONE BOLOGNA RAVENNA FORLI CESENA

Pedone Investito in un Incidente Stradale

chiama subito 3358174816

 

In virtù del principio di unitarietà e onnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, deve escludersi che al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito di un terzo possano essere liquidati sia il danno da perdita del rapporto parentale che il danno esistenziale, poiché il primo già comprende lo sconvolgimento dell’esistenza, che ne costituisce una componente intrinseca.

TABELLE DI MILANO

“Tabelle” predisposte dal Tribunale di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del predetto danno ovvero quale criterio di riscontro e verifica della liquidazione diversa alla quale si sia pervenuti. Ne consegue l’incongruità della motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri tratti dalle “Tabelle” di Milano consenta di pervenire. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza della Corte territoriale che aveva ritenuto congruo l’importo liquidato dal giudice di primo grado, a titolo di risarcimento del danno biologico, in forza di una non motivata applicazione di una tabella diversa da quella predisposta dal tribunale di Milano, peraltro con riferimento a parametri non aggiornati alla data della decisione).

Ti assisto io e ci metto tutto l’impegno  in tutta Italia L’avvocato Sergio Armaroli patrocinante in cassazione esperto  a livello nazionale in gravi casi malasanita’ segue personalmente i propri clienti danneggiati da MALASANITÀ
Ti assisto io e ci metto tutto l’impegno  in tutta Italia
L’avvocato Sergio Armaroli patrocinante in cassazione esperto  a livello nazionale in gravi casi malasanita’ segue personalmente i propri clienti danneggiati da MALASANITÀ

plurime voci di danno non patrimoniale possono essere risarcite?

si, purché allegate e provate nella loro specificità, purché si pervenga ad una ragionevole mediazione tra l’esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all’integrità psico-fisica della persona con tratti unitari suscettibili di essere globalmente considerati, e quella di valutare l’incidenza dell’atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del danneggiato. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza d’appello, la quale, nel riformare “in parte qua” la decisione di primo grado, che aveva riconosciuto il risarcimento per “danno esistenziale”, si era limitata ad escludere in via generale la risarcibilità di tale categoria di danno, anziché analizzare gli specifici pregiudizi che si era inteso riassumere nella predetta espressione voce sintetica e rappresentativa).

Nella liquidazione del danno non patrimoniale, in difetto di diverse previsioni normative e salvo che ricorrano circostanze affatto peculiari, devono trovare applicazione i parametri tabellari elaborati presso il Tribunale di Milano successivamente all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, in quanto determinano il valore finale del punto utile al calcolo del danno biologico da invalidità permanente tenendo conto di tutte le componenti non patrimoniali, compresa quella già qualificata in termini di “danno morale” la quale, nei sistemi tabellari precedenti veniva invece liquidata separatamente, mentre nella versione tabellare successiva all’anno 2011 viene inclusa nel punto base, così da operare non sulla percentuale di invalidità, bensì con aumento equitativo della corrispondente quantificazione. Tuttavia il giudice, in presenza di specifiche circostanze di fatto, che valgano a superare le conseguenze ordinarie già previste e compensate nella liquidazione forfettaria assicurata dalle previsioni tabellari, può procedere alla personalizzazione del danno entro le percentuali massime di aumento previste nelle stesse tabelle, dando adeguatamente conto nella motivazione della sussistenza di peculiari ragioni di apprezzamento meritevoli di tradursi in una differente (più ricca, e dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari.

La lesione di un diritto inviolabile come la salute:

non determina, neanche quando il fatto illecito integri gli estremi di un reato, la sussistenza di un danno non patrimoniale “in re ipsa”, essendo comunque necessario che la vittima abbia effettivamente patito un pregiudizio, il quale va allegato e provato, anche attraverso presunzioni semplici. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza con la quale il giudice di merito aveva riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale ad una minore che aveva ricevuto indicazioni dietetiche ed assunto un farmaco omeopatico da un soggetto privo del titolo abilitativo all’esercizio della professione medica, senza, tuttavia, indicare l’elemento indiziario utilizzato ai fini della prova presuntiva della sua sofferenza morale).

In tema di risarcimento del danno da perdita della vita del convivente, ai fini dell’accertamento dell’esistenza della convivenza “more uxorio” – intesa quale legame affettivo stabile e duraturo in virtù del quale siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale – i requisiti della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi devono essere ricavati dal complesso degli indizi da valutarsi non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri, nel senso che ognuno, quand’anche singolarmente sfornito di valenza indiziaria, potrebbe rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento. (Nella specie, la S.C. ha censurato la sentenza con la quale la corte territoriale, in ragione della ritenuta assenza di coabitazione, si era limitata a negare valore indiziario, all’esito di una loro mera valutazione atomistica, ad altri elementi acquisiti in giudizio, tra i quali l’esistenza di un comune conto corrente e la disponibilità in capo ad uno dei conviventi dell’agenda lavorativa dell’altro).

RISARCIMENTO DI DIPENDENTE MORTO SUL LAVORO DANNO AI PARENTI

la prova del danno non patrimoniale da sofferenza interiore per la perdita del familiare può essere fornita mediante presunzione fondata sull’esistenza dello stretto legame di parentela riconducibile all’interno della famiglia nucleare, superabile dalla prova contraria, gravante sul danneggiante, imperniata non sulla mera mancanza di convivenza (che, in tali casi, può rilevare al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione), bensì sull’assenza di legame affettivo tra i superstiti e la vittima nonostante il rapporto di parentela.

Il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale, non può essere considerato “in re ipsa”, ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.

In tema di danno non patrimoniale da lesione della salute,

il danno biologico, rappresentato dall’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, è pregiudizio ontologicamente diverso dal cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute; esso, ordinariamente liquidato con il metodo c.d. tabellare in relazione a un “barème” medico legale che esprime in misura percentuale la sintesi di tutte le conseguenze ordinarie che una determinata menomazione presumibilmente riverbera sullo svolgimento delle attività comuni ad ogni persona, può essere incrementato in via di “personalizzazione” in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali, tempestivamente allegate e provate dal danneggiato, le quali rendano il danno subito più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti da lesioni personali dello stesso grado sofferte da persone della stessa età e condizione di salute.

In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, nel periodo di tempo interposto tra la lesione e la morte ricorre il danno biologico terminale, cioè il danno biologico “stricto sensu” (ovvero danno al bene “salute”), al quale, nell’unitarietà del “genus” del danno non patrimoniale, può aggiungersi un danno morale peculiare improntato alla fattispecie (“danno morale terminale”), ovvero il danno da percezione, concretizzabile sia nella sofferenza fisica derivante dalle lesioni, sia nella sofferenza psicologica (agonia) derivante dall’avvertita imminenza dell'”exitus”, se nel tempo che si dispiega tra la lesione ed il decesso la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”, in quanto in grado di percepire la sua situazione ed in particolare l’imminenza della morte, essendo quindi irrilevante, a fini risarcitori, il lasso di tempo intercorso tra la lesione personale ed il decesso nel caso in cui la persona sia rimasta “manifestamente lucida”. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che aveva escluso il diritto al risarcimento del danno, e, quindi, la conseguente trasmissibilità “iure hereditatis”, rappresentato dall’agonia, sia sotto il profilo strettamente biologico che sotto quello psicologico-morale, nonostante la lucidità del soggetto, peraltro medico, manifestata dalla descrizione da parte sua della dinamica del sinistro ai sanitari del pronto soccorso).

natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale

deve essere interpretata nel senso che esso può riferirsi a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica,con conseguente obbligo, per il giudice di merito, di tenere conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze “in peius” derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, e con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici; ne deriva che, a fini liquidatori, si deve procedere ad una compiuta istruttoria finalizzata all’accertamento concreto e non astratto del danno, dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, valutando distintamente, in sede di quantificazione del danno non patrimoniale alla salute, le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera interiore (c.d. danno morale, “sub specie” del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione) rispetto agli effetti incidenti sul piano dinamico-relazionale (che si dipanano nell’ambito delle relazioni di vita esterne), autonomamente risarcibili.

La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, determinata dal colpevole ritardo diagnostico di una patologia ad esito certamente infausto, non coincide con la perdita di “chances” connesse allo svolgimento di specifiche scelte di vita non potute compiere, ma con la lesione di un bene di per sé autonomamente apprezzabile sul piano sostanziale, tale da non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa.

L’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che la vittima ed il superstite non convivessero, né che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del “quantum debeatur”). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra foro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo

Il danno non patrimoniale, con particolare riferimento a quello cd. esistenziale,

asseritamente provocato dall’illegittima approvazione da parte di un Comune della graduatoria per la copertura di un posto di medico di base, non può essere considerato “in re ipsa” ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., dovendo consistere nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione della personalità e nello sconvolgimento dell’esistenza del soggetto. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico.

Non comporta violazione dei parametri di valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. la liquidazione del danno non patrimoniale (nella specie da perdita parentale) operata con riferimento a tabelle diverse da quelle elaborate dal Tribunale di Milano, qualora al danneggiato sia riconosciuto un importo corrispondente a quello risultante da queste ultime, restando irrilevante la mancanza di una loro diretta e formale applicazione.

Il danno non patrimoniale da uccisione di un congiunto

 quale tipico danno-conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (ovvero non è in “re ipsa”) e, pertanto, deve essere allegato e provato da chi chiede il relativo risarcimento, anche se, trattandosi di un pregiudizio proiettato nel futuro, è consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base di elementi obbiettivi che è onere del danneggiato fornire, mentre la sua liquidazione avviene in base a valutazione equitativa che tenga conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza utile, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti ed ogni altra circostanza allegata.

risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti

il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo “in pejus” con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti.

danno non patrimoniale da lesione della salute

costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, atteso che quest’ultimo consiste proprio nel “vulnus” arrecato a tutti gli aspetti dinamico-relazionali della persona conseguenti alla lesione della salute, mentre una differente ed autonoma valutazione deve essere compiuta, invece, con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (c.d. danno morale), come confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138, comma 2, lettera e) del D.L.vo n. 209 del 2005, nel testo modificato dalla l. n. 124 del 2017.

