PROGETTISTA RESPONSABILITA’ CON APPALTATORE

PROGETTISTA RESPONSABILITA’ CON APPALTATORE

PUO’ ESSERE  IL PROGETTISTA RITENUTO

RESPONSABILE CON L’IMPRESA ESECUTRICE?

il progettista ha assicurato che si poteva realizzare un muro, idoneo a svolgere funzione di sostegno, ad un costo contenuto secondo il progetto da lui elaborato;

l’appaltatore si è limitato ad eseguire il muro in conformità al progetto.

Da questa ricostruzione discende la diversa attribuzione delle responsabilità nei rapporti interni tra i danneggianti che può dedursi dalla soluzione data dalla sentenza impugnata alle questioni affrontate: si è ritenuto che l’appaltatore risponda per il danno causato dalla rovina del muro, e cioè per i costi legati alla realizzazione di un muro inidoneo e alla sua necessaria eliminazione, non essendo sanabili i difetti del muro stesso, mentre il progettista è stato ritenuto responsabile per ciò che si era impegnato a realizzare, ovvero un muro non con funzione di semplice delimitazione, ma idoneo a svolgere la funzione di muro di contenimento. Se la realizzazione di un effettivo muro di contenimento, dotato della specifiche tecniche indicate dal CTU costa non l’esigua cifra preventivata, ma l’importo ben più cospicuo indicato dallo stesso consulente, questa differenza, nella ricostruzione della corte d’appello, rimane ad esclusivo carico del progettista.

Sulla base di questa ricostruzione assume una sua logica (benchè fallace, per quello che si dirà) la conclusione della corte territoriale nel senso che, nel caso di specie, la responsabilità del progettista fosse più gravosa rispetto a quella dell’appaltatore (che in quest’ottica viene visto come il mero esecutore di un progetto inidoneo allo scopo) e che abbia concluso rigettando l’appello sul presupposto che l’opera prevista dal CTU, i cui costi il ricorrente è stato condannato a corrispondere al committente a titolo di risarcimento del danno, non fosse “un’opera di maggior pregio, bensì quella oggetto della prestazione non esattamente adempiuta” (pag. 9 della sentenza di appello).

Premette che il danneggiato Roberto Poggio, oltre a non aver contestato di aver corrisposto l’importo di € 18.500,00 all’Impresa Solia per la realizzazione del muro (come indicato dall’Ivaldi già in comparsa di costituzione), non ha neppure provato l’ammontare delle spese sostenute, come sarebbe stato suo onere. Afferma quindi che il danno effettivo e risarcibile subito dal committente sia costituito esclusivamente dai costi sostenuti per la realizzazione del muro in conformità al progetto (€ 18.500,00) e dai costi di demolizione dello stesso (€ 6.273,21), per una somma complessiva pari a € 24.773,21, e che non potesse essere comprensivo, come ritenuto dai giudici di merito, del costo integrale di realizzazione di un nuovo muro di tipologia differente rispetto a quello realizzato. Evidenzia che la soluzione prescelta dai giudici di merito dà luogo ad un enorme ed inammissibile arricchimento indebito del danneggiato. 

Osserva che, stante il reale ammontare del danno subito, il Poggio è già stato integralmente risarcito in virtù dell’accordo transattivo con l’impresa Solia; mentre la Corte d’Appello, riconoscendogli il diritto a percepire, oltre a tale somma, l’ulteriore somma di 65.000,000 € per la realizzazione di un nuovo e differente muro, gli avrebbe in sostanza riconosciuto il diritto di acquisire nella sua sfera di disponibilità un muro di contenimento realizzato a regola d’arte senza nulla spendere (e senza dover neppure sostenere i costi legati alla realizzazione del precedente muro inidoneo).

Lamenta che la Corte non abbia applicato il principio secondo il quale la “garanzia” ex art. 1669 c.c. comprende sia il risarcimento del danno, sia l’eliminazione dei vizi dell’opera (quest’ultima coincidente con il risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058 c.c., salvo che il committente richieda che tale eliminazione avvenga per equivalente monetario); e che abbia applicato invece l’art. 1668 c.c., giungendo così ad affermare che il geometra progettista (e non l’appaltatore) dovesse essere condannato, oltre che a sostenere i costi della demolizione del muro inidoneo, addirittura a sostenere i costi della realizzazione del nuovo muro.

Osserva che la Corte d’Appello abbia violato il disposto degli artt. 1669, 2056, 1218 e 1223 c.c., in quanto non ha semplicemente condannato il geometra all’eliminazione dei vizi dell’opera, ma alla realizzazione di un nuovo e diverso bene, con ciò determinando un indebito arricchimento vietato a norma dell’art. 2041 c.c. e violando anche l’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.), in quanto nel nostro ordinamento il risarcimento del danno deve essere volto alla restitutio in integrum (comprensiva di danno emergente e lucro cessante), e non può risolversi invece in un vantaggio per il danneggiato.

