CARTELLE ESATTORIALI? PRESCRIZIONE? 5 ANNI
“la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che dal 1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto ( D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 30, convertito dalla L. n. 122 del 2010)”;
) l’appellante sostiene che, diversamente da quanto affermato dal primo giudice – che ha considerato l’opposizione inammissibile perché proposta oltre il termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica, di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, – la domanda azionata deve essere qualificata come opposizione all’esecuzione, proponibile senza limiti di tempo ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avendo con essa l’interessato fatto valere un atto estintivo successivo alla notifica del titolo, consistente nella sopravvenuta prescrizione del credito;
b) infatti, anche a voler considerare valida la notifica della cartella di pagamento (avvenuta il 31 agosto 2001) – superando la tesi dell’appellante secondo cui il titolo esecutivo costituito dalla cartella di pagamento avrebbe perso efficacia dopo l’infruttuoso decorso di un anno dalla relativa notifica – comunque, al momento della notifica dell’intimazione di pagamento, il credito contributivo vantato dall’INPS era prescritto;
c) invero, è pacifico che l’intimazione di pagamento sia stata notificata in data 27 maggio 2008, sicché all’epoca il credito contributivo vantato dall’INPS era sicuramente prescritto a causa dell’avvenuto decorso del quinquennio dalla notifica della cartella esattoriale (avvenuta, si ribadisce, il 31 agosto 2001), senza il compimento di alcun atto interruttivo da parte del “concessionario della riscossione”;
d) com’è noto, a norma della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 9, il termine prescrizionale per il versamento dei contributivi previdenziali, prima decennale, è ritornato quinquennale a partire dal gennaio 1996, ma l’art. 3 cit., successivo comma 10, ha fatto salva la permanenza del termine decennale per le contribuzioni relative agli anni precedenti, nel caso di atti interruttivi già compiuti e/o di procedure di recupero iniziate dall’Istituto previdenziale nel rispetto della normativa preesistente, evenienza che qui non si verifica;
e) la cartella esattoriale, pur avendo le caratteristiche di un titolo esecutivo, resta un atto amministrativo privo dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato, il che significa che la decorrenza del termine per l’opposizione, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, mentre non determina alcun effetto processuale, sicché non può trovare applicazione l’art. 2953 cod. civ. ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve (quinquennale) in quello ordinario decennale.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 17 novembre 2016, n. 23397
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –
Dott. MACIOCE Luigi – Presidente Sezione –
Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –
Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –
Dott. MANNA Antonio – Consigliere –
Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 20394/2014 proposto da:
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Commissario straordinario pro tempore, in proprio e nella qualità di procuratore speciale della S.C.C.I. S.P.A. – SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI INPS, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto stesso, rappresentato e difeso dagli avvocati LELIO MARITATO, GIUSEPPE MATANO, ANTONINO SGROI, EMANUELE DE ROSE, CARLA D’ALOISIO, per delega a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.A., SERIT SICILIA S.P.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 456/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 16/05/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/10/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;
udito l’Avvocato Lelio MARITATO;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 28 ottobre 2009 il Tribunale di Catania dichiarò inammissibile per tardività – in quanto proposta oltre il termine di quaranta giorni dalla notifica di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5 – l’opposizione all’esecuzione di A.M. avverso l’intimazione di pagamento relativa a cartella esattoriale notificatagli il 31 agosto 2001 per omesso pagamento di contributi previdenziali della gestione commercianti INPS negli anni 1993, 1995, 1996 e 1998.
2. La Corte di appello di Catania, con la sentenza attualmente impugnata, ha riformato tale decisione dichiarando prescritto il credito vantato dall’INPS con la cartella di pagamento suddetta.
A tale conclusione la Corte territoriale è pervenuta sulla base dei seguenti principali rilievi:
a) l’appellante sostiene che, diversamente da quanto affermato dal primo giudice – che ha considerato l’opposizione inammissibile perché proposta oltre il termine perentorio di quaranta giorni dalla notifica, di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, – la domanda azionata deve essere qualificata come opposizione all’esecuzione, proponibile senza limiti di tempo ai sensi dell’art. 615 c.p.c., avendo con essa l’interessato fatto valere un atto estintivo successivo alla notifica del titolo, consistente nella sopravvenuta prescrizione del credito;
b) infatti, anche a voler considerare valida la notifica della cartella di pagamento (avvenuta il 31 agosto 2001) – superando la tesi dell’appellante secondo cui il titolo esecutivo costituito dalla cartella di pagamento avrebbe perso efficacia dopo l’infruttuoso decorso di un anno dalla relativa notifica – comunque, al momento della notifica dell’intimazione di pagamento, il credito contributivo vantato dall’INPS era prescritto;
c) invero, è pacifico che l’intimazione di pagamento sia stata notificata in data 27 maggio 2008, sicché all’epoca il credito contributivo vantato dall’INPS era sicuramente prescritto a causa dell’avvenuto decorso del quinquennio dalla notifica della cartella esattoriale (avvenuta, si ribadisce, il 31 agosto 2001), senza il compimento di alcun atto interruttivo da parte del “concessionario della riscossione”;
d) com’è noto, a norma della L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 3, comma 9, il termine prescrizionale per il versamento dei contributivi previdenziali, prima decennale, è ritornato quinquennale a partire dal gennaio 1996, ma l’art. 3 cit., successivo comma 10, ha fatto salva la permanenza del termine decennale per le contribuzioni relative agli anni precedenti, nel caso di atti interruttivi già compiuti e/o di procedure di recupero iniziate dall’Istituto previdenziale nel rispetto della normativa preesistente, evenienza che qui non si verifica;
e) la cartella esattoriale, pur avendo le caratteristiche di un titolo esecutivo, resta un atto amministrativo privo dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato, il che significa che la decorrenza del termine per l’opposizione, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, mentre non determina alcun effetto processuale, sicché non può trovare applicazione l’art. 2953 cod. civ. ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve (quinquennale) in quello ordinario decennale.
3. – Avverso tale sentenza l’INPS, in proprio e quale mandatario della SCCI s.p.a., ha proposto, per un unico motivo, ricorso per cassazione illustrato da memoria.
A.M. e la SERIT SICILIA s.p.a. sono rimasti intimati.
L’Istituto ricorrente – senza contestare la qualificazione della domanda azionata, effettuata dalla Corte d’appello come opposizione all’esecuzione, proponibile senza limiti di tempo ai sensi dell’art. 615 c.p.c. – sostiene che la pacifica mancanza di tempestiva opposizione alla cartella di pagamento avrebbe determinato l’intangibilità della pretesa contributiva, con la conseguenza che il relativo diritto non potrebbe più ritenersi assoggettato alla prescrizione quinquennale, potendo prescriversi soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo definitivamente formatosi. E rispetto a tale azione, secondo quanto previsto per l'”actio judicati” dall’art. 2953 cod. civ. , troverebbe applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario, nella specie non ancora decorso, in data 27 maggio 2008, quando è stata effettuata la notifica dell’intimazione di pagamento (si citano: Cass. 24 febbraio 2014, n. 4338 e la giurisprudenza ivi richiamata).