La liquidazione unitaria del danno non patrimoniale (come quella prevista per il danno patrimoniale)

deve essere intesa nel senso di attribuire al soggetto danneggiato una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una ipotetica simmetria legislativa, il danno emergente, in guisa di “vulnus” “interno” al patrimonio del creditore), quanto sotto il profilo dell’alterazione o modificazione peggiorativa della vita di relazione, considerata in ogni sua forma ed in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (danno idealmente omogeneo al cd. “lucro cessante”, quale proiezione “esterna” del patrimonio del soggetto); ne deriva che, non diversamente da quanto avviene in caso di lesione della salute con riferimento al c.d. danno biologico, ogni altro “vulnus” arrecato ad un valore od interesse costituzionalmente tutelato deve essere valutato e accertato, all’esito di compiuta istruttoria ed in assenza di qualsiasi automatismo, sotto il duplice aspetto, della sofferenza morale e della privazione, diminuzione o modificazione delle attività dinamico-relazionali precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato.



La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, come predicata dalle sezioni unite della S.C., deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

AVVOCATO ESPERTO DANNI AL PEDONE BOLOGNA RAVENNA FORLI CESENA

Pedone Investito in un Incidente Stradale

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Risarcimento pedone investito: anche per i familiari

Vi sono casi che oltre al danno al pedone per la gravita’ dellelesioni  sussistono anche ulteriori e altrettanto gravi tipologie di danno come il danno riflesso provocato a uno o più familiari che in seguito alle gravi patologie riportate dal proprio caro sono costretti a cambiare il proprio stile di vita per potergli stare vicino e accudirlo.

Il conducente del veicolo, nella quasi totalità dei casi di investimento di un pedone, è considerato l’unico responsabile del sinistro e condannato al risarcimento di tutti i danni patiti dalla vittima.

Quando si investe qualcuno che cammina, sia che lo si faccia alla guida dell’auto, della moto o della bici, si è sempre responsabili a meno che non si riesca a dimostrare la colpa del pedone.

Questo, da un lato, significa che il pedone non ha sempre ragione. Tuttavia, dimostrare la colpa del pedone è tutt’altro che facile.

La regola è che, in caso di investimento del pedone, grava su chi guida una presunzione di responsabilità.

Nel caso, invece, in cui il comportamento del pedone sia stato «imprevedibile» e «anomalo» è possibile provare il concorso di colpa o addirittura la responsabilità esclusiva di quest’ultimo.

Secondo quanto stabilito dall’articolo 2054 del codice civile, il conducente di un veicolo è obbligato a risarcire tutti i danni causati a cose e persone dalla sua circolazione, a meno che riesca a dimostrare di aver fatto di tutto per evitare il sinistro.

Una cosa è certa, investire un pedone mentre sta attraversando sulle strisce pedonali, non lascia alcun dubbio nel considerare il conducente del veicolo come pieno responsabile del sinistro al 100%.

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Pedone Investito in un Incidente Stradale

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Pedone investito: risarcimento danni

Per capire come si arriva al risarcimento per l’investimento di un pedone è necessario aver ben presenti quelli che sono, da una parte, gli obblighi di comportamento del pedone stesso (sia sulle strisce pedonali che fuori da esse), dall’altra i doveri invece che incombono sui conducenti.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE – SENTENZA 25 luglio 2019, n.33789 – 

SENTENZA sul ricorso proposto da: AZNAG HABIB nato il 03/06/1986 avverso la sentenza del 08/05/2018 della CORTE APPELLO di FIRENZE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MARIAROSARIA BRUNO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore SIMONE PERELLI che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. E’ presente l’avvocato BRACHI LUCA del foro di PRATO in difesa delle parti civili GIANDOMENICO PIO RAVIDA’ e CAROLINA CONVERSANO genitori del deceduto GIANCARLO RAVIDA’, MARIA GIOVANNA RAVIDA’, MARIA TERESA DE CARO, VITO CONVERSANO, MARIELLA FILOMENA tutti prossimi congiunti, per le quali deposita conclusioni scritte unitamente alla nota spese alle quali si riporta, chiedendo la conferma della sentenza impùgnata. E’ presente l’avvocato PUGI LEONARDO del foro di PRATO in difesa di AZNAG HABIB, che insiste per l’accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Firenze, con sentenza emessa in data 8/5/2018, ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale di Prato, appellata da Haznag Hablb, con la quale costui era stato condannato alla pena di anni 2 e mesi 2 di reclusione per il reato di omicidio colposo ai danni di Ravidà Giancarlo Domenico Pio (occorso in Prato il 3/1/2015), commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale e per il reato di cui all’art. 189, comma 6, cod. strada. Si contestava all’imputato di avere, per colpa generica, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia e per colpa specifica, consitita nella violazione delle norme che disciplinano la circolazione stradale, in particolare, dell’art. 143 cod. strada, che impone di mantenere strettamente la destra, pii-ve – cagionato la morte del predetto Ravidà ( che procedeva all’attraversamento della strada e che decedeva poco dopo l’impatto. Si contestava altresì di non essersi fermato dopo l’incidente e di non avere prestato soccorso alla vittima. I Giudici di merito ritenevano dimostrata la responsabilità del ricorrente in ordine ai reato di omicidio colposo, come contestato ed in ordine al reato di cui all’art. 189, comma 6, cod. strada, escludendo la sua responsabilità in ordine al reato di cui all’art. 189 comma 7 cod. strada. 3. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per Cassazione l’imputato, a mezzo kdifensore, che ha articolato i seguenti motivi di doglianza (in sintesi/ giusta il disposto di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.). Nel primo motivo lamenta vizio di motivazione, prospettando l’esistenza di molteplici contraddizioni nel ragionamento seguito dai Giudici di merito nella sentenza impugnata. Evidenzia che la Corte di merito ha ritenuto che il pedone abbia attraversato la strada in condizioni dì sicurezza. In realtà, osserva la difesa, la stessa Corte ammette in altra parte della motivazione, che il pedone non aveva adoperato nell’attraversamento le strisce pedonali e che aveva attraversato in diagonale, mentre parlava al cellulare. Tale comportamento, assunto in violazione dell’art. 190, comma 2, cod. strada, che obbliga i pedoni a servirsi degli attraversamenti pedonali, avrebbe dovuto indurre i Giudici dì merito a valutare un concorso di colpa della vittima nella determinazione dell’incidente occorso. Nel secondo motivo, deduce carenza di motivazione in relazione alle risultanze del processo specificamente indicate nei motivi di gravame. La Corte di merito non avrebbe indicato le ragioni per le quali aveva disatteso le conclusioni dei consulenti di parte e del perito, i quali avevano accertato una colpa del pedone nella causazione del sinistro. Il perito, nel suo elaborat9 faceva notare che il pedone era assorto nella telefonata, che non aveva girato la testa per rendersi conto del traffico, che l’auto viaggiava comunque entro la linea di mezzeria e che la posizione di marcia non strettamente accostata a destra era necessitata dalla presenza dei veicoli parcheggiati lungo la via. Nel terzo motivo, deduce vizio di motivazione anche con riferimento al reato di fuga. Con motivazione contraddittoria, afferma la difesa, la Corte d’appello pur riconoscendo che l’imputato era rimasto per lungo tempo sul luogo dell’incidente, lo ha egualmente ritenuto responsabile del reato perché non aveva immediatamente ammesso di essere stato l’autore del fatto. Rimarca la difesa che, al fine di non incorrere nel reato di fuga, non è richiesto che il soggetto agente si autodenunci. Nel quarto motivo, infine, si duole del mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I motivi di ricorso proposti impongono le seguenti considerazioni. 2. Il primo motivo di doglianza è infondato e deve essere rigettato. La Corte territoriale ha ritenuto di escludere il concorso di colpa della vittima nella causazione dell’incidente con motivazione del tutto logica ed immune da censure. La difesa, dal canto suo, contesta l’affermazione dei giudici di merito attraverso una frammentaria ricostruzione del discorso giustificativo, complessivamente inteso, enucleando dalla sentenza solo taluni passaggi motivazionali. In proposito, i Giudici di merito hanno ritenuto provato che il tratto di strada teatro dell’incidente mortale, presentasse una visuale molto ampia e completamente libera. Hanno evidenziato inoltre che le condizioni dell’asfalto e della illuminazione erano buone. Ripercorrendo in maniera dettagliata le fasi dell’incidente, sulla base delle risultanze illustrate in sentenza, hanno sottolineato che il pedone era perfettamente visibile al centro della carreggiata e che il ricorrente ha frenato quando era ormai troppo vicino alla vittima. Date le condizioni della strada, emerse oggettivamente dai fotogrammi estratti dalle videoriprese e la posizione del pedone sulla strada, hanno ritenuto che l’imputato conducesse il veicolo in modo distratto: l’avvistamento della vittima è stato ritenuto perfettamente esigibile da parte dell’agente / il quale, ove si fosse accorto della presenza dell’uomo, avrebbe avuto la possibilità dì adeguare la propria andatura al fine di evitare l’impatto. L’evento, quindi, era prevenibile ed evitabile, oggettivamente e soggettivamente imputabile al ricorrente che, pur avendo la possibilità di avvistare tempestivamente il pedone (come aveva già fatto altra vettura), avrebbe potuto agevolmente rallentare o evitare l’impatto con una manovra di fortuna. La esclusione di un concorso di colpa della vittima t è stata argomentata in maniera logica: sebbene il pedone non avesse usufruito delle vicine strisce pedonali, aveva attraversato in condizioni di sicurezza, in considerazione delle condizioni del luogo. Quanto poi alla distrazione evidenziata dalla difesa, la Corte di merito ha notato che il pedone non era completamente assorto nella conversazione, essendo istintivamente arretrato alla vista della vettura, pur senza riuscire a sottrarsi all’investimento. 3. Fondate sono invece le doglianze che riguardano l’affermazione di responsabilità pronunciata per il reato di cui all’art. 189, comma 6, cod. strada. La Corte di merito ha sostenuto che la mera presenza fisica dell’Aznag, sul luogo dell’accaduto, in incognito, deve essere valutata alla stregua di un suo ‘immediato allontanamento, atteso che in alcun modo l’imputato ha reso possibile la sua identificazione quale autore del sinistro e la ricostruzione del medesimo’.