Osserva che altra sarebbe la responsabilità del soggetto che contrattualmente si fosse obbligato a realizzare un muro idoneo per un determinato prezzo (in quanto in questo caso l’eventuale inidoneità del muro realizzato non libererebbe l’impresa dall’obbligo, contrattuale, di realizzare un diverso muro idoneo per il prezzo originariamente concordato); altra è l’obbligazione del progettista, che sarà quella, extracontrattuale, della restitutio in integrum del patrimonio del danneggiato (anche nella forma della eliminazione dei vizi, ma non tale da cagionare un arricchimento indebito). Adduce peraltro che, anche a voler considerare l’obbligazione del geometra progettista e direttore dei lavori come contrattuale, non potrebbe comunque porsi a carico di quest’ultimo l’obbligo di realizzare il muro a regola d’arte, posto che tale obbligazione è stata assunta dalla sola impresa appaltatrice, la quale sola, ove condannata a realizzare il muro a regola d’arte, avrebbe eventualmente potuto rivolgersi, a titolo di risarcimento danni per inadempimento contrattuale, nei confronti del progettista.

Rappresenta che, nel caso di responsabilità (extracontrattuale) ex art. 1669 c.c. del progettista e/o direttore dei lavori, una applicazione disattenta del principio del risarcimento inteso come eliminazione dei vizi dell’opera possa condurre a risultati aberranti e in contrasto con la funzione del risarcimento danni in quanto, anziché reintegrare il patrimonio del committente ingiustamente depauperato in conseguenza del fatto illecito, andrebbe ad attribuirgli un vantaggio, a titolo di risarcimento danni, ben superiore al danno economico subito, generando così un arricchimento indebito.

Indica che il procedimento logico da seguire, al fine di non cadere nell’equivoco in cui assume siano incorsi Tribunale e Corte d’Appello, dovrebbe essere quello del raffronto tra la situazione creatasi in conseguenza del fatto illecito e quella che si sarebbe verificata in assenza dello stesso. In particolare, in assenza dell’errata progettazione, integrante l’illecito del geometra, il Poggio non avrebbe avuto diritto alla realizzazione del muro di contenimento del valore indicato dal CTU per il minor prezzo concordato; ma il prezzo del muro sarebbe stato invece quello ben maggiore da ultimo individuato dal CTU. Infine aggiunge che, diversamente opinando, si finirebbe per ritenere responsabile il geometra del fatto che non si sia potuto realizzare un muro con determinate caratteristiche per il minor prezzo individuato dall’impresa in sede di appalto; e che le argomentazioni svolte valgano anche ove la condanna fosse intervenuta per responsabilità contrattuale del geometra (in tal caso vi sarebbe comunque violazione dell’art. 1218 c.c., in quanto non era obbligo del geometra la realizzazione del muro, e pertanto dovrà rispondere solamente ai sensi dell’art. 1223 c.c.).

  1. Il motivo è fondato e va accolto, per le ragioni di seguito esposte.

Va premesso che non emerge con chiarezza, nel ricorso, e neppure nella sentenza impugnata, se l’incarico relativo alla progettazione e direzione dei lavori per la costruzione del muro sia stato conferito al progettista geom. lvaldi dal committente, o dalla ditta appaltatrice, e di conseguenza se l’azione risarcitoria sia stata proposta a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale del progettista da parte del committente o del proprietario del terreno ove l’opera è stata realizzata.

Dalla motivazione della sentenza, sembra di poter inferire che la corte d’appello abbia ritenuto l’esistenza di un rapporto contrattuale diretto tra progettista e committente (v. pag. 8 e 9, e il richiamo all’art. 1668 c.c.), in conseguenza del quale il committente abbia agito non per la risoluzione del contratto ma per ottenere il solo risarcimento del danno.

La motivazione della corte d’appello, laddove reputa più estesa la responsabilità del progettista rispetto a quella dell’appaltatore (e quindi non coperta dall’accordo transattivo che ha estinto l’obbligazione risarcitoria dell’appaltatore), si fonda su alcuni passaggi inespressi, che si possono così ricostruire in base all’esito del ragionamento decisorio:

Il committente ha incaricato il progettista di progettare un muro di sostegno;

il progettista ha assicurato che si poteva realizzare un muro, idoneo a svolgere funzione di sostegno, ad un costo contenuto secondo il progetto da lui elaborato;

l’appaltatore si è limitato ad eseguire il muro in conformità al progetto.

Da questa ricostruzione discende la diversa attribuzione delle responsabilità nei rapporti interni tra i danneggianti che può dedursi dalla soluzione data dalla sentenza impugnata alle questioni affrontate: si è ritenuto che l’appaltatore risponda per il danno causato dalla rovina del muro, e cioè per i costi legati alla realizzazione di un muro inidoneo e alla sua necessaria eliminazione, non essendo sanabili i difetti del muro stesso, mentre il progettista è stato ritenuto responsabile per ciò che si era impegnato a realizzare, ovvero un muro non con funzione di semplice delimitazione, ma idoneo a svolgere la funzione di muro di contenimento. Se la realizzazione di un effettivo muro di contenimento, dotato della specifiche tecniche indicate dal CTU costa non l’esigua cifra preventivata, ma l’importo ben più cospicuo indicato dallo stesso consulente, questa differenza, nella ricostruzione della corte d’appello, rimane ad esclusivo carico del progettista.