4. A seguito di contraddittorio camerale – ai sensi degli artt. 380 bis, 376 e 375 c.p.c. – la Sesta Sezione civile, con ordinanza 29 gennaio 2016, n. 1799, avendo riscontrato nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione delle “disarmonie” sulla determinazione dell’ambito di applicabilità dell’art. 2953 c.c. , con riferimento alla riscossione mediante ruolo di diversi tipi di crediti, rispettivamente degli enti previdenziali, oppure per sanzioni amministrative pecuniarie e/o per violazioni di norme tributarie e così via, ha sollecitato la rimessione della questione alle Sezioni Unite, qualificandola come una questione sia di massima di particolare importanza, anche per il cospicuo contenzioso in corso che ne è interessato.
5. Il ricorso è stato perciò assegnato alle Sezioni Unite e discusso all’odierna udienza.
Motivi della decisione
1. La questione sulla quale queste Sezioni Unite sono chiamate a pronunciarsi investe l’interpretazione da dare all’art. 2953 c.c., con riguardo specifico all’operatività o meno della ivi prevista conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, nelle fattispecie originate da atti di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via.
In particolare dall’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione civile n. 1799 del 2016 risulta che si tratta di stabilire se la suddetta disposizione codicistica sia applicabile anche nelle ipotesi in cui la definitività dell’accertamento del credito derivi da atti diversi rispetto ad una sentenza passata in giudicato.
Nel presente giudizio il problema da risolvere è se la decorrenza del termine pacificamente perentorio – per fare opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produca soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito oppure determini anche l’effetto di rendere applicabile l’art. 2953 c.c., ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve (quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario decennale.
2. Ovviamente la soluzione di tale problema va coordinata con gli indirizzi espressi da questa Corte con riguardo all’ambito di operatività della suddetta norma in tutte le fattispecie di crediti riscossi mediante ruolo o comunque coattivamente (ad esempio con: l’avviso di addebito dell’INPS, che dal 1 gennaio 2011 ha preso il posto della cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di questo Istituto; oppure con l’avviso di accertamento esecutivo, che dal 1 ottobre 2011, ha in parte sostituito la cartella esattoriale per i crediti erariali ed è stato poi esteso ai crediti dell’Agenzia delle dogane: vedi, rispettivamente D.L. 31 maggio 2010, n. 78, artt. 30 e 29, convertito dalla L. n. 122 del 2010).
Infatti, pur essendo l’art. 24 cit. – laddove attribuisce agli enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo (il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio, in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza – una norma innovativa per il sistema previdenziale dell’epoca, esso comunque non ha fatto altro che attribuire alla cartella di pagamento ivi prevista effetti propri di altri analoghi titoli previsti già in altri ambiti, effetti che sono stati poi attribuiti anche ai titoli introdotti dal suindicato D.L. n. 78 del 2010.
3. Come illustrato anche dalla presente ordinanza di rimessione della Sesta Sezione civile, con riguardo all’ambito applicativo dell’art. 2953 c.c., nelle fattispecie originate da atti di riscossione coattiva sono stati espressi da questa Corte sostanzialmente due orientamenti – sembrerebbe inconsapevolmente – non coincidenti.
4. Secondo l’orientamento maggioritario e di origine più remota in base all’art. 2953 c.c., si può verificare la conversione della prescrizione da breve a decennale soltanto per effetto di sentenza passata in giudicato, oppure di decreto ingiuntivo che abbia acquisito efficacia di giudicato formale e sostanziale (vedi, per tutte: Cass. 24 marzo 2006, n. 6628; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1650; Cass. 29 febbraio 2016, n. 3987) o anche di decreto o di sentenza penale di condanna divenuti definitivi (ove si tratti di fattispecie anche penalmente rilevanti).
In particolare per la riscossione coattiva dei crediti la suddetta norma è considerata applicabile esclusivamente quando il titolo sulla base del quale viene intrapresa la riscossione non è più l’atto amministrativo, ma un provvedimento giurisdizionale divenuto definitivo (vedi: Cass. 3 gennaio 1970, n. 1; Cass. 22 dicembre 1989, n. 5777; Cass. 10 marzo 1996, n. 1965; Cass. 11 marzo 1996, n. 1980).
5. Per tale indirizzo l’atto con cui inizia il procedimento di riscossione forzata, qualunque sia il credito cui si riferisce – quindi, sia che attenga al pagamento di tributi oppure di contributi previdenziali, sia che si riferisca a sanzioni pecuniarie per violazioni tributarie o amministrative e così via – pur avendo natura di atto amministrativo con le caratteristiche del titolo esecutivo (ed eventualmente anche del precetto, come accade per la cartella di pagamento de qua), tuttavia è privo di attitudine ad acquistare efficacia di giudicato perché è espressione del potere di autoaccertamento e di autotutela della P.A. Pertanto, l’inutile decorso del termine perentorio per proporre l’opposizione, pur determinando la decadenza dall’impugnazione, non produce effetti di ordine processuale, ma solo l’effetto sostanziale dell’irretrattabilità del credito (qualunque ne sia la fonte, di diritto pubblico o di diritto privato), con la conseguente inapplicabilità dell’art. 2953 c.c. , ai fini della prescrizione (vedi, tra le tante: Cass. 25 maggio 2007, n. 12263; Cass. 16 novembre 2006, n. 24449; Cass. 26 maggio 2003, n. 8335).
6. Nella sentenza di queste Sezioni Unite 10 dicembre 2009, n. 25790 – nella quale si trattava di stabilire se l’art. 2953 c.c., potesse trovare applicazione soltanto in caso di sentenza passata in giudicato pronunciata in giudizi aventi ad oggetto l’obbligazione tributaria o anche in presenza di giudicato su ricorsi avverso provvedimenti di irrogazione di sanzioni tributarie amministrative – è stato affermato che “il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste per la violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 c.c., che disciplina specificamente ed in via generale la cosiddetta actio judicati, mentre, se la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile vale il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 20, atteso che il termine di prescrizione entro il quale deve essere fatta valere l’obbligazione tributaria principale e quella accessoria relativa alle sanzioni non può che essere di tipo unitario”.
A tale principio – che, come si è detto, tradizionalmente era già stato affermato dalla prevalente giurisprudenza in materia di crediti dell’Amministrazione finanziaria per tributi e sanzioni – si è uniformata la gran parte della giurisprudenza successiva in tale ambito materiale (vedi, per tutte: Cass. 12 marzo 2010, n. 6077; Cass., Sez. 5, 11 marzo 2011 n. 5837; Cass. 13 luglio 2012, n. 1194; Cass. 6 luglio 2012, n. 11380 Cass. 6 luglio 2012, n. 11380; Cass. 5 aprile 2013, n. 8380; Cass. 19 luglio 2013, n. 17669; Cass. 11 dicembre 2013, n. 27674; Cass. 17 gennaio 2014, n. 842; Cass. 23 ottobre 2015, n. 21623 e di recente: Cass. 13 giugno 2016, n. 12074).