 

Ebbene, non appare corretta la equiparazione del comportamento serbato dal ricorrente con l’allontanamento dal luogo del sinistro, operato dalla Corte di merito, senza ulteriore spiegazione se non quella della mancata cooperazione con le Forze di polizia. Risulta, dalla lettura della sentenza, che l’Haznag, subito dopo l’investimento, sceso dalla vettura, sia rimasto presente sul luogo del fatto durante gli accertamenti di Polizia e le operazioni di soccorso. Una interpretazione rigorosa della norma di cui all’art. 189, comma 6, cod. strada, esclude che il soggetto agente, in caso di incidente, sia obbligato ad assumere un ruolo attivo in occasione dell’intervento delle Forze di polizia, essendo sufficiente, come avvenuto nel caso in esame, che egli si ponga a dispozione dell’Autorità, alla quale spetta il compito di intraprendere gli opportuni accertamenti sul posto. La norma, infatti non richiede l’ulteriore attività della cooperazione, perfezionandosi il reato con l’allontanamento dal luogo del sinistro. Il precedente citato a questo proposito in sentenza (Sez. 4, n. 42308 del 07/06/2017, Rv. 270885 – 01) risulta non conferente, riferendosi al caso di un soggetto che aveva sostato solo momentaneamente sul luogo dell’incidente, peraltro sollecitato da altra persona presente che, avendo assistito all’investimento di due pedoni, aveva impedito al soggetto agente di proseguire. Deve pertanto pervenirsi all’assoluzione dell’imputato in ordine al delitto di cui all’art. 189, comma 7, perché il fatto non sussiste. 4. Corretta è la decisione riguardante il diniego dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen. Sul punto, va rilevato che, per la configurabilità dell’invocata attenuante, il risarcimento del danno debba essere integrale. Si afferma altresì che la valutazione sulla sua congruità sia rimessa al giudice, il quale può anche disattendere un eventuale accordo transattivo intervenuto tra le partì (cfr. Sez. 2 n. 53023 del 23/11/2016, Rv. 268714). Deve inoltre richiamarsi il principo secondo cuií è presupposto indefettibile per la concessione dell’attenuante del risarcimento del danno, la circostanza che esso avvenga ‘prima del giudizio’, cioè in una fase antecedente alle formalità di apertura del dibattimento di primo grado. La ragione di tale limite temporale va individuata nella possibilità di verifica, da parte del giudice, del sincero ravvedimento, la cui prova può essere data dall’imputato, secondo la presunzione logica evincibile dalia norma, solo prima che egli si sia sottoposto al vaglio del giudizio. È, invece, oggettivamente preclusa l’applicabilità dì detta attenuante sulla base di qualsiasi dimostrazione di ravvedimento, pur nel senso previsto dalla norma, ma successivamente all’inizio del giudizio di primo grado, nell’ambito del quale, una volta visto l’andamento del dibattimento, ancor prima della sentenza, l’imputato potrebbe determinarsi, seguendo un calcolo di opportunità, a risarcire il danno [cfr. sez. 6 n. 897 del 25/11/1993 ud. (dep. 26/01/1994), Rv. 197360]. Pertanto, il motivo di ricorso attinente al suddetto profilo deve essere rigettato. 5. In conseguenza della resa pronuncia assolutoria, con riferimento al reato di cui 189, comma 6, cod. strada, si rinvia ad altra Sezione della Corte d’appello di Firenze per nuovo giudizio sul trattamento sanzionatorio e sulla eventuale concedibilità dei benefici di legge. E’ rimessa al Giudice di rinvio la regolamentazione delle spese tra le parti relativamente al presente giudizio di legittimità. Si rigetta il ricorso nel resto. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 189 comma 6 cod. strada perché il fatto non sussiste e rinvia, per nuovo giudizio in merito al trattamento sanzionatorio, inclusa l’eventuale concessione dei benefici di legge, ad altra sezione della Corte di appello di Firenze, cui demanda pure la regolamentazione delle spese tra le parti relativamente al presente giudizio di legittimità. Rigetta il ricorso nel resto. Così deciso in Roma il 24 aprile 2019 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Ordinanza 5 aprile – 14 maggio 2018, n. 21286

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUMU Giacomo – Presidente –

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere –

Dott. RANALDI Alessandro – Consigliere –

Dott. PAVICH Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. PICARDI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

P.F., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 28/06/2017 del GIP TRIBUNALE di PRATO;

sentita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE PAVICH;

lette le conclusioni del PG Dott. Pasquale Fimiani, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Svolgimento del processo

  1. P.F., tramite il suo difensore di fiducia, ricorre avverso la sentenza di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. emessa nei suoi confronti dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato per il reato p. e p. dall’art. 589-bis c.p., commesso in (OMISSIS).Per l’esattezza, giova evidenziare che la condotta alla guida del P. che cagionò la morte della persona offesa B.P., investito in prossimità di un attraversamento pedonale, fu posta in essere il 20 gennaio del 2016, mentre il decesso del B., a causa degli esiti del traumatismo conseguenti al sinistro stradale, intervenne appunto il 28 agosto dello stesso anno.2. Con l’unico motivo di doglianza, l’esponente lamenta violazione di legge in riferimento al fatto che il reato ascrittogli ex art. 589-bis c.p. è stato introdotto nel nostro codice penale in epoca successiva alla condotta contestata; all’epoca in cui questa fu posta in essere era in vigore una disposizione penale assai più mite; secondo l’esponente, quindi, è illegittima, per violazione dell’art. 25 Cost., art. 7 Convenzione E.D.U. e art. 2 c.p., l’applicazione alla fattispecie dell’ipotesi di reato di cui al citato art. 589-bis, introdotta dopo il sinistro ma prima del decesso del B. dalla L. n. 41 del 2016: di tal che la norma applicata nella specie è sicuramente meno favorevole di quella vigente all’epoca della condotta, e la sua applicazione viola il principio di prevedibilità delle conseguenze penali della condotta, affermato dalla Corte Costituzionale. Osserva l’esponente che, in base al criterio adottato nella decisione impugnata, se il B. fosse morto sul colpo anzichè dopo alcuni mesi dal sinistro, il reato sarebbe stato punito con una pena sensibilmente meno grave.3. Con requisitoria scritta, il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