Sulla base di questa ricostruzione assume una sua logica (benchè fallace, per quello che si dirà) la conclusione della corte territoriale nel senso che, nel caso di specie, la responsabilità del progettista fosse più gravosa rispetto a quella dell’appaltatore (che in quest’ottica viene visto come il mero esecutore di un progetto inidoneo allo scopo) e che abbia concluso rigettando l’appello sul presupposto che l’opera prevista dal CTU, i cui costi il ricorrente è stato condannato a corrispondere al committente a titolo di risarcimento del danno, non fosse “un’opera di maggior pregio, bensì quella oggetto della prestazione non esattamente adempiuta” (pag. 9 della sentenza di appello).

Non verrà in questa sede affrontata la problematica, pur esistente ma non toccata dal ricorso né dal controricorso, dell’esistenza di un obbligo in capo all’appaltatore, a fronte di un progetto che sia visibilmente contrario alle regole dell’arte, di individuarne le criticità e farle presenti al committente, rifiutandosi di realizzare un’opera che ad un professionista non possa non apparire non rispondente alle regole dell’arte. L’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è infatti obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. In mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori.: v. in questo senso Cass. n. 23594 del 2017. L’appaltatore, essendo tenuto alla realizzazione di un’opera tecnicamente idonea a soddisfare le esigenze del committente risultanti dal contratto, ha il conseguente dovere di rendere edotto il committente medesimo di eventuali obiettive situazioni o carenze del progetto, rilevate o rilevabili con la normale diligenza, ostative all’utilizzazione dell’opera ai fini pattuiti (Cass. n. 1981 del 2016). Le considerazioni che precedono inducono comunque a mettere in discussione in linea teorica la correttezza dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata che ricostruisce come più grave la responsabilità in capo al progettista per un progetto palesemente inidoneo rispetto a quella addebitabile all’appaltatore.

Il ragionamento seguito dalla corte d’appello, anche a prescindere dalla necessità di integrarlo completando deduttivamente passaggi inespressi, è errato nella sua premessa, laddove individua l’oggetto della obbligazione a carico del progettista, che era appunto quella di progettare un’opera con determinate caratteristiche, non anche quella di realizzarla. Il danno conseguente alla errata progettazione, se l’opera realizzata non può essere utilizzata per lo scopo per la quale è stata realizzata e se produce danni a terzi, non può essere in ogni caso comprensivo dei costi di esecuzione dell’opera, con caratteristiche diverse, a regola d’arte.

Anche volendo prescindere dalla qualificazione del rapporto e quindi della responsabilità che ne discende, la decisione impugnata è comunque errata, perché si pone in contrasto con il fondamentale e comune principio secondo il quale ciò che spetta al danneggiato è il diritto all’integrale risarcimento del danno subito e non altro.

Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, il risarcimento del danno per inadempimento contrattuale deve comprendere sia la perdita subita dal creditore, sia il mancato guadagno, quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, al fine di ristabilire l’equilibrio economico turbato, mettendo il creditore nella stessa situazione economica nella quale si sarebbe trovato se il fatto illecito (inadempienza) non si fosse verificato, e, quindi, la somma liquidata a titolo di risarcimento deve essere equivalente all’effettivo valore dell’utilità perduta (Cass. n. 2458 del 1980; Cass. n.12578 del 1995).

Nel caso di specie, il danno effettivamente patito dal proprietario committente e che possa causalmente ricondursi all’operato del progettista è costituito dai costi di realizzazione dell’opera (il muro) da questi progettata, inidonea all’uso, e dai costi necessari per l’eliminazione dei danni provocati, costituiti nel caso di specie nei consti necessari per l’eliminazione del predetto muro.

Diversamente opinando, ossia addebitando al ricorrente il costo integrale di realizzazione di un muro nuovo e avente caratteristiche tecniche differenti rispetto a quello progettato e realizzato, ovvero avente le effettive caratteristiche tecniche necessarie per poter svolgere una funzione di contenimento, per un verso si incorrerebbe nella violazione del principio per cui il risarcimento del danno deve tendere alla mera restitutio in integrum (art. 1223 c.c.), e per l’altro si accorderebbe al danneggiato un vantaggio indebito (in violazione dell’art. 2041 c.c.), consistente nell’ottenere un quid pluris rispetto alla sua situazione antecedente, ossia nel venire a fruire gratuitamente della realizzazione di un’opera.

In definitiva, il progettista, in conseguenza della sua errata progettazione, può essere chiamato a rispondere dei costi della progettazione e della realizzazione dell’opera che ha effettivamente progettato, del risarcimento dei danni a terzi eventualmente provocati dall’opera realizzata non a regola d’arte in conformità dell’errore nella progettazione (siano essi terzi estranei o, come in questo caso, lo stesso committente che ha dovuto rimuovere il muro inidoneo alla funzione di contenimento), ma non anche dei diversi costi di esecuzione dell’opera a regola d’arte, perché ciò non costituisce oggetto della prestazione pattuita, né è un danno conseguente all’illecito. Il ricorso pertanto deve essere accolto, e la sentenza cassata in applicazione del principio sopra espresso.

 

Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, questa Corte, avvalendosi dei poteri di cui all’art. 384, secondo comma c.p.c., può decidere la causa nel merito. Devono a questo scopo essere presi in considerazione, in quanto fondati, i rilievi mossi dal ricorrente alla sentenza impugnata, laddove essa ha ritenuto che non potesse utilmente avvalersi, al fine di accertare l’intervenuta estinzione della propria obbligazione risarcitoria, della transazione conclusa tra l’appaltatore, suo obbligato solidale, e il committente, ai sensi dell’art. 1304 c.p.c..