7. Anche con riguardo ai crediti derivanti da omissioni e/o evasioni di contributi previdenziali, per più di trent’anni, quando tali fattispecie erano penalmente rilevanti – a partire da Cass. 1 marzo 1956, n. 623 – è stato affermato il principio secondo cui in caso di condanna con decreto o con sentenza penale per il mancato o ritardato versamento dei contributi assicurativi il diritto dell’INPS al recupero delle somme ivi indicate non è più soggetto alla prescrizione quinquennale di cui al R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 55, – nel testo antecedente la L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 41 – ma, ai sensi dell’art. 2953 c.c. , alla prescrizione ordinaria decennale, soltanto dopo che il suddetto provvedimento giurisdizionale sia diventato definitivo (vedi, tra le tante: Cass. 17 giugno 1974, n. 1794; Cass. 10 aprile 1979, n. 2085; Cass. 5 luglio 1980, n. 4320; Cass. 9 giugno 1981, n. 3733; Cass. 28 luglio 1983, n. 5195).
8. Dopo la disposta depenalizzazione delle suddette fattispecie, ad opera della L. 24 novembre 1981, n. 689, la giurisprudenza della Sezione Lavoro (vedi, fra le prime: Cass. 14 dicembre 1990, n. 11884; Cass. 24 marzo 1992, n. 3651; Cass. 20 gennaio 1993, n. 684; Cass. 14 giugno 1994, n. 5758) ha affermato che, per effetto del nuovo assetto, agli enti previdenziali è stata data la possibilità di avvalersi per il recupero – anche disgiunto – di contributi, premi, sanzioni civili e sanzioni amministrative, di uno strumento unitario rappresentato, alternativamente, dall’ordinanza-ingiunzione (provvedimento tipico per l’irrogazione e la riscossione della sanzione amministrativa, utilizzato anche per la riscossione dei contributi evasi e delle somme aggiuntive) oppure dal decreto ingiuntivo (strumento tipico per il recupero dei crediti civilistici, utilizzato anche per l’irrogazione e la riscossione della sanzione amministrativa) o ancora (dopo il 1989) dall’ingiunzione prevista dal R.D. 14 aprile 1910, n. 639 (provvedimento amministrativo tipico per la riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato e degli altri enti pubblici utilizzabile anche per la riscossione dei crediti previdenziali, nei limiti già consentiti dalla previgente disciplina).
Sicchè, anche prima che la questione fosse esaminata dalla sentenza di queste Sezioni Unite 23 giugno 1993, n. 6954, nella giurisprudenza della Sezione Lavoro era, sia pure implicitamente, del tutto pacifico il principio secondo cui l’ordinanza-ingiunzione di pagamento delle sanzioni pecuniarie è un provvedimento amministrativo e non giurisdizionale e, pertanto, si differenzia nettamente dal decreto ingiuntivo (Cass., Sezione Prima, 12 novembre 1992, n. 12189; Id. 22 maggio 1993, n. 5788; Id. 9 novembre 1993, n. 11059; Id. 1 luglio 1995, n. 733.
Il suddetto indirizzo, del resto, è tuttora incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass., Sezione Prima, 1 aprile 2004, n. 6362; Cass., Sezione Seconda, 27 luglio 2012, n. 13516).
9. Questa è la cornice nella quale vanno inserite anche le sentenze della Sezione Lavoro nelle quali, per la prima volta, è stata individuata la categoria dei “c.d. titoli esecutivi paragiudiziali” – accanto a quella dei titoli giudiziali – aventi l’attitudine a diventare, in caso di mancata opposizione o di opposizione proposta fuori termine, definitivi e incontrovertibili (vedi: Cass. 24 settembre 1991, n. 9944; Cass. 2 ottobre 1991, n. 10269; Cass. 26 ottobre 1991, n. 11421, in motivazione).
Deve essere, peraltro, sottolineato che in tutte e tre le suindicate sentenze la Corte ha affrontato la questione relativa agli effetti da attribuire all’ordinanza-ingiunzione per crediti previdenziali maturati anteriormente all’apertura di una procedura fallimentare (o concorsuale in genere).
Pertanto, nelle relative motivazioni, la suddetta affermazione risulta chiaramente funzionale alla conclusione della equiparazione del trattamento da riservare alla situazione sub judice – ordinanza – ingiunzione irrogativa di una sanzione amministrativa, inerente a una infrazione posta in essere dal debitore in epoca anteriore al proprio fallimento – rispetto a quello da applicare ad un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo emanato in costanza di fallimento per crediti antecedenti.
In questi termini si rilevava la “sostanziale identità” fra i due suindicati titoli, identità che, peraltro, veniva espressamente riferita alla incontrovertibilità sostanziale del credito, senza alcun richiamo dell’art. 2953 c.c.
10. Poco dopo, con specifico riferimento alla cartella esattoriale di pagamento relativa alla riscossione di contributi previdenziali, Cass., Sezione Lavoro, 11 agosto 1993, n. 8624 (richiamando Cass. 20 gennaio 1993, n. 684 cit.) ha affermato che tale cartella emessa ai sensi del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 2, convertito in L. n. 389 del 1989 – nel testo all’epoca vigente, antecedente le modifiche di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999 – è un titolo esecutivo che diviene definitivo in caso di omessa opposizione o di opposizione tardiva, in quanto proposta dopo la scadenza del termine “e tale dichiarata dal giudice” a conclusione del relativo giudizio.
Nella relativa motivazione la Corte confermava il precedente orientamento (di cui a Cass. 24 settembre 1991 n. 9944 e Cass. 2 ottobre 1991 n. 10269), secondo cui non soltanto i titoli esecutivi giudiziali o “a formazione giudiziale” sono “passibili di diventare definitivi, e cioè incontrovertibili con effetti analoghi al giudicato, in caso di mancata opposizione o di opposizione proposta fuori termine”, essendo stati da tempo individuati dalla richiamata giurisprudenza i c.d. titoli paragiudiziali, in considerazione delle leggi speciali con le quali, in diverse materie, il legislatore ha consentito agli organi della pubblica amministrazione di ordinare ai privati, mediante ingiunzioni, il pagamento di somme di denaro (si citavano per le omissioni contributive previdenziali il R.D. 14 aprile 1910, n. 639 , e la L. 24 novembre 1981, n. 689 , che regola peraltro il più generale conteso delle c.d. sanzioni amministrative).
Con riguardo a tali ultimi titoli si specificava che per essi, al pari di quanto accade per quelli giudiziali, è previsto un termine perentorio per la relativa opposizione davanti al giudice ordinario, “con la conseguenza che i medesimi diventano definitivi in caso o di omessa opposizione o di opposizione tardiva, in quanto proposta dopo la scadenza del termine e tale dichiarata dal giudice a conclusione del relativo giudizio”.
