successioni, lesione della legittima: azioni avvocato successioni Bologna vicenza ravenna rimini
successioni, lesione della legittima
Quando sui beni lasciati dal defunto si apre in tutto o in parte la successione legittima [565 c.c.], nel concorso di legittimari [536 ss. c.c.] con altri successibili, le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente [558 c.c.] nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata ai legittimari, i quali però devono imputare a questa, ai sensi dell’articolo 564, quanto hanno ricevuto dal defunto in virtù di donazioni o di legati(3) [735, 746 c.c.].
Cass. pen. n. 12872/2021
La sentenza di accoglimento della domanda di riduzione della quota di legittima racchiude due statuizioni, l’una, sempre uguale, consistente nell’accertamento della lesione della predetta quota e nella risoluzione, con effetto costitutivo limitato alle parti, delle disposizioni negoziali lesive, l’altra, avente contenuto di condanna, che si pone con la statuizione costitutiva in rapporto variabile, a seconda che la reintegra richieda la previa divisione di beni ereditari, con conseguente condanna di uno dei condividenti al pagamento del conguaglio, oppure unicamente il versamento da parte del donatario del controvalore della quota, ai sensi dell’art.560 c.c; pertanto, solo nel secondo caso, integrandosi un rapporto di “dipendenza” tra capo costitutivo e capo condannatorio, quest’ultimo è immediatamente eseguibile, ex art. 282 c.p.c., indipendentemente dal passaggio in giudicato del primo, mentre, nel primo caso, venendo in considerazione un rapporto di “corrispettività” tra i due capi della sentenza, l’esecuzione di quello di condanna ne presuppone il passaggio in giudicato.
L’azione di divisione ereditaria e quella di riduzione sono fra loro autonome e diverse, perché la prima presuppone la qualità di erede e l’esistenza di una comunione ereditaria che si vuole sciogliere, mentre la seconda implica la qualità di legittimario leso nella quota di riserva ed è diretta alla reintegra in essa, indipendentemente dalla divisione; ne consegue che la domanda di divisione e collazione non può ritenersi implicitamente inclusa in quella di riduzione, sicché una volta proposta la domanda di riduzione, quella di divisione e collazione, avanzate nel corso del giudizio di primo grado con le memorie ex art. 183 c.p.c., sono da ritenersi nuove e, come tali, inammissibili ove la controparte abbia sul punto rifiutato il contraddittorio.
Nel caso di esercizio dell’azione di riduzione, il legittimario, ancorché abbia l’onere di precisare entro quali limiti sia stata lesa la sua quota di riserva, indicando gli elementi patrimoniali che contribuiscono a determinare il valore della massa ereditaria nonché, di conseguenza, quello della quota di legittima violata, senza che sia necessaria all’uopo l’indicazione in termini numerici del valore dei beni interessati dalla riunione fittizia e della conseguente lesione, può, a tal fine, allegare e provare, anche ricorrendo a presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, tutti gli elementi occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della riserva. (Cassa con rinvio, CORTE D’APPELLO BOLOGNA, 27/04/2017).
L’azione di riduzione non spetta collettivamente ai legittimari, ma ha carattere individuale e compete in via autonoma al singolo erede che ritenga lesa la sua quota individuale di legittima. L’accertamento della lesione e della sua entità non deve farsi con riferimento alla quota complessiva riservata a favore di tutti i legittimari, ma solo riguardo alla quota di coloro che abbiano proposto la domanda. Il giudizio non assume, quindi, carattere inscindibile neppure nell’ipotesi in cui la domanda sia rivolta verso più eredi, che non assumono la qualità di litisconsorti necessari.
In una lunga vicenda giudiziaria, caratterizzata da decisioni parziali e interventi della Cassazione, la parte che aveva agito per lesione di legittima ricorreva ulteriormente alla Suprema Corte, indicando, come uno dei motivi, il fatto che la Corte di merito aveva calcolato il valore dei beni al momento di apertura della successione, senza tener conto del successivo incremento di valore. La
Cassazione civile, con sentenza 31125 dell’8 novembre 2023 accoglieva il motivo (e rigettava totalmente o parzialmente gli altri sei) affermando che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione. In ragione di ciò, la Corte cassava le sentenze impugnate (definitiva e non), dettando il principio di diritto e rinviando al giudice d’appello, in diversa composizione.
Il principio era già stato evidenziato da precedenti pronunce di legittimità, secondo le quali i legittimari pretermessi non partecipano automaticamente alla comunione ereditaria per il fatto che si sia aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. (Cass., 3452/1973). Sulla stessa linea si pone la precedente sentenza n. 3605 del 1971, secondo la quale il diritto del legittimario di chiedere la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di legittima ha carattere potestativo e l’eventuale rinuncia all’azione di riduzione non può configurarsi come un trasferimento di beni già acquisiti al patrimonio del legittimario, ma ha solo l’effetto di rendere definitive e intangibili le situazioni giuridiche determinate dal testatore.