 

Della responsabilità solidale di appaltatore e progettista o direttore dei lavori non si dubita: è consolidata affermazione nella giurisprudenza della Corte (da ultimo, Cass. n. 3651 del 2016), quella per cui in tema di responsabilità risarcitoria, contrattuale ed extracontrattuale, se l’unico evento dannoso è imputabile a più persone, è sufficiente, al fine di ritenere la solidarietà di tutte nell’obbligo al risarcimento, che le azioni e le omissioni di ciascuna abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse. Pertanto nel caso di danno risentito dal committente di un opera, per concorrenti inadempimenti del progettista e dell’appaltatore, sussistono le condizioni di detta solidarietà, con la conseguenza che il danneggiato può rivolgersi indifferentemente all’uno o all’altro per il risarcimento dell’intero danno e che il debitore escusso ha verso l’altro corresponsabile azione per la ripetizione della parte da esso dovuta.

 

Ciò premesso in ordine al legame di solidarietà che lega i due professionisti, questa Corte ha recentemente puntualizzato (Cass. n. 23418 del 2016, che richiama la pronuncia a Sezioni Unite n. 30174 del 2011) che in presenza di una transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido, è anzitutto da accertare se la transazione abbia riguardato l’intero debito o, invece, abbia avuto ad oggetto unicamente la quota del debitore con cui essa è stata stipulata, riferendosi la previsione dell’art. 1304 c.c. alla prima fattispecie. Mentre nel primo caso – transazione per l’intero – gli altri debitori possono dichiarare di volerne profittare, come previsto dalla menzionata disposizione, con l’effetto che anche per essi opera l’estinzione del debito, nel secondo caso – transazione pro quota – si determina lo scioglimento della solidarietà passiva unicamente rispetto al debitore che vi aderisce, corrispondentemente riducendosi il debito per gli altri. La ratio di tale norma, allorchè il negozio transattivo riguardi l’intero debito, risiede nella comunanza dell’oggetto della transazione, che consente al condebitore in solido di avvalersene, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e, quindi, in deroga al principio dell’art. 1372 c.c. secondo cui il contratto produce effetto solo tra le parti. Viceversa, tale fondamento non sussiste in presenza di una transazione interna per la singola quota, la quale non può coinvolgere gli altri condebitori, che non avrebbero alcun titolo per profittarne e per vedere estendere nei loro confronti l’effetto estintivo della obbligazione: ma, in ogni caso, ne consegue la riduzione del loro debito per effetto di quanto pagato dal debitore transigente.

 

Nel nostro caso, all’accoglimento del motivo di ricorso consegue la caducazione dell’accertamento, contenuto nella sentenza impugnata, secondo la quale l’appaltatore avrebbe transatto non l’intero debito ma solo la quota di sua spettanza, ed anche la conseguente esclusione dell’applicabilità dell’art. 1304 c.c.

 

Deve al contrario affermarsi che, poiché nel caso di specie l’obbligazione risarcitoria del progettista comprende le stesse voci risarcitorie a carico dell’appaltatore, che sono comprese nell’accordo transattivo e coperte dalla transazione (pari ai costi sostenuti per la costruzione del muro, conforme al progetto ma inidoneo all’uso e per la sua eliminazione), il progettista si possa utilmente giovare – come richiesto fin dal primo grado – della transazione conclusa dal suo condebitore solidale onde ritenere estinta anche nei suoi confronti l’obbligazione risarcitoria. Conseguentemente, decidendo nel merito, la domanda risarcitoria del Poggio verso il progettista va rigettata, in quanto il suo credito risarcitorio si è integralmente estinto, anche nei confronti dell’Ivaldi, in virtù della transazione conclusa con la impresa Solia già prima dell’inizio del giudizio di merito, in applicazione dell’art. 1304 c.c.

 

CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, Sez. 3^ 21/06/2018 (Ud. 14/03/2018), Ordinanza n.16323 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

omissis

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 13382-2016 proposto da:

IVALDI SERGIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. DENZA 15, presso lo studio dell’avvocato STEFANO MASTROLILLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO TRAVERSO giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

  

contro

POGGIO ROBERTO, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DEL POPOLO, 18, presso lo studio dell’avvocato MARIA ELENA RIBALDONE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIO GIUSEPPE FERRARI giusta procura in calce al controricorso; 

– controricorrente – 

avverso la sentenza n. 98/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 21/01/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/03/2018 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

I FATTI DI CAUSA 

  1. Nel 2009 Roberto Poggio conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Acqui Terme il geometra Sergio Ivaldi, rappresentando di essere proprietario di un capannone ad uso agricolo su un terreno delimitato da un muro di contenimento, realizzato dall’impresa Solia Lorenzo, con progettazione e direzione dei lavori affidati, nel 2002, al geometra Ivaldi; di aver riscontrato, nel 2008, un cedimento del predetto muro di contenimento; di aver richiesto quindi un accertamento tecnico preventivo nei confronti dell’impresa Solia e del geometra, all’esito del quale il CTU affermava che il manufatto realizzato era privo delle caratteristiche tecniche di cui deve essere dotato un muro di contenimento (in quanto privo di opere di drenaggio, di armature in ferro, dotato di fondazioni sottodimensionate), ed indicava come unica soluzione possibile la demolizione del muro con conseguente realizzazione ex novo di un muro dotato di differenti e idonee caratteristiche tecniche (per un costo pari a 96.786,00 €, oltre IVA e spese tecniche); di aver raggiunto un accordo transattivo con l’Impresa Solia (in virtù del quale essa gli corrispondeva l’importo di 27.000 € a titolo di risarcimento del danno).