11. Come può notarsi, tale ultima sentenza non ha detto nulla di diverso rispetto a quelle precedenti e si è limitata a ribadire che una volta scaduto inutilmente il termine perentorio per proporre opposizione avverso un c.d. titolo paragiudiziale – come la cartella esattoriale – il titolo diviene definitivo e il diritto di credito incontestabile.
Peraltro, come si evince chiaramente dall’espresso riferimento alla conclusione del giudizio sulla opposizione, la contemplata “definitività” del titolo era riferita esclusivamente – e in linea con l’indirizzo tradizionale – al diritto sostanziale, senza minimamente toccare la questione della conversione della prescrizione ex art. 2953 c.c.
Così, del resto, la sentenza è stata intesa dalla maggior parte della successiva giurisprudenza sia della Sezione Lavoro sia della Sezione Tributaria (vedi per tutte: Cass., Sezione Lavoro, 29 agosto 1995 n. 9119; Id. 18 giugno 2004, n. 11426; Id. 27 febbraio 2007, n. 4506; Id. 25 giugno 2007, n. 14692; Id. 1 luglio 2008, n. 17978; Id. 24 marzo 2010, n. 13262; Cass. Sez. 5^, 28 gennaio 2005, n. 1793).
La stessa impostazione si rinviene in Cass. 14 ottobre 2009, n. 21790 ove viene usata la medesima terminologia della sentenza n. 8624 del 1993 cit. e ci si limita a precisare che la conseguenza della perentorietà del termine di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, è che, in tema di contributi previdenziali, per contestare il ruolo è necessaria l’opposizione da parte dell’interessato nel termine stesso, poichè, in caso contrario, il titolo diviene definitivo e il diritto alla relativa pretesa contributiva incontestabile (sempre in ambito sostanziale).
Nella stessa ottica si pongono anche alcune sentenze in cui si ricorda il consolidato indirizzo che, pure per le iscrizioni a ruolo delle imposte dirette o indirette, ha riconosciuto l’esistenza della categoria dei titoli esecutivi formati sulla base di un mero procedimento amministrativo dell’ente impositore (in questo senso: Cass., Sezione Lavoro, 9 febbraio 2010, n. 7667; Id. 14 giugno 2010, n. 14195).
12. Va anche precisato che tale impostazione non risulta smentita dalle sentenze della Sezione Tributaria nelle quali – specialmente in tema di IVA (Cass. 12 novembre 2010, n. 22977; Cass. 9 febbraio 2007, n. 2941; Cass. 8 settembre 2004, n. 18110) e in materia di tassa automobilistica (Cass. 15 gennaio 2014, n. 701) – è stato sottolineato che il credito erariale per la riscossione dell’imposta, a seguito di accertamento divenuto definitivo per mancata impugnazione o sulla base di sentenza passata in giudicato, è soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. , decorrente, ai sensi dell’art. 2935 c.c., dal momento in cui il “credito diventa esigibile, e cioè dalla data in cui l’accertamento diviene definitivo per mancata impugnazione”.
In tali pronunce, infatti, il suddetto principio risulta affermato al fine di individuare il regime prescrizionale da applicare, in diritto sostanziale, ed escludere l’applicabilità al credito erariale per la riscossione dell’imposta a seguito di accertamento divenuto definitivo del termine di prescrizione quinquennale previsto – “per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi” – dall’art. 2948 c.c. , n. 4, ovvero di termini decadenziali ancora più brevi (come, ad esempio, quello stabilito dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57).
Ma non risulta esservi alcun riferimento all’art. 2953 c.c. , e all’actio judicati.
13. Ebbene, alla luce della presente disamina, può dirsi che una delle sentenze della Sezione Tributaria, nelle quali è stato ribadito il suddetto orientamento, abbia inconsapevolmente dato l’inizio alla “disarmonia” di indirizzi menzionata nella presente ordinanza di rimessione.
Si tratta della sentenza della Sezione 5^ 26 agosto 2004, n. 17051, nella quale – in una controversia relativa ad un caso di iscrizione a ruolo per l’IVA – la Corte si è limitata ad affermare espressamente che per effetto della iscrizione “l’Ufficio forma un titolo esecutivo al quale è sicuramente applicabile il termine prescrizionale di dieci anni previsto dall’art. 2946 c.c. “, senza peraltro alcuna specifica spiegazione sul punto e senza alcun riferimento all’actio judicati.
14. E’, infatti, accaduto che la Sezione Lavoro, a partire da Cass. 24 febbraio 2014, n. 4338, facendo principale riferimento a tale sentenza n. 17051 del 2004 abbia affermato il principio secondo cui: “una volta divenuta intangibile la pretesa contributiva per effetto della mancata proposizione dell’opposizione alla cartella esattoriale (come avvenuto nel caso di specie), non è più soggetto ad estinzione per prescrizione il diritto alla contribuzione previdenziale di che trattasi e ciò che può prescriversi è soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi, riguardo alla quale, in difetto di diverse disposizioni (e in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio judicati ai sensi dell’art. 2953 c.c.), trova applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 c.c.”.
Nella successiva Cass., Sez. Lav., 8 giugno 2015, n. 11749 è stato ribadito che il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento per proporre opposizione di cui all’art. 24 cit., deve ritenersi perentorio, perché diretto a rendere non più contestabile dal debitore il credito contributivo dell’ente previdenziale in caso di omessa tempestiva impugnazione ed a consentire così una rapida riscossione del credito medesimo (vedi, ex plurimis Cass. 25 giugno 2007, n. 14692; Cass. 12 marzo 2008, n. 6674; Cass. 5 febbraio 2009, n. 2835; Cass. 19 aprile 2011, n. 8931). Conseguentemente, per effetto della mancata proposizione dell’opposizione alla cartella esattoriale la pretesa contributiva diviene intangibile e il diritto alla contribuzione previdenziale non è più soggetto ad estinzione per prescrizione, potendo prescriversi “soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi”, nel termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 c.c., in difetto di diverse disposizioni e “in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio judicati ai sensi dell’art. 2953 c.c. ” (si citano: Cass. 26 agosto 2004, n. 2004, recte n. 17051, nonché Cass. 24 febbraio 2014, n. 4338).
Va, peraltro, precisato che, in entrambe le suddette sentenze, l’affermazione del suindicato principio rappresenta un “obiter dictum” eccedente la necessità logico giuridica della decisione e come tale non vincolante (Cass. 11 giugno 2004, n. 11160; Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1815).
Infatti, nella sentenza n. 4338 del 2014 la Corte ha espressamente dichiarato di non essere chiamata a pronunciarsi sulla prescrizione, mentre nella sentenza n. 11749 del 2015 la Corte ha precisato che, nella fattispecie esaminata, l’operatività del termine breve quinquennale, almeno per il credito per i contributi, era ormai coperta da giudicato, avendo la Corte territoriale ritenuto inapplicabile, ai fini della prescrizione decennale, l’art. 2953 c.c.