Di conseguenza diviene rilevante, ai fini che qui interessano, la distinzione tra riduzione e divisione, poiché per la prima si deve aver riguardo, ai sensi degli
Rileva a tal fine la circostanza che oggetto dell’azione di riduzione, in quanto lesiva dei diritti di legittimaria dell’attrice, è una disposizione testamentaria del de cuius, con la quale, pretermettendo A.A., il testatore aveva istituto erede universale il solo figlio maschio. Tenuto, quindi, conto della massa ereditaria, per effetto delle operazioni di riunione fittizia (queste sì da compiere sulla base della stima dei beni alla data di apertura della successione), si è escluso che la lesione derivasse dalle donazioni pur compiute in vita in favore del convenuto (trattandosi di donazioni che per il loro ammontare gravavano sulla disponibile), ed è stato invece appurato che a risultare lesiva era proprio l’istituzione di erede universale, che andava ridotta, e quindi resa inefficace nei confronti dell’attrice, nei limiti in cui era necessario assicurarle quanto dovuto a titolo di quota di riserva (in quanto ancora insoddisfatta all’esito dell’imputazionedelle liberalità a sua volta ricevute in vita dall’attrice).
Cass. civ., Sez. II, Sent., (data ud. 28/06/2023) 08/11/2023, n. 31125 DIVISIONE SUCCESSIONE › Riduzione di donazioni e di disposizioni testamentarie PROVA IN GENERE IN MATERIA CIVILE › Onere della prova Intestazione REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente – Dott. PAPA Patrizia – Consigliere – Dott. CAVALLINO Linalisa – Consigliere – Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere – Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 28348/2015 proposto da: A.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIAVE 52, presso lo studio dell’avvocato RENATO CARCIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati FERDINANDO MAZZARELLA, e GIUSEPPE MAZZARELLA, giusta procura in calce al ricorso; – ricorrente – contro B.B., C.C., D.D., elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE DEI PRIMATI SPORTIVI, 21, presso lo studio dell’avvocato ENZO MANNINO, rappresentate e difese dall’avvocato, FILIPPO DI CARLO, giusta procura in calce al controricorso; – controricorrenti – avverso le sentenze nn. 221/2013 e 846/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositate rispettivamente il 15/02/2013 ed il 05/06/2015; Lette le conclusioni del Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. MISTRI Corrado, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso ovvero, in subordine, che sia rigettato; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/06/2023 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO; Lette le memorie della ricorrente. Svolgimento del processo – Motivi della decisione Svolgimento del processo – Motivi della decisione 1. A.A., con ricorso del 26 giugno 1985, chiese al Presidente del Tribunale di Termini Imerese il sequestro giudiziario di tutti i beni caduti nella successione del padre, E.E., deceduto il (Omissis). Dopo avere premesso che il genitore, con testamento olografo del (Omissis), aveva lasciato tutto il suo patrimonio al di lei fratello, F.F., ed aveva assegnato ad essa ricorrente un legato in sostituzione di legittima, fra l’altro, asserito, parzialmente nullo siccome avente ad oggetto un immobile già in precedenza donatole – cui ella aveva rinunciato con nota comunicata all’erede il (Omissis) – espose la necessità dell’adozione della misura cautelare a causa del comportamento del fratello che non le consentiva nessun controllo sulla consistenza e sulla gestione del compendio ereditario. Autorizzato, con decreto e con ordinanza, rispettivamente, del 26 giugno e del 23 luglio 1985, il sequestro, dopo la relativa esecuzione, A.A., con atti dell'(Omissis) e del (Omissis), citò F.F. dinanzi al tribunale dianzi indicato, instando per la relativa convalida e, ribadita la dichiarazione di rinuncia al cennato legato sostitutivo della legittima, per l’attribuzione di un terzo dell’eredità paterna, previa riunione alla massa dei beni oggetto di donazioni indirette fatte dal de cuius al convenuto, e cioè della “nuda proprietà di due appartamenti, siti al n. (Omissis), ceduta con atto… del (Omissis)”, dell'”usufrutto sugli stessi appartamenti di cui alla rinuncia… del (Omissis)”, dell'”usufrutto su un fondo rustico in sette spezzoni sito in (Omissis)… al quale il de cuius aveva rinunciato con atto del (Omissis)”, del “fondo sito in (Omissis)… trasferito con cessione simulatamente onerosa dell'(Omissis)”, del “fondo sito in (Omissis), acquistato dal convenuto con atto del (Omissis)”. F.F., costituitosi in entrambi i processi, resistette le pretese e, dopo aver dedotto che la controparte era tenuta ad imputare alla sua quota di legittima un fondo in contrada “(Omissis)” donatole dal padre, e dopo essersi dichiarato disposto, in subordine, a reintegrare l’attrice nella porzione di eredità a lei spettante, chiese il ristoro dei danni cagionatigli dal sequestro; sostenne che la domanda fosse inammissibile in quanto proposta nonostante la intervenuta accettazione del legato sostitutivo della legittima; aggiunse che non integravano donazioni in suo favore le rinunzie unilaterali ai diritti di usufrutto operate dal padre e, nell’ipotesi di ritenuta riconducibilità di tali rinunzie alla nozione di atti di liberalità, si doveva considerare donazione anche la rinuncia all’eredità della moglie fatta, a suo tempo, dal padre a vantaggio, anche, della controparte. Il Tribunale, disposta la riunione dei due procedimenti, con sentenza non definitiva