  1. Prima di affrontare direttamente il motivo di doglianza rassegnato con il ricorso in esame, è necessario esaminare brevemente il profilo della ricorribilità per cassazione della sentenza di patteggiamento per ragioni inerenti alla pena: non già a quella stabilita in concreto attraverso il patto recepito dal giudice, ma a quella prevista in astratto, ossia alla cornice edittale.La lagnanza del ricorrente è, in sostanza, riassumibile nei termini seguenti: può dirsi legale l’applicazione (sia pure frutto di un accordo tra le parti) di una pena che, al momento della condotta, si sarebbe collocata all’interno di limiti edittali più favorevoli rispetto a quelli presi a base del patteggiamento e ricavati dallo ius superveniens (ossia alla nuova e più severa cornice edittale che, al momento dell’evento, era entrata in vigore)? La questione si pone soprattutto perchè la pena concordata nel caso di specie risulta comunque ricompresa sia nei limiti edittali vigenti all’epoca della condotta, sia in quelli in vigore al momento dell’evento; ma è chiaro che, ove la pattuizione fosse avvenuta secondo la lex mitior vigente al momento della condotta, essa avrebbe potuto condurre alla determinazione di un trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’odierno ricorrente.Il Collegio ritiene di dover rispondere senz’altro in senso affermativo al quesito di che trattasi.E’ noto che, secondo un’impostazione tradizionale risalente ai primi anni di operatività del codice di rito oggi vigente, si affermava che la sentenza che recepisce l’intesa raggiunta dalle parti sul quantum della pena da applicarsi in concreto è ricorribile per Cassazione, oltre che per errores in procedendo, per mancato proscioglimento – ricorrendone le condizioni – ai sensi dell’art. 129 c.p.p. (Sez. F, n. 2692 del 14/09/1990, Lofti Ben T., Rv. 185716).Progressivamente si ammise che il ricorso per cassazione avverso sentenza di patteggiamento potesse essere presentato anche in relazione a pena illegale, ma ciò essenzialmente con riferimento al caso in cui il risultato finale del calcolo non risultasse conforme a legge (cfr. ad es. Sez. 6, n. 18385 del 19/02/2004, Obiapuna, Rv. 228047; e, più di recente, Sez. F, n. 38566 del 26/08/2014, Yossef, Rv. 261468).Negli ultimi anni, tuttavia, la nozione di pena illegale (oggi espressamente menzionata fra i casi in cui è ammesso il ricorso per cassazione avverso la sentenza a pena patteggiata, in base all’art. 448 c.p.p., comma 2-bis, introdotto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 50) ha subito un’evoluzione che ne ha esteso la portata, anche con riguardo all’ammissibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p.. Soprattutto in seguito al mutamento del quadro edittale relativo ai reati in materia di stupefacenti (determinato sia dalle conseguenze della sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, sia dall’entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, conv. con mod. dalla L. 16 maggio 2014, n. 79), la Corte di legittimità ha avuto modo di affermare, a più riprese e anche a Sezioni Unite, che è affetta da illegalità sopravvenuta la pena applicata sul consenso delle parti in base a parametri edittali successivamente modificati da una legge penale più favorevole, o colpiti da declaratoria d’illegittimità costituzionale, anche quando la pena concretamente irrogata sia compresa entro i limiti edittali nella specie applicabili.Basti qui ricordare la sentenza a Sezioni Unite Jazouli, che, con riferimento a un ricorso avverso sentenza di patteggiamento, ha affermato l’illegalità della pena determinata attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe cosiddette “leggere”, sui limiti edittali del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 come modificato dalla L. n. 49 del 2006, in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32 del 2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità (Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264205 e 264206).Analogamente la sentenza a Sezioni Unite Marcon ha affermato che la pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, deve essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale, e ciò anche nel caso in cui la pena concretamente applicata sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità. (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264857).In altre pronunzie l’illegalità della pena patteggiata è stata affermata anche per i reati commessi prima della data di entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36, conv. con mod. dalla L. 16 maggio 2014, n. 79, che ha ridotto i limiti edittali della sanzione irrogabile per il fatto di lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, anche qualora la pena determinata in concreto sia compresa all’interno della forbice edittale (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 2702 del 18/11/2015, dep. 2016, Nuti, Rv. 265822; Sez. 4, n. 49531 del 21/11/2014, Loconte, Rv. 261074).Ne deriva una nozione di pena illegale che, lungi dal riferirsi esclusivamente al trattamento sanzionatorio che si collochi al di fuori della misura determinata dalla legge, è comprensiva anche dell’ipotesi in cui la pena applicata in concreto rientra in tale misura, ma si fonda su parametri astratti che nel frattempo sono stati modificati; e ciò pur quando il trattamento sanzionatorio sia frutto della volontà delle parti formalizzata attraverso il patteggiamento.Nel caso oggetto del presente giudizio, la pena era stata pattuita in misura tale da rientrare sia all’interno dei limiti edittali in vigore al momento dell’evento (ossia del decesso della persona offesa B.P., intervenuto il 28 agosto 2016, quando era già in vigore l’art. 589-bis c.p., oggetto di imputazione e introdotto con la L. n. 41 del 2016), sia all’interno dei limiti edittali più favorevoli vigenti al momento della condotta (ossia il 20 gennaio 2016, quando l’imputato, alla guida dell’autovettura di cui all’imputazione, cagionò per colpa l’incidente da cui conseguì la morte del pedone).Nondimeno, come da prospettazione del ricorrente, vi era stato medio tempore un mutamento in peius del trattamento sanzionatorio.E’ ben vero, infatti, che gli estremi edittali della fattispecie contestata (art. 589-bis c.p., comma 1) sono compresi fra due e sette anni di reclusione, esattamente come quelli stabiliti dall’art. 589 c.p., comma 2, nel testo vigente prima dell’entrata in vigore della citata L. n. 41 del 2016 con riferimento al delitto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale.Ma, mentre in quest’ultimo caso era configurabile una circostanza aggravante del delitto di omicidio colposo di cui al primo comma dell’art. 589 c.p. (circostanza aggravante che, si badi, era soggetta a giudizio di bilanciamento, atteso che il previgente testo dell’art. 590-ter c.p. qualificava come aggravante rinforzata, sottratta come tale alla comparazione di cui all’art. 69 c.p., solo quella di cui all’art. 589, comma 3), nel caso di cui all’art. 589-bis c.p., comma 1, deve parlarsi di ipotesi autonoma di reato (cfr. sul punto Sez. 4, n. 29721 del 01/03/2017, Venni, Rv. 270918). Ciò del resto trova rispondenza, nel caso di specie, come si ricava dai passaggi attraverso i quali si è giunti alla determinazione della pena patteggiata: il computo delle circostanze attenuanti generiche ha infatti determinato una diminuzione di un terzo rispetto alla pena minima edittale (passata da due anni e un anno e quattro mesi di reclusione), laddove, qualora le suddette attenuanti ex art. 62-bis c.p. fossero state applicate al previgente art. 589 c.p., comma 2, per effetto del giudizio di comparazione la pena minima applicabile sarebbe stata quella dell’ipotesi-base di cui al primo comma dello stesso articolo, ossia sei mesi di reclusione in caso di giudizio di equivalenza, che sarebbero potuti scendere a quattro mesi nel caso di giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche.Di qui, fra l’altro, è agevole desumere l’interesse del ricorrente sotteso all’impugnazione.Ritiene pertanto il Collegio che, sotto l’indicato profilo, il ricorso de quo superi il vaglio di ammissibilità, in quanto riferibile a una particolare ipotesi di pena (asseritamente) illegale, che nella specie sarebbe divenuta tale per effetto del mutamento della forbice edittale riferita allo stesso fatto, intervenuto fra il momento della condotta e il momento dell’evento.2. Fatta questa ampia premessa, può affrontarsi la questione proposta dal ricorrente: la quale attiene, per l’appunto, all’individuazione della legge penale applicabile nei casi in cui, tra la condotta e l’evento, intercorra un arco temporale durante il quale entri in vigore una norma penale che sanziona il medesimo reato in termini più sfavorevoli all’imputato rispetto alla norma previgente.3. Nel fornire risposta al quesito di che trattasi, riferito al rapporto intercorrente tra tempus commissi delicti e trattamento sanzionatorio, la giurisprudenza si richiama alla legge penale in vigore al momento di commissione, ovvero di consumazione, del reato; secondo l’indirizzo prevalente, per i reati di evento tale momento coincide con quello in cui l’evento si verifica, anche laddove ciò avvenga a distanza di tempo dal momento della condotta.A tale indirizzo, come evidenziato dal Procuratore generale nella requisitoria scritta, aderisce la giurisprudenza di legittimità ivi menzionata (Sez. 4, Sentenza n. 22379 del 17/04/2015, Sandrucci e altri, n.m.), secondo cui, per il trattamento sanzionatorio, deve comunque aversi riguardo a quello vigente al momento della consumazione del reato, cioè al momento dell’evento lesivo. In breve sintesi, tale orientamento riafferma il principio in base al quale, ai fini dell’applicazione della disciplina di cui all’art. 2 c.p., il tempus commissi delicti va collocato al momento della consumazione del reato; e nella specie, trattandosi di reato a forma libera, tale momento coincide con il verificarsi dell’evento tipico.La richiamata sentenza Sandrucci, giova qui ricordare, riguardava imputazioni per omicidio colposo formulate nei confronti di due direttori di uno stabilimento per la produzione di lampadine e tubi fluorescenti – i quali avevano ricoperto il loro incarico in un arco temporale compreso fra il 1972 e il 1984 – in relazione a decessi di dipendenti intervenuti tra il 2005 e il 2009 per mesotelioma pleurico o per adenocarcinoma polmonare (patologie lungo-latenti riferibili all’esposizione ad amianto).Nel caso in esame la condotta ascritta agli imputati si collocava per intero “a monte” del duplice innalzamento dei limiti edittali della pena previsti per il reato di cui all’art. 589 c.p., sui quali il legislatore era intervenuto in epoca successiva a tale condotta, ossia dapprima con la L. 21 febbraio 2006, n. 102 (che aveva innalzato da cinque a sei anni il limite superiore previsto dal secondo comma in materia di infortuni sul lavoro), poi con il D.Lgs. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla L. 24 luglio 2008 n. 125, che aveva innalzato di un anno il minimo edittale, portandolo a 2, e di un ulteriore anno il massimo edittale, portandolo a 7 anni, per il reato di cui all’art. 589 c.p., comma 2.Nell’affrontare la questione del trattamento sanzionatorio applicabile, con particolare riguardo alla questione di legittimità costituzionale in allora sollevata dai ricorrenti (avuto riguardo ai parametri costituiti dagli artt. 3 e 27, comma 3, Cost.), la citata sentenza Sandrucci così si esprime testualmente: “(…) la pena applicata non risulta illegale perchè è comunque ricompresa nei limiti edittali previsti dalla norma, da ritenere applicabile comunque osservato la correttezza della decisione del giudice di merito che ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità, evidenziando che per il trattamento sanzionatorio doveva comunque aversi riguardo a quello vigente al momento della consumazione del reato: cioè al momento dell’evento lesivo”.”Non vi è quindi ragione di evocare l’art. 2 c.p., comma 4, per il rilievo assorbente che questo fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato. E’ cioè rispetto al momento della consumazione del reato che potrebbe porsi una questione di applicazione di una normativa in ipotesi più favorevole che sia sopravvenuta”.

    “Quindi è al momento della consumazione che bisogna avere riguardo alla normativa applicabile e rispetto a tale momento può in ipotesi porsi una questione di applicazione di normativa sopravvenuta. Ciò che qui deve escludersi, con conseguente manifesta infondatezza in fatto della questione di costituzionalità”.

    Nella stessa sentenza Sandrucci vengono poi evocati alcuni precedenti giurisprudenziali che si collocherebbero nel solco dei principi in essa affermati: il riferimento è a Sez. 1, n. 20334 del 11/05/2006, Caffo, Rv. 234284 (in tema di applicabilità della modifica apportata alla L. 31 luglio 2005, n. 155, art. 9, che ha trasformato la contravvenzione in delitto con riguardo alla violazione del divieto di frequentare soggetti pregiudicati connessa alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 9) e ad alcune pronunzie in materia di atti persecutori, con riferimento a condotte in tutto o in parte commesse prima dell’entrata in vigore dell’art. 612-bis c.p., introduttivo della nuova fattispecie sanzionatoria.

    In realtà, va per l’esattezza osservato che i casi richiamati dalla sentenza Sandrucci (riferibili a reati abituali, o comunque caratterizzati da condotte protratte nel tempo) si riferiscono, nella quasi totalità, ad azioni poste in essere almeno in minima parte – “a cavallo” fra le due diverse discipline del trattamento sanzionatorio. Solo il riferimento a Sez. 5, 19/05/2011, L. riguarda un’ipotesi di atti persecutori consumatasi nella vigenza della norma incriminatrice, in cui la condotta materiale di minaccia e/o di molestia era stata posta in essere per intero prima dell’entrata in vigore della nuova norma incriminatrice.

    4. Nel solco dello stesso orientamento interpretativo si pone altresì Sez. 5, n. 19008 del 13/03/2014, Calamita e altri, Rv. 260003. Secondo detta pronunzia, in tema di successione di leggi penali nel tempo, il concorrente che abbia realizzato un contributo causale interamente esauritosi prima della introduzione di una nuova norma incriminatrice o meramente sanzionatoria è soggetto alla disciplina sopravvenuta, anche se più sfavorevole, quando il reato è pervenuto a consumazione dopo l’entrata in vigore di quest’ultima. Nella fattispecie la Corte aveva ritenuto corretta l’applicazione della circostanza aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, conv. in L. 12 luglio 1991, n. 203, in relazione ai reati di importazione e conseguente detenzione di armi da guerra, nei confronti di un imputato che aveva intrapreso trattative con il venditore prima della introduzione dell’aggravante, e la condotta illecita si era però perfezionata dopo il suo arresto e dopo l’entrata in vigore della nuova norma per effetto dell’apporto di altri concorrenti.

    Nella parte in diritto della sentenza in esame si legge: “(…) quando una condotta (concorsuale, nel caso di specie) inizia sotto il vigore di una norma incriminatrice o meramente sanzionatoria, ma si conclude sotto il vigore di una nuova norma della medesima specie, non può essere dubbio che debba trovare applicazione la seconda norma, anche se le conseguenze in tema di pena possano essere più severe. In tal caso non si ha alcuna violazione dell’art. 2 c.p., comma 4 perchè, evidentemente, il tempus commissi delicti è quello in cui si perfeziona la condotta o si verifica l’evento. E se la condotta si è protratta nel tempo (anche eventualmente ad opera di più soggetti concorrenti) è il momento conclusivo quello che rileva”.