Tutto ciò premesso, agiva nei confronti del geometra Ivaldi, progettista e direttore dei lavori, per il risarcimento integrale dei danni, quantificati nell’importo indicato dal CTU per la realizzazione di un muro dotato delle necessarie specifiche tecniche e costruito a regola d’arte.

Sergio Ivaldi si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto della domanda avversaria e proponendo a sua volta domanda riconvenzionale di condanna del committente al pagamento dei compensi per alcune prestazioni professionali svolte; nell’eventualità che fosse giudizialmente accertata la sua responsabilità, chiedeva di essere manlevato da due compagnie assicurative che chiamava in causa previa autorizzazione.

Si costiturvano UGF Assicurazioni s.p.a. e FONDIARIA-SAI s.p.a., eccependo preliminarmente l’inoperatività delle rispettive polizze e chiedendo entrambe il rigetto della domanda attorea.

  1. Esperita l’istruttoria ammessa e la CTU, il Tribunale di Alessandria pronunciava sentenza n. 37/2014 con cui condannava Sergio Ivaldi al pagamento in favore dell’attore della somma di € 65.556,00 oltre oneri accessori ed interessi legali (quantificandone il credito risarcitorio in € 92.556,00 pari all’importo di spesa necessario per la costruzione di un muro di contenimento a regola d’arte, dai quali detraeva € 27 .000 già percepiti dal Poggio in forza dell’accordo transattivo con l’Impresa Solia); condannava Roberto Poggio al pagamento in favore del convenuto della somma di€ 6.824,00 oltre accessori per altre prestazioni dallo stesso eseguite e rigettava le domande di manleva nei confronti delle compagnie di assicurazione.
  1. Contro tale sentenza, nel 2014 proponeva appello l’Ivaldi non contestando la propria corresponsabilità nel cedimento del muro, ma lamentando l’erroneità della quantificazione del danno, in suo pregiudizio, in quanto tale da determinare un indebito arricchimento a suo danno del danneggiato, che avrebbe goduto della realizzazione di un’opera qualitativamente diversa e di ben maggior valore rispetto a quella che l’Ivaldi era stato incaricato di progettare. Con altro motivo di appello, l’odierno ricorrente sosteneva che la transazione conclusa prima dell’inizio della causa tra il committente e la società appaltatrice avesse ad oggetto l’intero danno, e non solo la quota corrispondente alla responsabilità propria della ditta appaltatrice, e ribadiva la sua domanda di volerne profittare, quale obbligato solidale, ai sensi dell’art. 1304 c.c..

Si costituiva in giudizio Roberto Poggio. La UnipolSai Assicurazioni s.p.a., incorporante le due compagnie di assicurazioni, si costituiva in giudizio con due distinte comparse di costituzione e risposta.

  1. La Corte d’Appello di Torino rigettava l’impugnazione. In particolare, premesso che i manufatti che l’Ivaldi aveva accettato di progettare avrebbero dovuto essere muri di contenimento, che il muro effettivamente progettato e poi realizzato non aveva caratteristiche tali da renderlo idoneo a svolgere tale funzione; che la demolizione del manufatto edificato e la realizzazione di un effettivo muro di contenimento fossero necessarie al fine di vedere realizzato quanto promesso al Poggio; che, avendo il Poggio chiesto il solo risarcimento del danno (e non la risoluzione del contratto), per compensare il pregiudizio arrecatogli dall’inadempimento e la restaurazione della sua situazione patrimoniale fosse quindi necessario quantificare il costo della realizzazione del medesimo muro di contenimento, con la previsione delle caratteristiche prescritte dalla regola dell’arte; che l’opera prevista dal CTU non fosse altro che un muro di contenimento idoneo, e dunque non un’opera di maggior pregio rispetto a quanto pattuito (determinante pertanto l’acquisizione di una utilità economica eccedente) ma quella oggetto della prestazione non esattamente adempiuta e che, laddove più costosa, lo sarebbe stata solo in quanto realizzata a regola d’arte.

Rigettava anche il motivo di appello relativo alla volontà del progettista di avvalersi della transazione conclusa tra committente ed appaltatore, confermando sul punto la decisione di primo grado, in base alla quale, pur non avendo il committente contestato che fosse intervenuta la transazione e neppure di aver ricevuto dalla ditta appaltatrice l’importo concordato nella transazione a titolo di risarcimento del danno prima dell’inizio del giudizio nei confronti dell’Ivaldi, in mancanza di una copia in atti della transazione dalla quale poter desumere il suo effettivo oggetto, dovesse ritenersi non provato che la transazione riguardasse l’intera pretesa risarcitoria del committente e non piuttosto la sola quota di responsabilità della ditta appaltatrice, di ben minore entità rispetto a quella addebitabile al professionista. Di conseguenza, pur ribadendo che si dovesse tener conto dell’importo transatto (come del resto aveva fatto il giudice di primo grado) per decurtarlo dalla somma che il progettista dovesse essere concretamente condannato a pagare, escludeva che il progettista appellante si potesse giovare, per ritenere integralmente estinta la propria obbligazione risarcitoria, della transazione conclusa dagli altri due soggetti in quanto non estintiva dell’intero credito risarcitorio del committente.