15. Più di recente la Corte, in Cass., Sez. Lav., 15 marzo 2016, n. 5060 – questa volta in un giudizio analogo all’attuale in cui era in contestazione la questione degli effetti della mancata tempestiva proposizione dell’opposizione alla cartella di pagamento per contributi omessi sulla prescrizione del credito alla contribuzione previdenziale dell’Istituto – ha ribadito il principio (richiamando le sentenze n. 17051 del 2004, n. 4338 del 2014 e n. 11749 del 2015 citate) che, nel caso di mancata e/o tardiva proposizione di opposizione a cartella esattoriale, la pretesa contributiva previdenziale ad essa sottesa diviene intangibile e non più soggetta ad estinzione per prescrizione, potendo prescriversi soltanto l’azione diretta all’esecuzione del titolo così definitivamente formatosi, riguardo alla quale, in difetto di diverse disposizioni (e in sostanziale conformità a quanto previsto per l’actio judicati ai sensi dell’art. 2953 c.c. ), trova applicazione il termine prescrizionale decennale ordinario di cui all’art. 2946 c.c.
Ed ha aggiunto che ciò deriva dalla perentorietà da riconoscere al termine previsto dall’art. 24 cit., che è finalizzata a rendere non più contestabile dal debitore il credito contributivo dell’ente previdenziale, in caso di omessa tempestiva impugnazione e a consentire così una rapida riscossione del credito medesimo (si citano Cass., Sezione Lavoro, n. 14692 del 2007; Id. n. 17978 del 2008; Id. n. 2835 del 2009; Id. 19 aprile 2011, n. 8931).
16. A quanto si è detto consegue che quest’ultima è l’unica pronuncia in cui certamente ed efficacemente è stata affermata in modo vincolante l’applicabilità dell’art. 2953 c.c., alla cartella di pagamento divenuta definitiva perchè non opposta nel termine perentorio.
Infatti, nelle suindicate pronunce in cui si fa riferimento alla categoria dei “titoli paragiudiziali” e in quelle che le richiamano non viene mai menzionata l’actio judicati e, anzi, dal loro contenuto complessivo, si evince chiaramente che il suddetto riferimento è fatto per finalità diverse dalla prescrizione e senza alcuna intenzione di far derivare dalla riconosciuta natura paragiudiziale di alcuni titoli, il conferimento ad essi della natura giurisdizionale, visto che si richiama espressamente la necessaria presenza di una pronuncia giurisdizionale.
D’altra parte, neppure nelle pronunce della Sezione Tributaria – del tipo della sentenza n. 17051 del 2004, cui ha fatto riferimento la sentenza n. 4338 del 2014 della Sezione Lavoro, seguita dalle sentenze della stessa Sezione n. 11749 del 2015 e n. 5060 del 2016 – in cui si menziona l’art. 2946 c.c., vi è alcun richiamo all’actio judicati, essendo piuttosto in esse esaminata la questione dell’individuazione del regime prescrizionale sostanziale per la riscossione, come è confermato anche dalla più recente giurisprudenza della Sezione Tributaria (vedi, tra le altre: Cass., Sez. V, 30 giugno 2016, n. 13418; Id. 9 agosto 2016, n. 16713).
17. Tutto questo porta a concludere che la “disarmonia” che si è creata nell’ambito della giurisprudenza poggia su un equivoco derivante dalla erronea determinazione del contenuto della sentenza n. 17051 del 2004 cit., trascinatasi per inerzia nel tempo, senza alcun particolare approfondimento e che ha prodotto effetti giuridici validi in un solo caso (sentenza n. 5060 del 2016 cit.).
Ne deriva che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte, tale disarmonia non ha avuto grandi conseguenze, ma ne ha sicuramente prodotte – di molto incisive – nella giurisprudenza del merito e, in genere, nella interpretazione e nell’applicazione delle norme di riferimento, in un settore di grande “impatto” come quello della riscossione mediante ruolo dei crediti previdenziali, tributari e così via.
18. Pertanto, appare opportuno precisare che la correttezza dell’orientamento tradizionale è confermata, oltre che dalla precedente sentenza di queste Sezioni Unite 10 dicembre 2009, n. 25790 (già richiamata), da molteplici ulteriori elementi.
18.1. In primo luogo, va ricordato che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte nella quale viene da sempre sottolineato che la disciplina della prescrizione è “di stretta osservanza ed è insuscettibile d’interpretazione analogica” (vedi, per tutte: Cass. 15 luglio 1966, n. 1917 e Cass. 18 maggio 1971, n. 1482) è pacifico che:
a) se in base all’art. 2946 c.c. , la prescrizione ordinaria dei diritti è decennale a meno che la legge disponga diversamente, nel caso dei contributi previdenziali è appunto la legge che dispone diversamente ( L. n. 335 del 1995 cit., art. 3, comma 9);
b) la norma dell’art. 2953 c.c. , non può essere applicata per analogia oltre i casi in essa stabiliti (ex multis: Cass. 29 gennaio 1968, n. 285; Cass. 10 giugno 1999, n. 5710);
c) la prescrizione decennale da “actio judicati”, prevista dall’art. 2953 c.c. , decorre non dal giorno in cui sia possibile l’esecuzione della sentenza né da quello della sua pubblicazione, ma dal momento del suo passaggio in giudicato (tra le tante: Cass. 10 luglio 2014, n. 15765; Cass. 14 luglio 2004, n 13081);
d) la conversione della prescrizione breve in quella decennale per effetto della formazione del titolo giudiziale ex art. 2953 c.c. , ha il proprio fondamento esclusivo nel titolo medesimo, sicché non incide sui diritti non riconducibili a questo e, dunque, non opera per i diritti maturati in periodi successivi a quelli oggetto del giudicato di condanna (Cass. 20 marzo 2013, n. 6967; Cass. 10 giugno 1999, n. 5710 cit.);
e) il generico riferimento al “diritto” per il quale sia stabilita un termine di prescrizione breve contenuto nell’art. 2953 c.c., consente di ritenere che laddove intervenga un giudicato di condanna (anche generica), la conversione del termine di prescrizione breve del diritto in quello decennale si estende pure ai coobbligati solidali anche se rimasti estranei al relativo giudizio (vedi, per tutte: Cass. 13 gennaio 2015, n. 286; Cass. 11 giugno 1999, n. 5762; Cass. 10 marzo 1976, n. 839; Cass. 14 aprile 1972, n. 1173; Cass. 17 giugno 1965, n. 1961; Cass. 17 agosto 1965, n. 1961; Cass. 20 ottobre 1964, n. 2633).
18.2. Quest’ultimo effetto, all’evidenza, si attaglia solo ad un titolo esecutivo giudiziale.
E’ notorio che soltanto un atto giurisdizionale può acquisire autorità ed efficacia di cosa giudicata e, che il giudicato, dal punto di vista processuale, spiega effetto in ogni altro giudizio tra le stesse parti per lo stesso rapporto e dal punto di vista sostanziale rende inoppugnabile il diritto in esso consacrato tanto in ordine ai soggetti ed alla prestazione dovuta quanto all’inesistenza di fatti estintivi, impeditivi o modificativi del rapporto e del credito mentre non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” della originaria domanda (vedi, per tutte: Cass. 12 maggio 2003, n. 7272; Cass. 24 marzo 2006, n. 6628).