    “Ciò è stato esplicitamente sostenuto per i delitti associativi (cfr., ad es., ASN 201040203-RV 248461), ma il principio deve trovare applicazione anche peri reati non permanenti, quando l’azione abbia avuto durata apprezzabile e si sia, comunque, conclusa (e dunque il reato abbia avuto consumazione) sotto la vigenza della nuova legge (…)”.

    Qui la particolarità sta in ciò, che il reato permanente, o comunque caratterizzato da condotte protratte nel tempo, viene commesso almeno in parte (da alcuni fra i concorrenti) sotto il vigore della nuova e più severa previsione sanzionatoria; ma quest’ultima, oltre a doversi applicare ai compartecipi che pongano in essere condotte criminose anche nella vigenza di essa, trova applicazione – secondo la sentenza in esame – anche nei riguardi di colui il quale abbia fornito il proprio apporto concorsuale al reato limitatamente a condotte esauritesi, per intero, sotto il vigore del previgente e più favorevole quadro legislativo.

    5. L’approccio ermeneutico fin qui illustrato presenta tuttavia, ad avviso del Collegio, notevoli controindicazioni con riferimento a fattispecie del tipo di quella che forma oggetto del presente giudizio.

    Invero, a ben vedere, una rigorosa adesione al ragionamento posto a base delle richiamate pronunzie (cui del resto si è uniformato il rappresentante della Procura generale nella sua requisitoria scritta) implicherebbe che, anche in presenza di una condotta – nella specie istantanea, anzichè “di durata” – posta in essere (oltretutto per colpa) sotto il vigore di una disciplina legislativa più favorevole in punto di trattamento sanzionatorio, trovi applicazione la legge penale in vigore al momento dell’evento, intervenuto a distanza di tempo, pur quando essa preveda per il reato de quo conseguenze sanzionatorie più severe rispetto a quelle precedentemente vigenti.

    Non va sottaciuto che un pur risalente indirizzo giurisprudenziale di legittimità era pervenuto a soluzioni opposte, che si ritiene di dover oggi condividere e riproporre, quanto meno in relazione a fattispecie come quella in esame.

    Ci si riferisce in particolare a Sez. 4, n. 8448 del 05/10/1972, Bartesaghi, Rv. 122686, secondo la quale, nel caso di successione di leggi penali che regolano la stessa materia, la legge da applicare e quella vigente al momento dell’esecuzione dell’attività del reo e non già quella del momento in cui si è verificato l’evento che determina la consumazione del reato.

    Dal canto suo, sempre in tema d’individuazione del tempus commissi delicti, la dottrina prevalente sembra aderire a quest’ultima opzione interpretativa (che per comodità viene comunemente definita “criterio della condotta”) in contrapposizione a quella precedentemente illustrata (denominata “criterio dell’evento”). In generale si afferma che, applicando il criterio dell’evento, il soggetto non sarebbe in grado di adeguare la propria condotta alle mutate prescrizioni di legge. La legge successiva verrebbe così applicata retroattivamente a fatti commessi in un tempo in cui non era conoscibile.

    Sempre secondo la dottrina, sono peraltro previste diverse declinazioni dei suddetti criteri.

    Ad esempio, nei reati omissivi propri, si ha riguardo al momento della scadenza del termine utile per ottemperare all’obbligo la cui violazione è penalmente sanzionata; nei reati a forma vincolata istantanei, e nel delitto tentato, il momento del commesso reato coincide con il momento di realizzazione completa della fattispecie; nei reati di durata (in specie nei reati permanenti ed in quelli necessariamente ed eventualmente abituali) parte della dottrina ritiene rilevante il momento in cui la condotta ha termine e la legge applicabile è la legge (anche più sfavorevole) in vigenza della quale la condotta cessa o si protrae; altri Autori censurano tale impostazione, perchè confonderebbe fra consumazione e realizzazione del reato: nel caso di reato permanente la consumazione avviene quando la permanenza cessa, la realizzazione sussiste quando la permanenza ha inizio; con l’inizio della permanenza il reato deve ritenersi commesso ed è a questo istante che occorre riferirsi per stabilire quale sia la legge applicabile.

    Nei reati causalmente orientati (o a forma libera) di tipo doloso, la dottrina ritiene che il momento rilevante coincida con l’ultimo momento sorretto da dolo, mentre nei reati colposi esso coinciderebbe con il primo atto contrario ai doveri di attenzione; oppure, secondo altra dottrina, con il momento in cui il colpevole realizza l’ultimo fra gli elementi della condotta, che ricade sotto i suoi poteri di controllo.

    Altro Autore, commentando la citata sentenza Sandrucci, evidenzia che il criterio in base al quale il tempus commissi delicti deve essere agganciato alla consumazione del reato (a sua volta corrispondente alla verificazione dell’evento tipico) si appalesa “pericolosamente fuorviante, giacchè conduce ad adottare un’interpretazione dell’art. 2 c.p. contraria al sistema di garanzie delineato dalla Costituzione e della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”. Evocando una serie di principi costituzionali e sovranazionali e richiamando la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988, lo stesso Autore evidenzia che “l’esigenza sottesa al principio di irretroattività della norma sfavorevole è quella di tutelare le libere scelte dei consociati, e in definitiva la loro libertà di autodeterminazione, rendendo prevedibili le conseguenze giuridico-penali delle condotte: evitando cioè che taluno possa essere punito, o punito più severamente, in relazione a fatti che, al momento in cui furono commessi, o non costituivano reato, oppure, pur costituendo reato, erano soggetti ad un trattamento sanzionatorio più mite”.

    6. A fronte di un così composito quadro interpretativo, il Collegio ritiene di dover aderire, come già anticipato, al criterio della condotta, quanto meno con riferimento alle fattispecie come quella in esame (che è inquadrabile tra i reati colposi a forma libera).

    Appaiono opportune, sul punto, alcune considerazioni.

    Sono sicuramente suggestive e meritevoli di riflessione le considerazioni del ricorrente nel sottolineare che, a fronte di un incidente stradale avvenuto nel vigore del più favorevole quadro normativo quoad poenam, il trattamento sanzionatorio che ne è seguito è dipeso in modo decisivo dal momento del decesso della vittima: se il pedone fosse morto sul colpo, la legge penale applicabile sarebbe stata quella ante L. n. 41 del 2016, contenente (come si è visto) previsioni più miti; poichè invece la persona offesa è deceduta dopo che la L. n. 41 del 2016 è entrata in vigore, ragionando sulla base del c.d. criterio dell’evento dovrebbe applicarsi quest’ultima, benchè più severa in punto di pena. E questo sebbene non fosse prevedibile, per il soggetto attivo, che il trattamento sanzionatorio a suo carico sarebbe stato sensibilmente peggiore in dipendenza della permanenza in vita della vittima per alcuni mesi dopo il sinistro.

    E’ di tutta evidenza che tale epilogo stride con il principio nullum crimen, nulla poena sine (praevia) lege poenali, e con l’assunto, condivisibilmente sostenuto dalla richiamata dottrina, in base al quale il principio di irretroattività della legge penale meno favorevole si pone a garanzia del soggetto attivo, nella considerazione che egli non dev’essere chiamato a soggiacere non solo a previsioni incriminatrici non vigenti al momento del fatto, ma neppure a previsioni sanzionatorie che dopo il fatto sono divenute più gravi: ciò in quanto egli non poteva non solo conoscere, ma neppure prevedere che lo ius superveniens potesse comportare, per il reato da lui commesso, conseguenze più gravi di quelle in vigore nel momento in cui egli si determinò a commettere il reato.

    Nella specie, poi, la conseguenza dell’adozione del criterio dell’evento è ancor più paradossale, poichè il soggetto attivo non aveva neppure agito con dolo, ma con colpa: di tal che esulava dalla sua sfera di volizione quell’evento, le cui conseguenze gli verrebbero poste a carico secondo la più grave previsione sanzionatoria vigente al momento del verificarsi dell’evento medesimo.

    Per questo non è condivisibile l’assunto secondo il quale, per stabilire la previsione sanzionatoria applicabile, occorre sempre e comunque avere riguardo al momento di consumazione del reato, anche quando – come nella specie – si tratti di reato (colposo) di evento a forma libera e l’evento (nella specie, la morte della vittima) si sia verificato a distanza di tempo dalla condotta, quando nel frattempo era entrata in vigore una più severa cornice edittale per lo stesso fatto.

    I casi giurisprudenziali che si sono citati supra e che aderiscono, sostanzialmente, al c.d. criterio dell’evento si riferiscono, pervero, a fattispecie alquanto diverse da quella in esame, tutte riconducibili a reati “di durata” (abituali o permanenti), alcune delle quali a ben vedere neppure sembrano potersi rapportare a detto criterio: infatti, laddove anche solo una parte della condotta riferibile al reato abituale o permanente sia stata posta in essere sotto il vigore della nuova legge penale meno favorevole, è di tutta evidenza che si versa in un’ipotesi pienamente riconducibile ai principi generali in materia di successione di leggi penali nel tempo, perchè la condotta (riferita a reato non istantaneo) si protrae oltre il momento in cui la previsione sanzionatoria diviene più grave.

    A parte ciò, la frizione fra il principio costituzionale di legalità penale e la previsione di un trattamento sanzionatorio più grave di quello vigente all’epoca della condotta, quando quest’ultima si esaurisca invece per intero sotto il vigore della lex mitior, appare comunque nettamente percepibile.

    A fondamento del principio di legalità stanno, per l’appunto, la conoscibilità e la prevedibilità in concreto sia del precetto penale che della relativa sanzione (“nullum crimen, nulla poena”).

    A proposito della prevedibilità in concreto, infatti, essa costituisce com’è noto un criterio-guida per assicurare la tenuta costituzionale di una serie di istituti che, sotto il profilo della legalità penale, sono stati considerati “problematici” o “di confine”: si pensi, solo per fare qualche esempio, al concorso anomalo (cfr. Sez. 5, n. 34036 del 18/06/2013, Malgeri e altri, Rv. 257251), al delitto di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.: cfr. Sez. U, n. 22676 del 22/01/2009, Ronci, Rv. 243381), ai delitti aggravati dall’evento (cfr. Sez. 5, n. 18490 del 14/11/2012 – dep. 2013, Acerbis, Rv. 256239) e così via.