  1. Contro la sentenza n. 98/2016, depositata il 21.1.2016, della Corte d’Appello di Torino Sezione Quarta propone ricorso per Cassazione, con un unico motivo, Sergio lvaldi.

Resiste con controricorso Roberto Poggio.

La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Con l’unico motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 1669, 2041, 1218, 2056 e 1223 c.c., art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.).

Premette che il danneggiato Roberto Poggio, oltre a non aver contestato di aver corrisposto l’importo di € 18.500,00 all’Impresa Solia per la realizzazione del muro (come indicato dall’Ivaldi già in comparsa di costituzione), non ha neppure provato l’ammontare delle spese sostenute, come sarebbe stato suo onere. Afferma quindi che il danno effettivo e risarcibile subito dal committente sia costituito esclusivamente dai costi sostenuti per la realizzazione del muro in conformità al progetto (€ 18.500,00) e dai costi di demolizione dello stesso (€ 6.273,21), per una somma complessiva pari a € 24.773,21, e che non potesse essere comprensivo, come ritenuto dai giudici di merito, del costo integrale di realizzazione di un nuovo muro di tipologia differente rispetto a quello realizzato. Evidenzia che la soluzione prescelta dai giudici di merito dà luogo ad un enorme ed inammissibile arricchimento indebito del danneggiato. 

Osserva che, stante il reale ammontare del danno subito, il Poggio è già stato integralmente risarcito in virtù dell’accordo transattivo con l’impresa Solia; mentre la Corte d’Appello, riconoscendogli il diritto a percepire, oltre a tale somma, l’ulteriore somma di 65.000,000 € per la realizzazione di un nuovo e differente muro, gli avrebbe in sostanza riconosciuto il diritto di acquisire nella sua sfera di disponibilità un muro di contenimento realizzato a regola d’arte senza nulla spendere (e senza dover neppure sostenere i costi legati alla realizzazione del precedente muro inidoneo).

Lamenta che la Corte non abbia applicato il principio secondo il quale la “garanzia” ex art. 1669 c.c. comprende sia il risarcimento del danno, sia l’eliminazione dei vizi dell’opera (quest’ultima coincidente con il risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058 c.c., salvo che il committente richieda che tale eliminazione avvenga per equivalente monetario); e che abbia applicato invece l’art. 1668 c.c., giungendo così ad affermare che il geometra progettista (e non l’appaltatore) dovesse essere condannato, oltre che a sostenere i costi della demolizione del muro inidoneo, addirittura a sostenere i costi della realizzazione del nuovo muro.

Osserva che la Corte d’Appello abbia violato il disposto degli artt. 1669, 2056, 1218 e 1223 c.c., in quanto non ha semplicemente condannato il geometra all’eliminazione dei vizi dell’opera, ma alla realizzazione di un nuovo e diverso bene, con ciò determinando un indebito arricchimento vietato a norma dell’art. 2041 c.c. e violando anche l’art. 1223 c.c. (richiamato dall’art. 2056 c.c.), in quanto nel nostro ordinamento il risarcimento del danno deve essere volto alla restitutio in integrum (comprensiva di danno emergente e lucro cessante), e non può risolversi invece in un vantaggio per il danneggiato.

Osserva che altra sarebbe la responsabilità del soggetto che contrattualmente si fosse obbligato a realizzare un muro idoneo per un determinato prezzo (in quanto in questo caso l’eventuale inidoneità del muro realizzato non libererebbe l’impresa dall’obbligo, contrattuale, di realizzare un diverso muro idoneo per il prezzo originariamente concordato); altra è l’obbligazione del progettista, che sarà quella, extracontrattuale, della restitutio in integrum del patrimonio del danneggiato (anche nella forma della eliminazione dei vizi, ma non tale da cagionare un arricchimento indebito). Adduce peraltro che, anche a voler considerare l’obbligazione del geometra progettista e direttore dei lavori come contrattuale, non potrebbe comunque porsi a carico di quest’ultimo l’obbligo di realizzare il muro a regola d’arte, posto che tale obbligazione è stata assunta dalla sola impresa appaltatrice, la quale sola, ove condannata a realizzare il muro a regola d’arte, avrebbe eventualmente potuto rivolgersi, a titolo di risarcimento danni per inadempimento contrattuale, nei confronti del progettista.

Rappresenta che, nel caso di responsabilità (extracontrattuale) ex art. 1669 c.c. del progettista e/o direttore dei lavori, una applicazione disattenta del principio del risarcimento inteso come eliminazione dei vizi dell’opera possa condurre a risultati aberranti e in contrasto con la funzione del risarcimento danni in quanto, anziché reintegrare il patrimonio del committente ingiustamente depauperato in conseguenza del fatto illecito, andrebbe ad attribuirgli un vantaggio, a titolo di risarcimento danni, ben superiore al danno economico subito, generando così un arricchimento indebito.