del 20 maggio 1986, nella riscontrata ammissibilità della domanda di A.A. intesa al conseguimento della legittima, convalidò i sequestri. Sul gravame immediato di F.F., la Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 13 febbraio 1990, da un lato, rigettò la domanda di convalida del sequestro eseguito sugli immobili ereditari, dall’altro, confermò nel resto la decisione del primo giudice. Sui ricorsi, rispettivamente, principale di A.A. e incidentale di F.F., questa Corte Suprema, con sentenza n. 9729 del 27 novembre 1993, disattesa la seconda impugnazione, in accoglimento della prima, cassò con rinvio la pronuncia del giudice dell’appello quanto alla mancata convalida del sequestro. Nel frattempo, il processo di primo grado, a seguito di provvedimento di fissazione di udienza adottato dal giudice istruttore a mente dell’art. 289 c.p.c., proseguì, e, all’esito dell’istruzione, dopo che l’attrice ebbe ottenuto ed eseguito un ulteriore sequestro giudiziario su di un fondo sito in (Omissis), il Tribunale, con sentenza del 30 luglio 1988, anche questa non definitiva, per un verso, statuì essere costituita “la massa ereditaria sulla quale doveva essere calcolata la quota di riserva spettante a A.A., oltre che dai beni relitti da E.E., da quelli da costui donati ai due figli”, e cioè dal prezzo di acquisto da parte di F.F. del fondo in contrada (Omissis)”, dal “prezzo di acquisto, con atto del (Omissis) a favore di A.A. del fondo in contrada (Omissis)”, dal “valore dell’usufrutto sul fondo in contrada (Omissis) e sugli appartamenti di (Omissis)”, dal “fondo sito in (Omissis)”, per un altro rigettò l’istanza di convalida del sequestro come sopra autorizzato in corso di causa. Sui gravami, rispettivamente principale di F.F. ed incidentale di A.A., la Corte d’appello di Palermo, con sentenza n. 373 del 21 marzo 1994, in parziale riforma della decisione di primo grado da ultimo citata, sotto ogni altro aspetto confermata, dichiarò essere da “computare in sede di riunione fittizia (ai fini della determinazione della massa ereditaria in contestazione) il prezzo di acquisto del fondo in contrada (Omissis) di cui all’atto (Omissis), il fondo in contrada (Omissis) di cui all’atto (Omissis), il fondo sito in contrada (Omissis)”. Avverso tale pronuncia propose ricorso per cassazione A.A., e questa Corte con la sentenza n. 13117 del 31 dicembre 1997 cassò la sentenza impugnata, nella parte in cui era stato escluso dalla massa il valore dei diritti di usufrutto ai quali il de cuius aveva rinunciato in vita. La Corte d’Appello di Palermo, quale giudice di rinvio con la sentenza n. 610 del 5 luglio 2000 dichiarava che la massa da considerare ai fini della riunione fittizia, includeva anche i diritti di usufrutto rinunziati. Il giudizio dinanzi al Tribunale, che nelle more era stato sospeso, era quindi riassunto da A.A. che insisteva per l’accertamento della lesione della propria quota di legittima. Quindi, richiamato il consulente tecnico d’ufficio, al fine di determinare l’aggiornamento della stima, alla luce di quanto statuito dalla sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 2000, con la sentenza n. 444 del 20 settembre 2005, accertava la lesione subita dall’attrice e la reintegrava con l’attribuzione della proprietà di alcuni immobili, con la condanna delle convenute alla restituzione dei frutti prodotti dai beni assegnatile a far data dalla domanda giudiziale. Avverso tale sentenza ha proposto appello A.A. cui hanno resistito D.D., C.C. e B.B.. La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza non definitiva n. 221 del 15 febbraio 2013, ha rigettato tutti i motivi di appello ad eccezione di quello relativo al mancato riconoscimento della fruttificazione dei beni, disponendo per il prosieguo dell’istruttoria,onde determinare l’esatto ammontare dei frutti dovuti. La Corte, in primo luogo, rilevava che era intervenuta sentenza passata in giudicato rappresentata da Corte d’appello di Palermo n. 610/2000, che aveva individuato i beni da considerare ai fini della riunione fittizia e che da tali beni erano stati esclusi i beni mobili caduti in successione, che parte appellante pretendeva dovessero essere presi in esame. Viceversa, i gioielli erano stati effettivamente valutati, trattandosi di beni inclusi nella denuncia di successione. Quanto al primo motivo di appello, con il quale si lamentava che, pur essendo stata accertata la lesione della quota di legittima dell’attrice, la divisione dei beni ereditari era stata effettuata secondo la stima all’epoca dell’apertura della successione, e non in base al diverso valore che gli stessi avevano assunto alla data della divisione, la Corte distrettuale, dopo avere escluso che l’ordinanza in precedenza emessa in data 13 ottobre 2008 potesse avere valore di sentenza, essendosi solo limitata a disporre il richiamo del CTU, ricordava che la lesione della quota di legittima deve essere calcolata in base al valore dei beni caduti in successione e donati, ma alla data di apertura della successione, dovendo tale criterio di stima operare ad ogni effetto. La diversa tesi sostenuta dall’appellante non poteva avere seguita, in quanto era riferita al diverso criterio da seguire nel caso in cui si debba procedere alla divisione, ma non anche nell’ipotesi qui ricorrente, di accoglimento dell’azione di riduzione. Ancora, era rigettato il motivo di appello che lamentava che per il fondo di contrada (Omissis) fosse stato considerato ai fini della riunione fittizia il prezzo versato dal de cuius, anzichè il suo valore venale alla data di