    Se però si sposta il tema della (necessaria) prevedibilità dall’evento alla sanzione, è di tutta evidenza che le considerazioni che sorreggono il criterio della prevedibilità in concreto non soccorrono più, atteso che non può certo evocarsi, e porsi a carico del soggetto attivo, l’onere di prevedere che medio tempore (dopo il compimento della condotta e prima del verificarsi dell’evento) il legislatore decida di colpire il reato con maggiore gravità. Diversamente opinando, la minaccia penale verrebbe deprivata della sua funzione di influenza dell’autodeterminazione dei consociati (funzione rivolta necessariamente alle azioni presenti e future, giammai a quelle passate); al tempo stesso, si abdicherebbe a un’essenziale ratio garantistica che ispira e contraddistingue l’intero sistema penale, sotto il profilo dell’individuazione non solo del precetto, ma anche della sanzione da applicarsi ratione temporis.

    Sotto il profilo dell’uniformità e della coerenza logica dell’ordinamento, va chiarito che i principi stabiliti dall’art. 2 c.p. rispondono a logiche e a finalità diverse rispetto ad altri istituti che chiamano in causa la commissione del reato: ad esempio, non possono evocarsi ai fini che qui interessano le previsioni in tema di decorrenza del termine di prescrizione (art. 158 c.p.), atteso che esse non coinvolgono la prevedibilità delle conseguenze penali della condotta (del resto, quando ciò accade, anche l’istituto della prescrizione, di diritto sostanziale, soggiace alle previsioni di cui all’art. 2 c.p.: cfr. ex multis Sez. 3, n. 3385 del 17/11/2016 – dep. 2017, A, Rv. 268805; Sez. 6, n. 31877 del 16/05/2017, B, Rv. 270629; Sez. 3, n. 47902 del 18/07/2017, Abrate, Rv. 271446); differenti sono anche le finalità della disciplina del locus commissi delicti di cui all’art. 6 c.p. e della disciplina della competenza per territorio di cui all’art. 8 c.p.p.: con l’avvertenza, però, che in tali ambiti acquista rilievo anche la condotta in sè considerata; e che anzi l’art. 8 c.p.p., comma 2 stabilisce che, se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l’azione o l’omissione.

    7. Si ritiene da ultimo opportuno evidenziare, in adesione ai rilievi critici della migliore dottrina, che l’adozione del c.d. criterio dell’evento – quanto meno, lo si ripete, in fattispecie del tipo di quella oggetto del presente giudizio – si pone in contrasto con una serie di principi fondamentali dell’ordinamento.

    Ci si riferisce in primo luogo al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), attesa l’ingiustificata disparità di trattamento che ne deriva tra soggetti autori di una medesima condotta nello stesso momento, sol perchè l’evento del reato si verifica in tempi diversi per ragioni a loro non riferibili.

    In secondo luogo, al principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., comma 2, riferito pacificamente non solo alla necessaria conoscibilità del precetto, ma anche alla conoscibilità e prevedibilità della sanzione penale prevista per la relativa violazione (nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali). Sotto tale profilo, non appaia improprio il richiamo ai principi affermati nella ben nota sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, laddove vi si afferma che l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito: un riflesso, questo, della necessaria conoscibilità ex ante delle prescrizioni penali, che non può non estendersi anche alla prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie della violazione del precetto. Si condivide a tal proposito l’opinione dottrinaria secondo la quale, attraverso il percorso tracciato dalla Consulta nella citata sentenza, il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., comma 2, si salda con il principio di colpevolezza ex art. 27 Cost., comma 1.

    In terzo luogo, al principio di adesione dell’ordinamento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost., comma 1), con particolare riguardo ai principi, enunciati dall’art. 7 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo e ribaditi a più riprese dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, di “accessibilità” della norma penale per il destinatario (sia sotto il profilo del precetto, sia sotto il profilo della sanzione) e di “prevedibilità” delle conseguenze della sua condotta in caso di trasgressione di precetti penali.

    8. A fronte, peraltro, del sopra delineato contrasto (quanto meno potenziale) di orientamenti giurisprudenziali, si ravvisano le condizioni per devolvere la questione alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., comma 1, il cui intervento chiarificatore si impone, nel sistema processuale, quale corollario della funzione nomofilattica di cui la Corte di legittimità è depositaria soprattutto nella sua più autorevole composizione, nel perseguimento della tendenziale uniformità della giurisprudenza.

    Nella specie, il dictum del Consesso apicale potrà fornire indicazione, in relazione agli aspetti come sopra evidenziati, circa la soluzione da dare alla seguente questione: “se, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell’evento”.

P.Q.M.


Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2018.

Come è noto, le norme che presiedono il comportamento del conducente del veicolo, oltre a quelle generiche di prudenza, cautela ed attenzione, sono principalmente quelle rinvenibili nell’art. 140 C.d.S., che pone, quale principio generale informatore della circolazione, l’obbligo di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale, e negli articoli seguenti, laddove si sviluppano, puntualizzano e circoscrivono le specifiche regole di condotte.

 “il pedone che attraversa in ora notturna una strada a quattro corsie con scorrimento rapido, scavalcando il guard rail, concorre a porre in essere una situazione di pericolo, ponendo i veicoli sopravvenienti in condizioni di difficoltà e di emergenza, ove, avvistandolo, non possano poi porre in essere adeguate manovre per evitare o ridurre l’impatto. Pertanto nella ricostruzione della dinamica del fatto dannoso tutte le causa imputabili alle condotte imprudenti (del pedone) e inesperte o negligenti (dei conducenti) debbono essere ponderate, ai fini del riparto delle rispettive responsabilità, ai sensi degli artt. 2054 e 1227 cod. civ., in relazione agli altri elementi obbiettivi riscontrati sul teatro dell’investimento”.

Tra queste ultime, di rilievo, cpn riguardo al comportamento da tenere nei confronti dei pedoni, sono quelle stabilite, dettagliatamente, nell’art. 191 C.d.S., che trovano il loro pendant nel precedente art. 190 C.d.S., che, a sua volta, stabilisce le regole comportamentali cautelari e prudenziali che deve rispettare il pedone. In questa prospettiva, è evidente la regola prudenziale e cautelare fondamentale che deve presiedere al comportamento del conducente, sintetizzata nell'”obbligo di attenzione” che questi deve tenere al fine di “avvistare” il pedone sì da potere porre in essere efficacemente gli opportuni (rectius, i necessari) accorgimenti atti a prevenire il rischio di un investimento.

Il dovere di attenzione del conducente teso all’avvistamento del pedone trova il suo parametro di riferimento (oltre che nelle regole di comune e generale prudenza) nel I richiamato principio generale di cautela che informa la circolazione stradale e si sostanzia, essenzialmente, in tre obblighi comportamentali: quello di ispezionare la strada dove si procede o che si sta per impegnare;

quello di mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada e del traffico; quello, infine, di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (in particolare, proprio dei pedoni) (cfr., per riferimenti, Sezione 4, gennaio 1991, Del Frate; Sezione 4, 12 ottobre 2005, Leonini; Sezione 4, 13 ottobre 2005, Tavoliere).

Trattasi di obblighi comportamentali posti a carico del conducente anche per la prevenzione di eventuali comportamenti irregolari dello stesso pedone, vuoi genericamente imprudenti (tipico il caso del pedone che si attarda nell’attraversamento, quando il semaforo, divenuto verde, ormai consente la marcia degli automobilisti), vuoi in violazione degli obblighi comportamentali specifici, dettati dall’art. 190 C.d.S.. Il conducente, infatti, ha, tra gli altri, anche l’obbligo di prevedere le eventuali imprudenze o trasgressioni degli altri utenti della strada e di cercare di prepararsi a superarle senza danno altrui (Sezione 4, 30 novembre 1992, n. 1207, Cat Berrò, rv. 193014).

Ne discende che il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo (imprudente o in violazione di una specifica regola comportamentale) del pedone (una tale condotta risulterebbe, invero, concausa dell’evento lesivo, penalmente non rilevante per escludere la responsabilità del conducente: cfr. art. 41 c.p., comma 1), ma occorre che la condotta del pedone i configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non i prevista nè prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento (cfr. art. 41 c.p., comma 2).

Ciò che può ritenersi, solo allorquando il conducente del veicolo investitore (nella cui condotta non sia ovviamente ravvisabile alcun profilo di colpa, vuoi generica vuoi specifica) si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di “avvistare” il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, infatti, l’incidente potrebbe ricondursi, eziologicamente, proprio ed esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente ed operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima.

Ciò posto, a confutazione della prima doglianza, va nuovamente riaffermato che in tema di risarcimento del danno, il fatto colposo del creditore che abbia contribuito al verificarsi dell’evento dannoso è, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1 – rilevabile d’ufficio dal giudice (sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente), per cui la sua prospettazione non richiede la proposizione di un’eccezione in senso proprio, avente natura di mera difesa (orientamento consolidato: Cass., Sez. U, 03/06/2013, n. 13902; Cass. 15/10/2013, n. 23372; Cass. 10/11/2009, n. 23734).

E la riduzione percentuale del danno in ragione dell’entità percentuale dell’efficienza causale del soggetto danneggiato, in quanto esclude (o attenua) il nesso di causalità tra condotta e danno e fissa pertanto un limite al principio della condicio sine qua, trova applicazione anche qualora la vittima sia una persona minore o comunque incapace di intendere di volere.

Con indirizzo esegetico affatto scalfito dalle argomentazioni del ricorrente, la Corte ha più volte chiarito che quando la vittima di un fatto illecito abbia concorso, con la propria condotta, alla produzione del danno, l’obbligo del responsabile di risarcire quest’ultimo si riduce proporzionalmente, ai sensi dell’art. 1227 c.c. , comma 1, anche nel caso in cui la vittima fosse incapace di intendere e di volere (per minore età o altra causa), in quanto la locuzione “fatto colposo” contenuta nel citato art. 1227 deve intendersi come sinonimo di comportamento oggettivamente in contrasto con una regola di condotta, e non quale sinonimo di comportamento colposo, per cui l’indagine deve essere limitata all’accertamento dell’esistenza della causa concorrente nella produzione dell’evento dannoso, prescindendo dalla imputabilità del fatto all’incapace e dalla responsabilità di chi era tenuto a sorvegliarlo (così Cass. 22/06/2009, n. 14548; Cass. 10/02/2005, n. 2704; Cass. 05/05/1994, n. 4332).

Come è noto, l’art. 43 c.p., con il richiamo alla negligenza, imprudenza ed imperizia ed alla violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline, delinea una prima fondamentale connotazione della colpa: si tratta di una condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare.