Indica che il procedimento logico da seguire, al fine di non cadere nell’equivoco in cui assume siano incorsi Tribunale e Corte d’Appello, dovrebbe essere quello del raffronto tra la situazione creatasi in conseguenza del fatto illecito e quella che si sarebbe verificata in assenza dello stesso. In particolare, in assenza dell’errata progettazione, integrante l’illecito del geometra, il Poggio non avrebbe avuto diritto alla realizzazione del muro di contenimento del valore indicato dal CTU per il minor prezzo concordato; ma il prezzo del muro sarebbe stato invece quello ben maggiore da ultimo individuato dal CTU. Infine aggiunge che, diversamente opinando, si finirebbe per ritenere responsabile il geometra del fatto che non si sia potuto realizzare un muro con determinate caratteristiche per il minor prezzo individuato dall’impresa in sede di appalto; e che le argomentazioni svolte valgano anche ove la condanna fosse intervenuta per responsabilità contrattuale del geometra (in tal caso vi sarebbe comunque violazione dell’art. 1218 c.c., in quanto non era obbligo del geometra la realizzazione del muro, e pertanto dovrà rispondere solamente ai sensi dell’art. 1223 c.c.).

  1. Il motivo è fondato e va accolto, per le ragioni di seguito esposte.

Va premesso che non emerge con chiarezza, nel ricorso, e neppure nella sentenza impugnata, se l’incarico relativo alla progettazione e direzione dei lavori per la costruzione del muro sia stato conferito al progettista geom. lvaldi dal committente, o dalla ditta appaltatrice, e di conseguenza se l’azione risarcitoria sia stata proposta a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale del progettista da parte del committente o del proprietario del terreno ove l’opera è stata realizzata.

Dalla motivazione della sentenza, sembra di poter inferire che la corte d’appello abbia ritenuto l’esistenza di un rapporto contrattuale diretto tra progettista e committente (v. pag. 8 e 9, e il richiamo all’art. 1668 c.c.), in conseguenza del quale il committente abbia agito non per la risoluzione del contratto ma per ottenere il solo risarcimento del danno.

La motivazione della corte d’appello, laddove reputa più estesa la responsabilità del progettista rispetto a quella dell’appaltatore (e quindi non coperta dall’accordo transattivo che ha estinto l’obbligazione risarcitoria dell’appaltatore), si fonda su alcuni passaggi inespressi, che si possono così ricostruire in base all’esito del ragionamento decisorio:

Il committente ha incaricato il progettista di progettare un muro di sostegno;

il progettista ha assicurato che si poteva realizzare un muro, idoneo a svolgere funzione di sostegno, ad un costo contenuto secondo il progetto da lui elaborato;

l’appaltatore si è limitato ad eseguire il muro in conformità al progetto.

Da questa ricostruzione discende la diversa attribuzione delle responsabilità nei rapporti interni tra i danneggianti che può dedursi dalla soluzione data dalla sentenza impugnata alle questioni affrontate: si è ritenuto che l’appaltatore risponda per il danno causato dalla rovina del muro, e cioè per i costi legati alla realizzazione di un muro inidoneo e alla sua necessaria eliminazione, non essendo sanabili i difetti del muro stesso, mentre il progettista è stato ritenuto responsabile per ciò che si era impegnato a realizzare, ovvero un muro non con funzione di semplice delimitazione, ma idoneo a svolgere la funzione di muro di contenimento. Se la realizzazione di un effettivo muro di contenimento, dotato della specifiche tecniche indicate dal CTU costa non l’esigua cifra preventivata, ma l’importo ben più cospicuo indicato dallo stesso consulente, questa differenza, nella ricostruzione della corte d’appello, rimane ad esclusivo carico del progettista.

Sulla base di questa ricostruzione assume una sua logica (benchè fallace, per quello che si dirà) la conclusione della corte territoriale nel senso che, nel caso di specie, la responsabilità del progettista fosse più gravosa rispetto a quella dell’appaltatore (che in quest’ottica viene visto come il mero esecutore di un progetto inidoneo allo scopo) e che abbia concluso rigettando l’appello sul presupposto che l’opera prevista dal CTU, i cui costi il ricorrente è stato condannato a corrispondere al committente a titolo di risarcimento del danno, non fosse “un’opera di maggior pregio, bensì quella oggetto della prestazione non esattamente adempiuta” (pag. 9 della sentenza di appello).

Non verrà in questa sede affrontata la problematica, pur esistente ma non toccata dal ricorso né dal controricorso, dell’esistenza di un obbligo in capo all’appaltatore, a fronte di un progetto che sia visibilmente contrario alle regole dell’arte, di individuarne le criticità e farle presenti al committente, rifiutandosi di realizzare un’opera che ad un professionista non possa non apparire non rispondente alle regole dell’arte. L’appaltatore, dovendo assolvere al proprio dovere di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, è infatti obbligato a controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale “nudus minister”, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo. In mancanza di tale prova, l’appaltatore è tenuto, a titolo di responsabilità contrattuale, derivante dalla sua obbligazione di risultato, all’intera garanzia per le imperfezioni o i vizi dell’opera, senza poter invocare il concorso di colpa del progettista o del committente, né l’efficacia esimente di eventuali errori nelle istruzioni impartite dal direttore dei lavori.: v. in questo senso Cass. n. 23594 del 2017. L’appaltatore, essendo tenuto alla realizzazione di un’opera tecnicamente idonea a soddisfare le esigenze del committente risultanti dal contratto, ha il conseguente dovere di rendere edotto il committente medesimo di eventuali obiettive situazioni o carenze del progetto, rilevate o rilevabili con la normale diligenza, ostative all’utilizzazione dell’opera ai fini pattuiti (Cass. n. 1981 del 2016). Le considerazioni che precedono inducono comunque a mettere in discussione in linea teorica la correttezza dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata che ricostruisce come più grave la responsabilità in capo al progettista per un progetto palesemente inidoneo rispetto a quella addebitabile all’appaltatore.