apertura della successione, atteso che anche al riguardo era intervenuto un giudicato rappresentato dalla sentenza del Tribunale di Termini Imerese del 30 luglio 1988 n. 200, che aveva così individuato il criterio di stima di tale donazione, con affermazione che la successiva sentenza della Corte d’Appello di Palermo del 21 marzo 1994 aveva ritenuto non fosse stata censurata da A.A., non potendo quindi più essere posta in discussione. Era rigettato il secondo motivo di appello che investiva la stima dei terreni in (Omissis), e ciò sempre in considerazione del fatto che la stima andava compiuta alla data di apertura della successione, senza che si potesse tenere conto dell’eventuale successivo incremento di valore dei fondi. L’assegnazione all’attrice di beni, costituenti parte di tale più ampio fondo, era avvenuta in maniera del tutto condivisibile, e senza che potesse ravvisarsi alcuna sperequazione rispetto alla restante parte del fondo rimasta invece alle convenute. La Corte riteneva poi fossero inammissibili alcune censure formulate con il terzo motivo di appello, in quanto prive di specificità e di un adeguato supporto argomentativo, risultando quindi in evidente violazione dell’art. 342 c.p.c.. Era però accolto il motivo di appello che lamentava la mancata liquidazione delle somme dovute per la fruttificazione dei beni oggetto dell’azione di riduzione, avendo il Tribunale erroneamente devoluto ad un successivo giudizio la quantificazione, sebbene la domanda mirasse a conseguirli in questo giudizio. La causa andava quindi rimessa in istruttoria per procedere a tale calcolo. Formulata riserva di impugnazione avverso tale sentenza non definitiva, disposto un supplemento di CTU e richiesti chiarimenti al custode dei beni caduti in successione, la Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza definitiva n. 846 del 5 giugno 2015, condannava le appellate a corrispondere all’appellante la somma di Euro 12.205,92 a titolo di frutti, somma comprensiva di interessi e rivalutazione sino alla data del (Omissis), compensando però le spese del grado. Mentre per quanto concerneva i terreni assegnati all’attrice era possibile procedere al calcolo dei frutti sulla base dei redditi fondiari che era possibile ricavare, e secondo l’importo sopra indicato, quanti agli immobili urbani, la sentenza dava atto che dal resoconto del custode non risultava un saldo positivo, e ciò anche in ragione delle numerose anomalie che il CTU aveva segnalato. Non era quindi possibile determinare con precisione quali fossero stati i frutti percetti, tenuto conto anche delle spese sopportate per la custodia e manutenzione dei beni oggetto di sequestro, così che, in assenza di una diversa prova che l’appellante avrebbe dovuto offrire, nulla poteva essere riconosciuto a titolo di frutti per il mancato godimento di tali beni. Per la cassazione della sentenza non definitiva e di quella definitiva della Corte d’Appello propone ricorso A.A. sulla base di sette motivi. Le intimate resistono con controricorso. La ricorrente ha depositato memorie in prossimità dell’udienza. 2. Il primo motivo di ricorso principale denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 131, 132, 177 e 279 c.p.c., nonchè dell’art. 324 c.p.c., e art. 2909 c.c., nella parte in cui la sentenza non definitiva ha ritenuto che l’ordinanza collegiale del 13/10/2008, con la quale era stato disposto il richiamo del CTU, sul presupposto che ai fini della stima dei beni e della formazione delle quote ereditarie occorresse tener conto del loro stato e del valore venale al tempo della divisione, non avesse carattere sostanziale di sentenza, e che quindi vincolasse la Corte nel dover procedere alla rivalutazione della divisione. Si assume che si tratta di un’ordinanza che presuppone una valutazione ed una risoluzione di una questione di diritto, con la conseguenza che deve prescindersi dalla veste formale assunta, occorrendo attribuire alla medesima il contenuto sostanziale di sentenza, come tale vincolante nel prosieguo del giudizio. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 356, 556, 554, 564, 726, 727 e 1116 c.c., nonchè dell’art. 12 preleggi, e dei principi di diritto in tema di scioglimento della comunione, nella parte in cui la sentenza non definitiva ha escluso che potesse tenersi conto del mutamento del valore dei beni rispetto alla data di apertura della successione. Rileva parte ricorrente che la sentenza ha confuso tra la stima da compiere ai fini della individuazione della lesione della quota di legittima, e la diversa stima da compiere allorchè, intervenuto l’accertamento della lesione, si deve procedere con la divisione dei beni recuperati con la riduzione. 15 Novembre 2023 pag. 4 alla concreta integrazione della quota spettante alla legittimaria, per la quale bisogna invece far rifermento alla data in cui effettivamente interviene lo scioglimento della comunione. I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono fondati nei termini di cui in motivazione. Rileva la Corte che, come si rileva anche dall’esposizione dei fatti di causa, l’attrice aveva impugnato le disposizioni testamentarie del genitore, che aveva istituito erede universale il solo fratello, dante causa delle controricorrenti, assegnando alla stessa attrice un legato asseritamente in sostituzione di legittima, al quale la beneficiaria aveva però rinunciato. A seguito delle varie sentenze che sono intervenute nel corso della pluriennale durata del processo, e con le quali in via progressiva si sono individuati, accanto ai beni relitti, i beni