Della necessità che vi sia un atto giurisdizionale divenuto cosa giudicata, ai fini dell’applicabilità della conversione del termine prescrizionale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. si ha conferma anche nella consolidata giurisprudenza secondo cui, in tema di riscossione delle imposte e delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, tale conversione non opera se la definitività dell’accertamento deriva non da una sentenza passata in giudicato, ma dalla dichiarazione di estinzione del processo tributario per inattività delle parti (tra le tante, di recente: Cass. 6 marzo 2015, n. 4574).
18.3. Anche il carattere perentorio del termine previsto dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 5, è assodato ed è altrettanto certo che esso è funzionalizzato a rendere non più contestabile il credito contributivo, in caso di omessa tempestiva impugnazione, ed a consentirne una “rapida riscossione” (vedi, ex plurimis Cass. 25 giugno 2007, n. 14692; Cass. 12 marzo 2008, n. 6674; Cass. 5 febbraio 2009, n. 2835; Cass. 15 ottobre 2010, n. 21365; Cass. 19 aprile 2011, n. 8931; Cass. 8 giugno 2015, n. 11749; Cass. 15 marzo 2016, n. 5060).
18.4. Infine, è indubbio che sia la cartella di pagamento sia gli altri titoli che legittimano la riscossione coattiva di crediti dell’Erario e/o degli Enti previdenziali e così via sono atti amministrativi privi dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato (vedi, tra le tante: Cass. 25 maggio 2007, n. 12263; Cass. 16 novembre 2006, n. 24449; Cass. 26 maggio 2003, n. 8335, tutte già citate).
Questo, peraltro, non significa che la scadenza del termine perentorio per proporre opposizione non produca alcun effetto, in quanto tale decorrenza determina la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, producendo l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito.
18.5. Ma è evidente che, per tutte le suddette ragioni, tale scadenza non può certamente comportare l’applicazione l’art. 2953 c.c., ai fini della operatività della conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario decennale, anche perché, fra l’altro, un simile effetto si porrebbe in contrasto con la ratio della perentorietà del termine per l’opposizione.
Se, come si è detto, è pacifico che tale ratio sia quella di consentire una “rapida riscossione” del credito, l’allungamento immotivato del termine prescrizionale in favore dell’ente creditore si porrebbe, all’evidenza, in contrasto con tale ratio, oltre mettere il debitore in una situazione di perenne incertezza in una materia governata dal principio di legalità, cui per primi sono tenuti ad uniformarsi gli stessi Enti della riscossione e creditori.
Né va omesso di ricordare che, in sede di presentazione della “nuova” cartella di pagamento, prevista dal D.Lgs. n. 46 del 1999 , venne sottolineato che la relativa adozione era finalizzata a realizzare la “massima trasparenza e comprensibilità” per i destinatari delle questioni giuridiche da esse implicate, visto che la cartella, oltre a costituire l’estratto del ruolo riferito al singolo contribuente, era destinata ad assorbire anche la funzione di titolo esecutivo e di precetto (messa in mora).
Ci si preoccupava, quindi, di tutelare i diritti del contribuente, al fine di evitare che potesse subire una riscossione coattiva senza comprenderne adeguatamente le ragioni. Il che vale, a maggior ragione, con riguardo ad un eventuale imprevisto allungamento del termine di prescrizione del credito, quale originariamente stabilito.
18.6. Deve anche essere considerato che la prescrizione in materia previdenziale costituisce un istituto del tutto particolare, nel quale il carattere di “di stretta osservanza” e di ordine pubblico della disciplina è particolarmente evidente.
Al riguardo, va ricordato che originariamente il credito degli Enti previdenziali per il recupero dei contributi assicurativi omessi e/o evasi era soggetto alla prescrizione quinquennale, ai sensi del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 55, convertito dalla L. 6 aprile 1936, n. 1155 . La L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 41, ha poi – tranne che per i cd. contributi minori – elevato tale termine di prescrizione a dieci anni, anche per le prescrizioni in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa.
Quindi, la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, non ha fatto altro che ripristinare il tradizionale termine quinquennale, con decorrenza dal giorno 1 gennaio 1996.
Tale ultima disposizione ha altresì reiterato, estendendone l’applicabilità a tutte le assicurazioni obbligatorie, il principio – di ordine pubblico e caratteristico di questo tipo di prescrizione – della “irrinunciabilità della prescrizione”, secondo cui “non è ammessa la possibilità di effettuare versamenti, a regolarizzazione di contributi arretrati, dopo che rispetto ai contributi stessi sia intervenuta la prescrizione” (già previsto dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 55, comma 2 cit.).
Quanto all’impossibilità di effettuare i versamenti dopo il decorso del termine prescrizionale, la nuova norma ha specificato che le contribuzioni di previdenza e di assistenza sociale obbligatoria sono soggette a prescrizione e “non possono essere versate” dopo il decorso del relativo termine. Pertanto, dopo lo spirare di tale termine, l’Ente di previdenza non solo non può procedere all’azione coattiva rivolta al recupero delle omissioni, ma è tenuto a restituire d’ufficio il pagamento del debito prescritto effettuato anche spontaneamente, in deroga alla disposizione contenuta nell’art. 2940 c.c., secondo cui: “Non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto”.
Del resto, è jus receptum che, nella materia previdenziale, a differenza che in quella civile, il regime della prescrizione già maturata è sottratto, ai sensi dell’art. 3, comma 9, della n. 335, alla disponibilità delle parti, sicché una volta esaurito il termine, la prescrizione ha efficacia estintiva – non già preclusiva – in quanto l’ente previdenziale creditore non può rinunziarvi.
Secondo un costante indirizzo ermeneutico di questa Corte il suddetto divieto di effettuare versamenti a regolarizzazione di contributi assicurativi dopo che rispetto agli stessi sia intervenuta la prescrizione – originariamente stabilito dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 55, comma 1, e poi ribadito dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, – rispondendo a “ragioni di ordine pubblico”, opera di diritto indipendentemente dall’eccezione di prescrizione da parte dell’ente previdenziale e del debitore dei contributi ed è rilevabile d’ufficio, senza che l’assicurato abbia diritto a versare contributi previdenziali prescritti e ad ottenere la retrodatazione dell’iscrizione per il periodo coperto da prescrizione. Né rileva l’eventuale inerzia dell’ente previdenziale nel provvedere al recupero delle somme corrispondenti alle contribuzioni, poiché il credito contributivo ha una sua autonoma esistenza, che prescinde dalla richiesta di adempimento avanzata dall’ente previdenziale stesso (vedi, per tutte: Cass., Sez. lav., 15 ottobre 2014, n. 21830; Id. 24 marzo 2005, n. 6340; Id. 16 agosto 2001, n. 11140; Id. 5 ottobre 1998, n. 9865; Id. 6 dicembre 1995, n. 12538; Id. 19 gennaio 1968, n. 131).