Accanto a tale tratto oggettivo, però, si ha una caratteristica di natura soggettiva: la colpa, infatti, è mancanza di volontà dell’evento. In positivo, poi, il profilo soggettivo e personale della colpa viene generalmente individuato nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza della regola stessa: nella esigibilità del comportamento dovuto.

Dunque nel verificare la sussistenza di una responsabilità colposa occorre tener conto non solo dell’oggettiva violazione di norme cautelari, ma anche della concreta possibilità per l’agente di conformarsi alla regola. Ciò in relazione alle sue qualità e capacità personali.

Prevedibilità ed evitabilità dell’evento sono all’origine delle regole cautelari ed al contempo costituiscono il fondamento del giudizio di rimproverabilità personale.

Ebbene, sotto il profilo dell’evitabilità dell’evento, l’art. 43 c.p., stabilisce che il delitto è “colposo quando l’evento non è voluto e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia”. La norma evoca la causalità della colpa.

Come è facile intuire, infatti, la responsabilità colposa non può estendersi a tutti gli eventi derivati dalla violazione della norma ma deve ritenersi circoscritta ai soli risultati che la norma stessa mira a prevenire. Ciò significa che, ai fini della responsabilità colposa, l’accadimento verificatosi deve rientrare tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, deve costituire la concretizzazione del rischio.

Vi è poi altro profilo inerente il momento soggettivo ed il rimprovero personale. Affermare, alla stregua dell’art. 43 c.p. , che per aversi colpa l’evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole implica che il nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata – il comportamento alternativo lecito – non avrebbe comunque evitato l’evento. Invero non avrebbe senso richiedere un comportamento comunque inidoneo ad evitare il risultato antigiuridico.

Ciò evidenzia la connessione tra le problematiche sulla colpa e quelle sul nesso causale per cui spesso le valutazioni inerenti lo sviluppo causale si riverberano sul giudizio di evitabilità in concreto.

Orbene, nel caso in esame il profilo propriamente causale non desta problemi. Mentre non è stata approfondita la causalità della colpa. Essa si configura non solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico, ma anche quando una condotta appropriata aveva significative probabilità di scongiurare il danno.

Proprio in tema di circolazione stradale, con riferimento alla norma di cautela inerente all’adeguamento della velocità alle condizioni ambientali, è stata ripetutamente affermata la necessità di tener conto degli elementi di spazio e di tempo, e di valutare se l’agente abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro: la prevedibilità ed evitabilità vanno cioè valutate in concreto. A ben vedere il fattore velocità è un concetto relativo alle situazioni contingenti, quando si tratta di valutare il comportamento dell’imputato in chiave causale e non già di accertare la violazione di una norma contravvenzionale che prescrive limiti di velocità (Cass. Sez. 4^ n. 37606/2007 RV 237050).

Peraltro se l’esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento si pone in primo luogo e senza incertezze nella colpa generica, poichè in tale ambito la prevedibilità dell’evento ha un rilievo decisivo nella stessa individuazione della norma cautelare violata; occorre rilevare che sussiste anche nell’ambito della colpa specifica.

Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo nell’ambito delle norme rigide la cui inosservanza dà luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell’ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per l’apprezzamento della concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento (Cass. Sez. 4^ n. 26239/2013 RV 255695).

QUANDO E’ ESONERATO DA RESPONSABILITA’ IL CONDUCENTE?

Come è noto, le norme che presiedono il comportamento del conducente del veicolo, oltre a quelle generiche di prudenza, cautela ed attenzione, sono principalmente quelle rinvenibili nell’art. 140 C.d.S., che pone, quale principio generale informatore della circolazione, l’obbligo di comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale, e negli articoli seguenti, laddove si sviluppano, puntualizzano e circoscrivono le specifiche regole di condotte. Tra queste ultime, di rilievo, cpn riguardo al comportamento da tenere nei confronti dei pedoni, sono quelle stabilite, dettagliatamente, nell’art. 191 C.d.S., che trovano il loro pendant nel precedente art. 190 C.d.S., che, a sua volta, stabilisce le regole comportamentali cautelari e prudenziali che deve rispettare il pedone. In questa prospettiva, è evidente la regola prudenziale e cautelare fondamentale che deve presiedere al comportamento del conducente, sintetizzata nell'”obbligo di attenzione” che questi deve tenere al fine di “avvistare” il pedone sì da potere porre in essere efficacemente gli opportuni (rectius, i necessari) accorgimenti atti a prevenire il rischio di un investimento.

Il dovere di attenzione del conducente teso all’avvistamento del pedone trova il suo parametro di riferimento (oltre che nelle regole di comune e generale prudenza) nel I richiamato principio generale di cautela che informa la circolazione stradale e si sostanzia, essenzialmente, in tre obblighi comportamentali: quello di ispezionare la strada dove si procede o che si sta per impegnare;

quello di mantenere un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada e del traffico; quello, infine, di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (in particolare, proprio dei pedoni) (cfr., per riferimenti, Sezione 4, gennaio 1991, Del Frate; Sezione 4, 12 ottobre 2005, Leonini; Sezione 4, 13 ottobre 2005, Tavoliere).

Trattasi di obblighi comportamentali posti a carico del conducente anche per la prevenzione di eventuali comportamenti irregolari dello stesso pedone, vuoi genericamente imprudenti (tipico il caso del pedone che si attarda nell’attraversamento, quando il semaforo, divenuto verde, ormai consente la marcia degli automobilisti), vuoi in violazione degli obblighi comportamentali specifici, dettati dall’art. 190 C.d.S.. Il conducente, infatti, ha, tra gli altri, anche l’obbligo di prevedere le eventuali imprudenze o trasgressioni degli altri utenti della strada e di cercare di prepararsi a superarle senza danno altrui (Sezione 4, 30 novembre 1992, n. 1207, Cat Berrò, rv. 193014).

Ne discende che il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, in caso di investimento del pedone, non per il solo fatto che risulti accertato un comportamento colposo (imprudente o in violazione di una specifica regola comportamentale) del pedone (una tale condotta risulterebbe, invero, concausa dell’evento lesivo, penalmente non rilevante per escludere la responsabilità del conducente: cfr. art. 41 c.p., comma 1), ma occorre che la condotta del pedone i configuri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non i prevista nè prevedibile, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento (cfr. art. 41 c.p., comma 2). Ciò che può ritenersi, solo allorquando il conducente del veicolo investitore (nella cui condotta non sia ovviamente ravvisabile alcun profilo di colpa, vuoi generica vuoi specifica) si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di “avvistare” il pedone e di osservarne, comunque, tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido, inatteso, imprevedibile. Solo in tal caso, infatti, l’incidente potrebbe ricondursi, eziologicamente, proprio ed esclusivamente alla condotta del pedone, avulsa totalmente dalla condotta del conducente ed operante in assoluta autonomia rispetto a quest’ultima.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Sentenza 8 ottobre 2019, n. 25027

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente – Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere – Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere – Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere – ha pronunciato la seguente:

SENTENZA sul ricorso 13271-2017 proposto da:

V.N.B., V.A.B., anche in nome e per conto – in qualità di erede – di V.B.V., tutti in proprio e nella qualità di eredi di VO.MA., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ILDEBRANDO GOIRAN, 23, presso lo studio dell’avvocato UGO SARDO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

ZURICH INSURANCE COMPANY LTD con Rappresentanza Generale per l’Italia, ZURITEL SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CILIBERTI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente – e contro

M.C.J., M.G., ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 1170/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 21/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2019 dal

Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO che ha concluso per l’accoglimento del gravame p.q.r.;

udito l’Avvocato UGO SARDO;
udito l’Avvocato GIUSEPPE CILIBERTI.

Svolgimento del processo

Con sentenza 2779/2011 il Tribunale di Roma rigettò la domanda proposta da V.B.V., V.N.B., V.A.B., in proprio e nella loro qualità di eredi di Vo.De.Ma. in V., nei confronti di M.C.J., M.G. e della compagnia assicuratrice Zuritel SpA, diretta ad ottenere il risarcimento di tutti i danni subiti a seguito della morte della loro congiunta Vo.De.Ma. in un sinistro avvenuto in data 31-10-2003, nel quale quest’ultima, mentre stava attraversando la (OMISSIS), era stata investita dall’autovettura condotta da M.G.; in particolare il Tribunale ritenne che il conducente dell’autovettura avesse superato la presunzione di responsabilità posta a suo carico dall’art. 2054 c.c., comma 1, in quanto, per la condotta anomala ed imprevedibile del pedone (che aveva attraversato una strada extraurbana in un tratto vietato dalla presenza al centro della carreggiata di uno spartitraffico), si era trovato nell’oggettiva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti.

Con sentenza 1170/2017 del 21-2-2017 la Corte d’Appello di Roma ha rigettato l’appello proposto da V.B.V., V.N.B., V.A.B., in proprio e nella loro qualità di eredi di Vo.De.Ma. in V., ed ha dichiarato assorbito quello incidentale con il quale l’Inail aveva richiesto, in caso di accertamento della responsabilità del M., il rimborso ex art. 1916 c.c. delle somme erogate al coniuge superstite ex art. 85 T.U.; in particolare la Corte ha ribadito che nessuna responsabilità poteva essere ascritta al conducente del veicolo e che il comportamento anomalo del pedone era stata l’unica causa dell’evento; siffatto accertamento sulla condotta del pedone come causa esclusiva consentiva di superare la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2054 c.c., che, per ripetuta giurisprudenza della S.C., non doveva essere data necessariamente in modo diretto; nello specifico la Corte ha innanzitutto premesso che il Tribunale nella sua decisione si era basato non solo sugli, elementi emersi in sede penale (ove M.G. era stato assolto, sia in primo che in secondo grado, dal reato di omicidio colposo per insussistenza del fatto), ma anche sul verbale di P.S., sulle deposizioni dei testi escussi e sulla CTU tecnica; ciò posto, ha ribadito che non era stato dimostrato alcun comportamento disattento del guidatore, in quanto, benchè l’investimento fosse avvenuto quando il pedone aveva quasi ultimato l’attraversamento del primo tratto di carreggiata, era stato il comportamento anomalo, imprevedibile e sconsiderato del pedone stesso, che aveva attraversato una strada a scorrimento veloce in ora notturna ove era vietato l’attraversamento pedonale, senza usare la massima prudenza e senza dare la precedenza al veicolo che sopraggiungeva, la causa esclusiva dell’evento; nello specifico, infatti, la delimitazione delle due carreggiate della strada a scorrimento veloce, realizzata attraverso uno spartitraffico con siepe anabbagliante, indicava inequivocabilmente l’invalicabilità di tale barriera da parte dei pedoni, mentre era stato accertato in base alle assunte testimonianze che Vo.De.Ma. “dopo essere scesa da un pulmino con

altre connazionali ad una stazione di servizio posta in direzione (OMISSIS) intendeva raggiungere l’altro distributore, posto sull’opposto senso di marcia, dove l’attendeva il proprio datore di lavoro, ed era pertanto evidente che avrebbe dovuto superare quella barriera insuperabile”, e che “quando Vo.De.Ma. era quasi giunta allo spartitraffico si era fermata girandosi verso dietro ed in quel momento venne investita”; nè la velocità tenuta dal guidatore (km/h 77, invece dei 70 consentiti) poteva ritenersi causa dell’evento, in quanto il CTU aveva precisato che anche “se il M. avesse viaggiato alla velocità consentita, il sinistro si sarebbe ugualmente verificato e che solo se avesse viaggiato alla velocità di 50 Km/h avrebbe verosimilmente evitato l’evento.