donati a favore di entrambi i germani (e che l’attrice era tenuta, per quelli alla stessa donati, ad imputare alla sua quota), il Tribunale di Termini Imerese nella sentenza oggetto dell’appello (n. 444/2005) al cui esito sono state emesse le sentenze in questa sede impugnate, alle pag. 12 e ss. ha individuato i beni che componevano la massa, distinguendo tra quelli donati e quelli invece relitti. Quindi, ha sommato al relictum il donatum, come appunto imposto dall’art. 556 c.c., secondo il valore di stima fissato alla data di apertura della successione, e tenuto conto della totale pretermissione dell’attrice, ha determinato in un terzo il valore della quota di legittima, pari ad Euro 802.325,71, tenuto conto del valore complessivo dei beni donati e di quelli relitti. Da tale quota ha poi detratto il valore dei beni donati alla stessa attrice, e da imputare ex art. 564 c.c., residuando quindi una lesione di Euro 409.078,82 (cfr. pag. 25), lesione che è stata reintegrata con l’assegnazione in natura di alcuni beni individuati tra quelli relitti (non potendosi aggredire le donazioni, se non dopo aver prima ridotto i beni oggetto delle disposizioni testamentarie), e precisamente tre immobili urbani ed una porzione del fondo in (Omissis). Nell’atto di appello, la ricorrente ha però dedotto che in tal modo le erano stati assegnati dei beni che effettivamente corrispondevano al valore della sua quota di legittima secondo i valori determinati alla data di apertura della successione, ma che le era stata preclusa la possibilità di trarre vantaggio dal mutamento di valore degli altri beni relitti, alla cui comproprietà pure concorreva pro quota, alla luce della riduzione della disposizione testamentaria effettuata a favore del fratello, così che, dovendosi procedere alla divisione, era necessario, ai fini della formazione di un progetto in natura, tenere conto del mutamento di valore di tutti i beni relitti. La Corte d’Appello ha però disatteso tale censura evidenziando che, essendosi in presenza di un’azione di riduzione, stante la previsione di cui all’art. 556 c.c., ogni valutazione estimativa andava condotta secondo i valori esistenti alla data di apertura della successione, non potendo invece trovare applicazione le diverse regole di attualizzazione della stima dettate per la divisione ereditaria. La doglianza è fondata. Rileva a tal fine la circostanza che oggetto dell’azione di riduzione, in quanto lesiva dei diritti di legittimaria dell’attrice, è una disposizione testamentaria del de cuius, con la quale, pretermettendo A.A., il testatore aveva istituto erede universale il solo figlio maschio. Tenuto, quindi, conto della massa ereditaria, per effetto delle operazioni di riunione fittizia (queste sì da compiere sulla base della stima dei beni alla data di apertura della successione), si è escluso che la lesione derivasse dalle donazioni pur compiute in vita in favore del convenuto (trattandosi di donazioni che per il loro ammontare gravavano sulla disponibile), ed è stato invece appurato che a risultare lesiva era proprio l’istituzione di erede universale, che andava ridotta, e quindi resa inefficace nei confronti dell’attrice, nei limiti in cui era necessario assicurarle quanto dovuto a titolo di quota di riserva (in quanto ancora insoddisfatta all’esito dell’imputazionedelle liberalità a sua volta ricevute in vita dall’attrice). In presenza di un’istituzione di erede universale ovvero per quote astratte dell’interopatrimonio, il legittimario pretermesso non è erede al momento di apertura della successione, ma lo diviene solo una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione. Inoltre, se ai sensi dell’art. 560 c.c., nel caso in cui la riduzione abbia ad oggetto disposizioni a titolo di legato ovvero donazioni (ed in via estensiva istituzioni ex certa re), l’effetto della riduzione è quello di rendere efficace solo la disposizione che abbia avuto ad oggetto il singolo bene, attribuendolo per intero al legittimario (ove la lesione travolga per intero l’attribuzione) ovvero rendendolo comune fra beneficiario e legittimario, nei limiti necessari ad assicurare la reintegra dei diritti del secondo, nel diverso caso in cui la lesione derivi da una disposizione di erede a titolo universale, l’effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione è quello di far acquisire al legittimario la qualità di erede su tutti i beni caduti in successione, ovvero a creare una comunione su quelli oggetto di liberalità ove a loro volta idonei a determinare la lesione, con il riconoscimento sui primi di una quota indivisa pari all’ammontare della legittima ancora insoddisfatta, ragguagliata al valore del relictum. Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle nè annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacchè il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970). Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992). Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento. In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione. Ne consegue che, tenuto conto di quanto statuito dal Tribunale di Termini Imerese nella sentenza appellata, a fronte di una massa di beni relitti (e quindi con esclusione di quelli donati), pari ad Euro 1.980.062,99 (cfr. pag. 23), essendo la quota di legittima ancora non soddisfatta dell’attrice pari ad Euro 409.078,82 (cfr. pag. 25), sui beni relitti l’attrice ha acquisito una quota ideale pari al 20,66% (409.078,82: 1.980.062,99 = x: 100; x = 409.078,82-100/1.980.062,99= 20,66). Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977). Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento. Non possono deporre in senso contrario a tale conclusione alcuni precedenti spesso rinvenibili nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l’azione di divisione e quella di riduzione sono nettamente distinte ed autonome, atteso che la seconda tende, indipendentemente dalla divisione dell’asse ereditario, al soddisfacimento dei diritti dei legittimari nei limiti in cui siano lesi dalle disposizioni testamentarie, con la conseguenza che non può ritenersi implicitamente proposta con la domanda di divisione, la quale presuppone il già avvenuto recupero alla comunione ereditaria dei beni che ad essa siano stati eventualmente sottratti dal testatore con un atto che abbia violato la riserva per legge in favore dei legittimari (cfr. ex multis Cass. n. 1408/2007), avendo gli stessi riguardo alla diversa ipotesi in cui il legittimario non sia pretermesso, ed anzi sia sin dall’apertura della successione partecipe della comunione ereditaria, così che solo proponendo la diversa azione di riduzione gli è data la possibilità di recuperare quei beni idonei ad integrare la legittima che la sola divisione dei beni relitti non è in grado di soddisfare. In senso analogo si veda anche Cass. n. 18468/2020, che, nel ribadire che l’azione di divisione ereditaria e quella di riduzione sono fra loro autonome e diverse, perchè la prima presuppone la qualità di erede e l’esistenza di una comunione ereditaria che si vuole sciogliere, mentre la seconda implica la qualità di legittimario leso nella quota di riserva ed è diretta alla reintegra in essa, indipendentemente dalla divisione, aggiunge altresì che la domanda di divisione e collazione non può ritenersi implicitamente inclusa in quella di riduzione, sicchè una volta proposta la domanda di riduzione, quelle di divisione e collazione, avanzate nel corso del giudizio di primo grado con le memorie ex art. 183 c.p.c., sono da ritenersi nuove e, come tali, inammissibili ove la controparte abbia sul punto rifiutato il contraddittorio, ma sempre sul presupposto che una comunione nasca già al momento dell’apertura della successione e non sia invece, come nel caso in esame, la conseguenza dell’accoglimento dell’azione di riduzione esperita da un legittimario del tutto pretermesso. Tanto meno può indurre a diversa conclusione quanto affermato da Cass. n. 41132/2021, la cui massima recita che la collazione presuppone l’esistenza di una comunione ereditaria e, quindi, di un asse da dividere, mentre, se l’asse è stato esaurito con donazioni o con legati, o con le une e con gli altri insieme, viene meno un “relictum” da dividere, sicchè non vi è luogo a divisione e, quindi, a collazione che non potrebbe essere invocata neppure per effetto dell’eventuale azione di riduzione che mira unicamente a far ottenere al legittimario, titolare di un diritto proprio, riconosciutogli dalla legge, l’integrazione della quota di riserva spettantegli e non già la costituzione di una comunione tra coeredi, non rispecchiando la massima quanto invece riferito in motivazione a pag. 16, ove si ribadisce che l’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione crea una comunione nei limiti necessari ad assicurare la reintegra della quota di riserva, comunione che però, proprio perchè frutto dell’esito vittorioso dell’azione di riduzione, non consente di invocare la collazione essendo il legittimario ab origine pretermesso dalla stessa comunione ereditaria. La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonchè determinare il valore dell’integrazione spettanteal legittimario leso, sicchè quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinchè ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000). Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sè anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi. Con l’appello la ricorrente intendeva proprio contestare il criterio con il quale il Tribunale aveva provveduto alla divisione dei beni dei quali la stessa era divenuta contitolare, così che si palesa erronea la risposta fornita dalla sentenza impugnata che ha invece invocato il principio secondo cui la stima andava sempre ed unicamente compiuta in base al valore dei beni alla data di apertura della successione. La sentenza deve, quindi, essere cassata dovendo il giudice del rinvio conformarsi al seguente principio di diritto: In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione. L’accoglimento del secondo motivo, nei termini esposti implica poi evidentemente l’assorbimento del primo motivo, che mira, sul piano della soluzione di carattere processuale, ad addivenire alla medesima conclusione alla quale questa Corte è pervenuta in punto di diritto sostanziale. L’errore commesso dai giudici di merito, nel reputare che non si dovessero applicare le regole della divisione, e ciò nell’implicito presupposto che non vi fosse una comunioneestesa a tutti i beni relitti, si riflette anche sulla questione relativa alla maturazione dei frutti dei beni comuni, che è invece specifico oggetto della sentenza definitiva, dovendosi fare applicazione del principio secondo cui, in tema di divisione i frutti naturali della cosa comune già separati al momento della divisione sono di proprietà di tutti i partecipanti, in conformità del disposto degli artt. 820, 821 c.c. e non possono quindi, salva diversa volontà delle parti, diventare di proprietà esclusiva del condividente cui sia stato assegnato il bene che li ha prodotti. Invece, nell’ipotesi in cui i frutti stessi non siano stati