18.7. Per effetto della L. 28 settembre 1998, n. 337 (“Delega al Governo per il riordino della disciplina relativa alla riscossione”) fa varata – con decorrenza dall’1 luglio 1999 – una importante riforma volta a rendere più efficiente la riscossione coattiva, che si realizzò con i D.Lgs. n. 37 del 1999, D.Lgs. n. 46 del 1999, e D.Lgs. n. 112 del 1999 (seguiti dai decreti correttivi n. 193 e n. 326 del 1999).
Nell’ambito di tale riforma va inserito anche l’ art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999, con il quale è stato attribuito agli Enti previdenziali il potere di riscuotere i propri crediti attraverso un titolo (il ruolo esattoriale, da cui scaturisce la cartella di pagamento) che si forma prima e al di fuori del giudizio e in forza del quale l’ente può conseguire il soddisfacimento della pretesa a prescindere da una verifica in sede giurisdizionale della sua fondatezza.
Deve essere ricordato che la Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 24 cit., sollevata in riferimento all’art. 111 Cost. , comma 2, ha, da un lato, escluso la irragionevolezza della scelta del legislatore di consentire ad un creditore di formare unilateralmente un titolo esecutivo, ponendo l’accento sulla sua natura pubblicistica e l’affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l’attività. E, dall’altro lato, ha considerato tale scelta rispettosa dei diritti di difesa e dei principi del giusto processo, facendo leva sulla possibilità, concessa al preteso debitore di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, nonché sulla possibilità del debitore di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e/o dell’esecuzione, e, infine, sulla ripartizione dell’onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione (vedi: Corte cost. ord. n. 111 del 2007).
E nella successiva sentenza n. 281 del 2010 la stessa Corte costituzionale ha sottolineato che “soltanto nel giudizio di opposizione alla cartella esattoriale il destinatario di questa ha la possibilità di far accertare l’inesistenza, o la minore entità, del proprio debito. Di qui la centralità di tale momento processuale, del quale la tutela cautelare esperibile con la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo costituisce profilo essenziale”.
Come si vede, il Giudice delle leggi, nel considerare centrale la possibilità dell’instaurazione del giudizio di opposizione, non ha mai neppure ipotizzato che la semplice scadenza del relativo termine potesse dare luogo alla applicazione dell’art. 2953 c.c.
18.8. Al riguardo va ricordato che la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 280 del 2005, ha ribadito il proprio costante indirizzo secondo cui è conforme a Costituzione, e va dall’interprete ricercata, soltanto una ricostruzione del sistema tributario che “non lasci il contribuente esposto, senza limiti temporali, all’azione esecutiva del fisco” ed ha osservato che l’esigenza, pur costituzionalmente inderogabile, di rinvenire termini decadenziali nella materia non può essere soddisfatta facendo riferimento a termini fissati per attività interne all’Amministrazione (nello stesso senso: Corte cost. ordinanza n. 352 del 2004, ivi richiamata).
Nel caso esaminato, da tale principio il Giudice delle leggi ha tratto la conclusione della illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, come modificato dal D.Lgs. n. 193 del 2001, – nella parte relativa alla mancata previsione di un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, – “non essendo consentito, dall’art. 24 Cost. , lasciare il contribuente assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole” ed essendo irragionevole che questo avvenga in ipotesi in cui l’Amministrazione (lato sensu intesa) è chiamata a compiere una semplice operazione di verifica formale.
19. Da ultimo, deve essere escluso – per plurime ragioni – che, per la soluzione della presente questione, si possa fare riferimento alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 20, comma 6, nel testo introdotto dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 683, – che ha sostituito integralmente il suddetto art. 20 – il quale è stato richiamato dall’INPS nella propria memoria.
Il suddetto art. 20, va letto all’interno del D.Lgs. n. 112 del 1999, (e non all’interno della L. n. 190 del 2014 ) che è il decreto attuativo della Legge di delega n. 337 del 1998 dedicato ai rapporti tra ente impositore ed agente della riscossione, che contiene un complessivo riordino della disciplina della riscossione mediante ruoli, basato su una profonda revisione dei rapporti tra ente impositore e agente della riscossione.
Tale revisione risulta principalmente riferita al Servizio nazionale della riscossione mediante ruolo organizzato dal Ministero delle finanze e articolato in ambiti territoriali affidati a concessionari di pubbliche funzioni (vedi D.Lgs. n. 112 cit., art. 2 e ss.).
19.1. Infatti, se in base all’art. 3, del decreto – come regola generale – la concessione del servizio nazionale della riscossione viene affidata con decreto del Ministero delle finanze (comma 4), tuttavia “per le province ed i comuni restano ferme le disposizioni contenute nel D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 52 e 53, e, per gli enti previdenziali, quelle contenute nel Capo III del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241 “.
Nel suindicato Capo III del D.Lgs. n. 241 cit. – intitolato “Disposizioni in materia di riscossione” – è dettata una specifica disciplina in materia di riscossione, applicabile a tutti gli enti previdenziali a decorrere dal 1999 (vedi art. 28) che, ovviamente, non prevede il “discarico per inesigibilità” (introdotto nel nostro sistema dal D.Lgs. n. 112 cit., artt. 19 e 20) contenendo una diversa normativa per sanzionare eventuali ritardi e/o scorrettezze del concessionario (art. 26).
19.2. Peraltro, dalla complessiva lettura del D.Lgs. n. 112 del 1999 , e dai minimi riferimenti espressi in esso contenuti alla riscossione dei contributi effettuata dagli Enti previdenziali (vedi lo stesso D.Lgs. n. 112 cit., art. 22, comma 1, e art. 61), si trae conferma del fatto che si tratta di un decreto principalmente rivolto alla riscossione dei tributi.
19.3. A questo può aggiungersi che, in ogni caso, l’art. 20, comma 6, richiamato dall’INPS, è inutilizzabile nella specie anche perchè – pur nell’ambito della riscossione fiscale si tratta di una norma che non ha alcuna attinenza ai rapporti tra contribuente ed Ente impositore, riguardando – in modo emblematico – i rapporti tra ente impositore ed agente della riscossione come risulta evidente ove si consideri che il Capo II del D.Lgs. n. 112 cit. contiene i “Principi generali dei diritti e degli obblighi del concessionario” e la Sezione I di tale Capo (artt. da 17 a 21) disciplina i “Diritti del concessionario”, regolando il “Discarico per inesigibilità” all’art. 19 e la “Procedura di discarico per inesigibilità e reiscrizione nei ruoli” all’art. 20.