Avverso detta sentenza V.N.B., V.A.B., anche in nome e per conto – in qualità di eredi – di V.B.V., tutti in proprio e nella loro qualità di eredi di Vo.De.Ma. in V., propongono ricorso per Cassazione, affidato a sette motivi ed illustrato anche da successiva memoria.

Resiste con controricorso la Zurich Insurance Company LTD. Motivi della decisione

Con il primo motivo parte ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione agli artt. 2, 142 e 175 C.d.S., si duole che la Corte territoriale non abbia posto a fondamento della decisione, e non abbia valutato, le prove (che pure le erano state offerte) circa le caratteristiche della strada ove era accaduto l’incidente; in particolare lamenta che la Corte d’Appello abbia ritenuto che l’attraversamento si fosse verificato su strada ove lo stesso era assolutamente vietato per la presenza di una barriera antitraffico, quando invece si trattava di “strada a scorrimento veloce” (come qualificata dalla stessa Corte), sulla quale non vi era un generale divieto di attraversamento.

Con il secondo motivo parte ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2054 c.c., comma 1 e art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione agli arrt. 140 e 141 C.d.S. e con riferimento alla selezione delle prove ed alla valutazione delle stesse nella ricostruzione dei fatti, si duole che la Corte territoriale, nel ricostruire i fatti, abbia selezionato solo alcuni degli accadimenti emersi dall’espletata istruttoria, pretermettendone altri, ovvero svalutandone totalmente l’incidenza causale nella fattispecie concreta, nonchè errando nell’applicare il regime probatorio di cui all’art. 2054 c.c..

Con il terzo motivo parte ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, si duole che la Corte territoriale abbia omesso di esaminare la dinamica dell’attraversamento (con la scansione dei suoi momenti), l’accertato superamento dei limiti di velocità e l’ingiustificata (essendo libera la corsia di dx) circolazione del veicolo investitore sulla corsia di sorpasso.

Con il quarto motivo parte ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 190 e 191 C.d.S., sostiene che la Corte d’Appello abbia erroneamente presupposto che il pedone avesse attraversato senza prestare la dovuta attenzione e senza dare la precedenza al sopraggiungente

veicolo e non abbia considerato che l’attraversamento pedonale era posto ad oltre cento metri di distanza e che l’immissione sulla carreggiata era iniziata da parte del pedone con la dovuta cautela e l’investimento era avvenuto quando l’attraversamento era già quasi concluso.

Con il quinto motivo parte ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2054 c.c. nonchè degli artt. 140 e 141 C.d.S. in relazione ai criteri della colpa e del nesso causale, si duole che la Corte, in ordine alla circostanza della velocità tenuta dal conducente (km/h 78 anzichè quella consentita di Km/h 70), abbia richiamato la valutazione del consulente tecnico del P.M., secondo il quale il sinistro non si sarebbe verificato solo se il conducente avesse viaggiato a 55 Km/h, così “utilizzando i criteri penali, anzichè quelli civili, di tali fattispecie”.

Con il sesto motivo parte ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2054 c.c. in relazione alle condizioni di avvistamento dei pedoni sulla carreggiata, si duole che la Corte abbia ritenuto il sinistro causato unicamente dalla condotta dei pedoni, senza considerare l’oggettiva visibilità degli ostacoli sulla carreggiata, cui è normalmente ricollegato il concetto di prevedibilità dell’evento.

Con il settimo motivo parte ricorrente, denunziando – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione dell’art. 91 c.p.c. e art. 92 c.p.c., comma 2, si duole che la Corte territoriale l’abbia condannata al pagamento delle spese di lite, quando invece sussistevano gravi ed eccezionali ragioni (decesso della vittima, con conseguente danno di eccezionale gravità) per disporne la compensazione.

I primi sei motivi, da valutare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.

Questa S.C. ha già chiarito che, in materia di responsabilità civile da sinistri derivanti dalla circolazione stradale, in caso di investimento di pedone la responsabilità del conducente è esclusa quando risulti provato che non vi era, da parte di quest’ultimo, alcuna possibilità di prevenire l’evento, situazione ricorrente allorchè il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile ed anormale, sicchè l’automobilista si sia trovato nell’oggettiva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti; in particolare è stato osservato che “la prova liberatoria di cui all’art. 2054 c.c., nel caso di danni prodotti a persone o cose dalla circolazione di un veicolo, non deve essere necessariamente data in modo diretto, cioè dimostrando di avere tenuto un comportamento esente da colpa e perfettamente conforme alle regole del codice della strada, ma può risultare anche dall’accertamento che il comportamento della vittima sia stato il fattore causale esclusivo dell’evento dannoso, comunque non evitabile da parte del conducente, attese le concrete circostanze della circolazione e la conseguente impossibilità di attuare una qualche idonea manovra di emergenza. Pertanto il pedone, il quale attraversi la strada di corsa sia pure sulle apposite strisce pedonali immettendosi nel flusso dei veicoli marcianti alla velocità imposta dalla legge, pone in essere un comportamento colposo che può costituire causa esclusiva del suo investimento da parte di un veicolo, ove il conducente, sul quale grava la presunzione di responsabilità di cui alla prima parte dell’art. 2054 c.c., dimostri che l’improvvisa ed imprevedibile comparsa del pedone sulla propria traiettoria di marcia

ha reso inevitabile l’evento dannoso, tenuto conto della breve distanza di avvistamento, insufficiente per operare un’idonea manovra di emergenza” (Cass. 14064/2010); v. anche .

La Corte territoriale, in corretta applicazione di siffatti principi, con accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, ha ritenuto che il pedone, tenuto peraltro ad usare nell’attraversamento di una strada fuori dalle strisce pedonale la massima prudenza ed a concedere la precedenza ai veicoli, ha invece attraversato una strada a scorrimento veloce in ora notturna ove era vietato l’attraversamento pedonale, così ponendo in essere una condotta talmente imprevedibile e pericolosa da costituire colpa unica e sufficiente a causare l’evento; al riguardo, in particolare, poi, aderendo alle conclusioni del primo giudice, ha escluso ogni profilo di rilevanza causale del comportamento colposo del conducente la vettura, ribadendo nello specifico quanto affermato dal CTU, secondo cui anche se il M. avesse viaggiato alla velocità consentita il sinistro si sarebbe ugualmente verificato.

Le doglianze nel loro insieme, anche quelle formulate sub violazione di legge, tendono ad una diversa ricostruzione del fatto e ad una diversa valutazione degli elementi istruttori, e sono quindi (come detto) inammissibili in sede di legittimità; al riguardo va solo precisato, con riferimento alla sollevata questione della sussistenza o meno del divieto assoluto di attraversamento sulla strada a scorrimento veloce in questione, che su quest’ultima le due carreggiate erano divise da uno spartitraffico con siepe antiabbagliante (circostanza pacifica e correttamente evidenziata dalla Corte territoriale), e che, proprio per la presenza di siffatto spartitraffico (che implica l’invalicabilità della barriera da parte dei pedoni), il conducente dell’autovettura, a prescindere dalla corsia percorsa (di destra o sinistra), non poteva aspettarsi in alcun modo l’attraversamento di pedoni, non potendo prevedere l’intenzione dei pedoni di superare la detta invalicabile barriera.

In particolare, poi, il vizio motivazionale è denunciato non secondo i paradigmi della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ratione temporis applicabile, che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario (fatto da intendersi come un “preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni”), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.; conf. Cass. S.U. 8053 e 8054 del 2014; v. anche Cass. 21152/2014 e Cass. 17761/2016, che ha precisato che per “fatto” deve intendersi non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo (conf. ); nel caso di specie il ricorrente non ha indicato alcun “fatto storico” (nel senso su precisato) omesso, ma si è limitato (inammissibilmente, per quanto detto) a ritenere non esaminata la dinamica dell’attraversamento, l’accertato superamento

del limite di velocità e l’ingiustificata circolazione dell’autoveicolo sulla corsia di sorpasso, quando invece siffatte circostanze sono state prese in considerazione dalla Corte territoriale, sia pur per giungere a conclusioni non in linea con quelle della parte ricorrente.

  1. Va, infine, precisato che, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi (e non è il caso di specie) che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (conf. ).
  2. Nè, infine, può riscontrarsi nella specie una “motivazione apparente”.
  3. Costituisce consolidato principio di questa Corte, invero, che la mancanza di motivazione, quale causa di nullità per mancanza di un requisito indispensabile della sentenza, si configura “nei casi di radicale carenza di essa, ovvero del suo estrinsecarsi in argomentazioni non idonee a rivelare la “ratio decidendi” (cosiddetta motivazione apparente), o fra di loro logicamente inconciliabili, o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili (Cass. sez unite 8053 e 8054/2014); nella specie la Corte ha espresso le ragioni della adottata decisione sulla base di un’approfondita disamina delle risultanze istruttorie, valutando le prove raccolte con argomentazioni logicamente conciliabili, non perplesse ed obiettivamente comprensibili.
  4. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, poichè il ricorso è stato presentato successivamente al 30-1-2013 ed è stato rigettato, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore di Zurich Insurance Company LTD, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, il 8 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2019