ancora separati al momento della divisione, è operante l’efficacia retroattiva dall’art. 757 c.c., con la conseguenza che il condividente assegnatario ha il diritto di percepire per l’intero i frutti stessi anche se riferibili al periodo in cui il bene che li ha prodotti era comune (Cass. n. 2975 del 20/03/1991, richiamata in motivazione anche da Cass. S.U. n. 25021/2019, pag. 24). L’avere riconosciuto i frutti solo per quelli prodotti dai beni in concreto assegnati dal Tribunale alla ricorrente costituisce una statuizione che, oltre che essere travolta per effetto dell’accoglimento del secondo motivo, con la necessità per il giudice di rinvio di dover provvedere ad una nuova divisione dei beni comuni che tenga conto dell’attualizzazione della stima del relictum, costituisce una sostanziale applicazione dell’art. 561 c.c., norma che invece ha carattere speciale rispetto alle regole generali in materia di frutti dei beni comuni, ed ha riguardo alla diversa ipotesi in cui l’azione di riduzione abbia ad oggetto disposizioni concernenti singoli immobili (come in caso di legati, donazioni o al più institutiones ex certa re). Ne consegue che i frutti andranno attribuiti pro quota a favore della ricorrente in relazione a tutti i beni comuni ed a far data dall’apertura della successione. 3. L’ordine logico delle questioni impone poi la preventiva disamina del quinto motivo di ricorso che denuncia la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè degli artt. 747, 556, 560 e 751 c.c., con omesso esame di fatto decisivo ovvero di comune esperienza e violazione dell’art. 115 c.p.c.. Deduce la ricorrente che la sentenza non definitiva, quanto al fondo in contrada (Omissis), ha statuito che ai fini della riunione fittizia andasse considerato l’ammontare della somma a suo tempo impiegata per l’acquisto del bene e proveniente dal patrimonio paterno, senza però tenere conto del diverso valore che aveva invece il fondo alla data di apertura della successione. Il motivo è evidentemente destituito di fondamento. La Corte d’Appello ha puntualmente rilevato che già con la sentenza del Tribunale di Termini Imerese n. 200 del 1988, nel donatum era stato incluso l’equivalente pecuniario della somma che il padre aveva messo a disposizione per l’acquisto nel (Omissis) della nuda proprietà del fondo da parte del figlio. Trattasi di statuizione che, pur riconoscendo l’esistenza di una donazione indiretta, ha però stabilito che dovesse tenersi conto non del valore venale del bene acquistato ma della somma impiegata a tal fine, e che si giustifica in relazione alla data in cui è intervenuta la pronuncia del Tribunale (1988), che è anteriore al celebre revirement di questa Corte che, con la sentenza a Sezioni Unite n. 9282 del 1992, ha invece affermato che la donazione indiretta ha in realtà ad oggetto l’immobile (o meglio il suo valore). Ancorchè la soluzione si palesi poi in contrasto con quello che è l’orientamento affermatosi in giurisprudenza, la stessa andava a suo tempo censurata onde pervenire ad un diverso esito, attività questa che non è stata esperita, avendo la sentenza non definitiva rimarcato come la Corte d’Appello nella sentenza del 21 marzo 1994 avesse già evidenziato che l’indicazione del solo prezzo versato quale oggetto della riunione fittizia non era stata censurata con l’appello proposto avverso la sentenza n. 200 del Tribunale di Termini Imerese. Peraltro, non può non rilevarsi che analoga statuizione è stata resa poi anche dalla Corte d’Appello di Palermo nella successiva sentenza n. 610 del 2000, pronunciata in sede di rinvio dopo Cass. n. 13117/1997, che il Tribunale di Termini Imerese nella sentenza n. 444/2005 qui appellata, richiama come giudicato vincolante quanto alla individuazione dei beni costituenti rispettivamente il relictum ed il donatum. 4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 553, 554, 558, 561, 726 e 727 c.c., con la falsa applicazione del principio “actore non probante reus absolvitur” e dell’art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 112 c.p.c.; omesso esame di fatto decisivo e violazione dell’art. 132 c.p.c., nonchè art. 111 Cost.. Deduce la parte che la Corte d’Appello nella sentenza definitiva ha escluso il diritto ai frutti prodotti dagli immobili urbani sul presupposto che alcun elemento utile potesse trarsi dal rendiconto del custode giudiziario, che non aveva offerto dei conteggi idonei al fine di determinare quale fosse stata la fruttificazione dei beni presi in custodia. Si ribadisce il diritto a ricevere i frutti dei beni de quibus, essendo, quindi, erronea l’affermazione secondo cui era l’attrice che avrebbe dovuto offrire altri elementi utili al fine di determinare le somme dovute a titolo di fruttificazione, essendo piuttosto doveroso richiamare il CTU onde determinare le rendite sulla base dei valori catastali. Il motivo è in parte assorbito ed in parte infondato. E’ assorbito nella parte in cui, atteso l’accoglimento del secondo motivo e quanto precisato in ordine alla natura e consistenza della comunione insorta a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, la ricorrente ha diritto a ricevere una quota parte dei frutti su tutti i beni costituenti il relictum. E’ infondato nella parte in cui assume che le dovessero essere riconosciuti dei frutti, sebbene i beni fossero rimasti nella detenzione del custode, e nonostante che il rendiconto da questi prodotto non consentisse di accertare l’esistenza di un saldo positivo. E’ pur vero che le Sezioni Unite hanno di recente chiarito che in caso di occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato (Cass. S.U. n. 33645/2022), ma ciò presuppone che il soggetto destinatario della richiesta abbia effettivamente avuto la disponibilità del bene. In relazione ai beni oggetto di sequestro disposto in corso di causa, ed affidati alla gestione del custode, deve escludersi che le convenute possano rispondere anche dell’operato del custode, così che correttamente si è tenuto conto di quanto da questi riportato in sede di rendiconto. In assenza di un saldo attivo della gestione conseguente all’adozione della misura cautelare, era effettivamente onere dell’attrice dimostrare che nonostante le risultanze formali, che non davano un saldo positivo della gestione, i beni avessero prodotti dei frutti dei quali la medesima era creditrice pro quota, alla luce di quanto esposto. 5. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione sotto concorrente profilo degli artt. 554, 558, 561, 832, 2729 c.c., nonchè della L. n. 662 del 1996, art. 3, e dell’art. 42 Cost.; falsa applicazione del principio dell’onere della prova e dell’art. 2697 c.c., con omesso esame di fatto decisivo e violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., e art. 111 Cost.. La censura, anche questa riferita alla sentenza definitiva, attinge la diversa statuizione in merito ai frutti prodotti dai terreni assegnati alla ricorrente dal Tribunale, e lamenta l’erroneo riferimento alle risultanze catastali, assumendo che si sarebbe dovuto far ricorso ai valori di mercato, ovvero si sarebbe potuto prendere a riferimento una somma pari agli interessi legali sul valore venale del bene in analogia con quanto previsto dalla normativa in materia di espropriazione per pubblica utilità. Anche tale motivo è in parte assorbito ed in parte infondato. E’ assorbito per effetto di quanto precisato in ordine alla debenza dei frutti su tutti i beni costituenti il relictum, ed a far data dall’apertura della successione. E’ invece infondato nella parte in cui contrasta un apprezzamento di fatto operato dal giudice di merito, che, conformandosi alle indicazioni dell’ausiliario, ha individuato il canone di locazione dei terreni sulla base del reddito agrario. 6. L’accoglimento del secondo motivo, nei termini sopra esposti, comporta poi l’evidente assorbimento del sesto motivo di ricorso, che denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, con violazione degli artt. 111 e 42 Cost. e art. 727 c.c., nonchè degli artt. 112 e 132 c.p.c., per avere la sentenza non definitiva respinto le critiche mosse con il secondo motivo di appello alla stima dei terreni assegnatile con la sentenza del Tribunale, in rapporto al sopravvenuto mutamento di valore della parte del fondo residuata in capo all’erede testamentario. Infatti, dovendosi provvedere in sede di rinvio alla complessiva rivalutazione all’attualità della stima dei beni relitti, la censura resta superata per effetto della cassazione della sentenza d’appello. 7. Il settimo motivo di ricorso denuncia altre omissioni di fatti decisivi nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c., e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c.. Violazione dell’art. 131 e 132 c.p.c., e del principio di ragionevolezza. Violazione degli artt. 555, 566, 769 e 796 c.p.c., nonchè del R.D. n. 1403 del 1922, ed omissione delle relative tabelle di sopravvivenza. La censura investe la declaratoria di inammissibilità contenuta nella sentenza non definitiva quanto ai punti b), c) e d) del terzo motivo di appello. Il motivo deve essere disatteso. In disparte l’omessa indicazione dei fatti decisivi di cui sarebbe stata omessa la disamina, il motivo si palesa inammissibile anche quanto alla denuncia di violazione dell’art. 342 c.p.c., essendo evidente il difetto del requisito di autosufficienza, che si impone anche laddove sia denunciata la commissione di un error in procedendo (Cass. S.U. n. 8077/2012), avendo il ricorrente omesso di richiamare, ancorchè per sintesi, sia il contenuto della sentenza appellata sia del motivo di appello ritenuto inammissibile ed incomprensibile dai giudici di secondo grado. In ogni caso la lettura del terzo motivo di appello conforta la correttezza della valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, mancando una precisa individuazione delle statuizioni oggetto di censura, e risolvendosi la critica in un immotivato dissenso rispetto alla conclusione del Tribunale, senza però nemmeno in maniera adeguata chiarire come i diversi elementi addotti avrebbero potuto incidere sulla stima (si pensi al riguardo alla incidenza delle tabelle di sopravvivenza, in relazione alle quali nemmeno si contesta adeguatamente l’affermazione circa il loro mancato rinvenimento in atti). 7. In definitiva deve essere accolto il secondo motivo di ricorso, con il rigetto integrale del quinto e del settimo motivo, il parziale rigetto del terzo e quarto motivo, e l’assorbimento integrale del primo e del sesto motivo e parziale del terzo e del quarto motivo. Ne deriva la cassazione di entrambe le sentenze impugnate in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta integralmente il quinto ed il settimo motivo, ed in parte il terzo ed il quarto motivo, dichiara assorbito integralmente il primo ed il sesto motivo, ed in parte il terzo ed il quarto motivo; cassa entrambe le sentenze impugnate con rinvio alla Corte d’Appello di Palermo, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio. Conclusione Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 28 giugno 2023. Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2023