19.4. Può anzi dirsi che tali ultimi due articoli contengano la disciplina più “qualificante” del riordino della riscossione – fiscale – effettuato dal D.Lgs. n. 112 cit., sulla premessa dell’avvenuta eliminazione – ad opera del D.Lgs. n. 37 del 1999, art. 2, emanato in attuazione della stessa Legge di delega n. 337 del 1998, art. 1, lett. c), – del preesistente “obbligo del non riscosso come riscosso”, in base al quale a carico dell’esattore prima e del concessionario poi gravava l’onere di versare alle prescritte scadenze all’ente impositore l’ammontare pro rata dei crediti iscritti a ruolo, anche se non pagati dal debitore ( D.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43, art. 32, comma 3).
L’abolizione di tale obbligo, infatti, ha portato ad un incisivo mutamento dei rapporti tra l’ente impositore e l’agente della riscossione, nel senso che a decorrere dal 1999 quest’ultimo non è dunque più tenuto a riversare all’ente impositore le somme eventualmente corrispondenti ai ruoli trasmessi, ma deve versare soltanto ciò che effettivamente riesce a riscuotere, tempo per tempo.
Di conseguenza tale riforma è stata accompagnata dalla introduzione – per le riscossioni non andate a buon fine – di una procedura diretta a consentire all’agente della riscossione di porre termine alle attività di riscossione effettuate in favore dell’ente impositore.
Tale procedimento, ha assunto il nome di “procedura di discarico per inesigibilità” ed è quella disciplinata dal menzionato D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 19 e ss.
19.5. In base all’art. 19 – al di là delle ipotesi in cui opera il discarico automatico, che sono proprio quelle per le quali l’art. 61, del decreto stabilisce espressamente l’applicabilità della relativa disciplina (di cui all’art. 60, commi da 1 a 3) “ai ruoli degli enti previdenziali” l’agente della riscossione o il concessionario per poter ottenere il discarico delle “quote iscritte a ruolo” indicate nella comunicazione di inesigibilità inviata all’ente creditore, è tenuto a fornire a tale ente la prova della correttezza del proprio operato.
Nel successivo art. 20, il legislatore ha introdotto una procedura con la quale l’ente creditore può svolgere il proprio controllo sull’operato dell’agente della riscossione nel recupero della quota.
Come precisato dalla giurisprudenza, la procedura di discarico per inesigibilità di quote di imposta, di cui al D.Lgs. n. 112 del 1999, artt. 19 e 20, ha carattere meramente amministrativo e riguarda esclusivamente il rapporto giuridico di dare-avere intercorrente tra il concessionario e l’ente creditore, al fine di accertare se sussista o meno il diritto al rimborso (vedi: Cass. SU 29 ottobre 2014, n. 22951; Corte Conti Calabria Sez. giurisdiz. 7 marzo 2011, n. 150; Corte Conti Sicilia Sez. giurisdiz., 4 ottobre 2010, n. 2041).
19.6. Nell’ambito di tale procedura, all’art. 20, comma 6, è stata prevista una “norma generale di salvaguardia per l’ente creditore”, stabilendosi che qualora tale ente, nell’esercizio della propria attività istituzionale individui – successivamente al discarico – l’esistenza di significativi elementi reddituali o patrimoniali riferibili agli stessi debitori, può, “a condizione che non sia decorso il termine di prescrizione decennale”, sulla base di valutazioni di economicità e delle esigenze operative, riaffidare in riscossione le somme, comunicando all’agente della riscossione i nuovi beni da sottoporre a esecuzione, ovvero le azioni cautelari o esecutive da intraprendere. In questo caso, l’azione dell’agente della riscossione deve essere preceduta dalla notifica dell’avviso di intimazione previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 50.
La norma è chiaramente applicabile soltanto alla riscossione fiscale per molteplici ragioni:
a) essa risponde alla medesima logica del precedente art. 19, comma 4, secondo cui “fino al discarico di cui al comma 3”, resta salvo, in ogni momento, il potere dell’ufficio creditore di comunicare al concessionario l’esistenza di nuovi beni da sottoporre ad esecuzione e di segnalare azioni cautelari ed esecutive nonché conservative ed ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore da intraprendere al fine di riscuotere le somme iscritte a ruolo. A tal fine l’ufficio dell’Agenzia delle entrate si avvale anche del potere di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 7), e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 7), (norme che prevedono iniziative di ufficio in materia di accertamento e riscossione, rispettivamente, in materia delle imposte sui redditi e di IVA);
b) fa – utilizzando una espressione ellittica – riferimento al temine di prescrizione decennale, che è quello che si applica ordinariamente all’esercizio del potere di riscossione fiscale (vedi, da ultimo, Cass. 30 giugno 2016, n. 13418 cit.), benché, come si è detto, la Corte costituzionale abbia considerato spesso iniqua per il contribuente l’applicazione di un termine così lungo di prescrizione e abbia anche affermato l’irragionevolezza del trasferimento sul contribuente di termini decadenziali o prescrizionali fissati per attività interne dell’Amministrazione (vedi Corte cost. ord. n. 352 del 2004 e sent. n. 280 del 2005, già citate);
c) nel suo complessivo contenuto risulta incompatibile con il principio di “ordine pubblico” della irrinunciabilità della prescrizione dei contributivi assicurativi in materia di previdenza e assistenza obbligatoria di cui si è detto (vedi: Cass., Sez. lav., 15 ottobre 2014, n. 21830; Id. 24 marzo 2005, n. 6340; Id. 16 agosto 2001, n. 11140; Id. 5 ottobre 1998, n. 9865; Id. 6 dicembre 1995, n. 12538; Id. 19 gennaio 1968, n. 131, tutte citate sopra al punto 18.6).
19.7. In sintesi, il suddetto riferimento alla prescrizione decennale, nell’art. 20, comma 6 cit., risulta effettuato sempre in ambito sostanziale e senza alcun possibile riferimento all’art. 2953 c.c. , visto che pacificamente viene richiamato con riguardo alla attività amministrativa di riscossione – per la quale, in ambito fiscale, vale, come regola generale, il termine ordinario della prescrizione – nell’ambito di una procedura (di discarico per inesigibilità) del pari di natura pacificamente amministrativa.
20.- Per tutte le esposte considerazioni la sentenza impugnata va esente da ogni censura risultando del tutto conforme ai suindicati principi.
3 – Conclusioni.
21. Il ricorso, quindi, deve essere respinto.
22. La questione di massima di particolare importanza sottoposta all’attenzione di queste Sezioni Unite dall’ordinanza di rimessione della Sesta Sezione civile n. 1799 del 2016 – e la ivi denunziata disarmonia riscontratasi tra le pronunce delle diverse Sezioni semplici di questa Corte – possono, pertanto, risolversi, con l’affermazione dei seguenti principi di diritto:
1) “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che dal 1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto ( D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 30, convertito dalla L. n. 122 del 2010)”;
2) “è di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonché di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonché delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.
23. Nulla si dispone per le spese del presente giudizio di cassazione, in quanto A.M. e la SERIT SICILIA s.p.a. sono rimasti intimati.
Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso. Nulla per le spese del presente giudizio di cassazione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’Istituto ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2016.
Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2016