Il ragionamento seguito dalla corte d’appello, anche a prescindere dalla necessità di integrarlo completando deduttivamente passaggi inespressi, è errato nella sua premessa, laddove individua l’oggetto della obbligazione a carico del progettista, che era appunto quella di progettare un’opera con determinate caratteristiche, non anche quella di realizzarla. Il danno conseguente alla errata progettazione, se l’opera realizzata non può essere utilizzata per lo scopo per la quale è stata realizzata e se produce danni a terzi, non può essere in ogni caso comprensivo dei costi di esecuzione dell’opera, con caratteristiche diverse, a regola d’arte.

Anche volendo prescindere dalla qualificazione del rapporto e quindi della responsabilità che ne discende, la decisione impugnata è comunque errata, perché si pone in contrasto con il fondamentale e comune principio secondo il quale ciò che spetta al danneggiato è il diritto all’integrale risarcimento del danno subito e non altro.

Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, il risarcimento del danno per inadempimento contrattuale deve comprendere sia la perdita subita dal creditore, sia il mancato guadagno, quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, al fine di ristabilire l’equilibrio economico turbato, mettendo il creditore nella stessa situazione economica nella quale si sarebbe trovato se il fatto illecito (inadempienza) non si fosse verificato, e, quindi, la somma liquidata a titolo di risarcimento deve essere equivalente all’effettivo valore dell’utilità perduta (Cass. n. 2458 del 1980; Cass. n.12578 del 1995).

Nel caso di specie, il danno effettivamente patito dal proprietario committente e che possa causalmente ricondursi all’operato del progettista è costituito dai costi di realizzazione dell’opera (il muro) da questi progettata, inidonea all’uso, e dai costi necessari per l’eliminazione dei danni provocati, costituiti nel caso di specie nei consti necessari per l’eliminazione del predetto muro.

Diversamente opinando, ossia addebitando al ricorrente il costo integrale di realizzazione di un muro nuovo e avente caratteristiche tecniche differenti rispetto a quello progettato e realizzato, ovvero avente le effettive caratteristiche tecniche necessarie per poter svolgere una funzione di contenimento, per un verso si incorrerebbe nella violazione del principio per cui il risarcimento del danno deve tendere alla mera restitutio in integrum (art. 1223 c.c.), e per l’altro si accorderebbe al danneggiato un vantaggio indebito (in violazione dell’art. 2041 c.c.), consistente nell’ottenere un quid pluris rispetto alla sua situazione antecedente, ossia nel venire a fruire gratuitamente della realizzazione di un’opera.

In definitiva, il progettista, in conseguenza della sua errata progettazione, può essere chiamato a rispondere dei costi della progettazione e della realizzazione dell’opera che ha effettivamente progettato, del risarcimento dei danni a terzi eventualmente provocati dall’opera realizzata non a regola d’arte in conformità dell’errore nella progettazione (siano essi terzi estranei o, come in questo caso, lo stesso committente che ha dovuto rimuovere il muro inidoneo alla funzione di contenimento), ma non anche dei diversi costi di esecuzione dell’opera a regola d’arte, perché ciò non costituisce oggetto della prestazione pattuita, né è un danno conseguente all’illecito. Il ricorso pertanto deve essere accolto, e la sentenza cassata in applicazione del principio sopra espresso.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, questa Corte, avvalendosi dei poteri di cui all’art. 384, secondo comma c.p.c., può decidere la causa nel merito. Devono a questo scopo essere presi in considerazione, in quanto fondati, i rilievi mossi dal ricorrente alla sentenza impugnata, laddove essa ha ritenuto che non potesse utilmente avvalersi, al fine di accertare l’intervenuta estinzione della propria obbligazione risarcitoria, della transazione conclusa tra l’appaltatore, suo obbligato solidale, e il committente, ai sensi dell’art. 1304 c.p.c..

Della responsabilità solidale di appaltatore e progettista o direttore dei lavori non si dubita: è consolidata affermazione nella giurisprudenza della Corte (da ultimo, Cass. n. 3651 del 2016), quella per cui in tema di responsabilità risarcitoria, contrattuale ed extracontrattuale, se l’unico evento dannoso è imputabile a più persone, è sufficiente, al fine di ritenere la solidarietà di tutte nell’obbligo al risarcimento, che le azioni e le omissioni di ciascuna abbiano concorso in modo efficiente a produrre l’evento, a nulla rilevando che costituiscano autonomi e distinti fatti illeciti, o violazioni di norme giuridiche diverse. Pertanto nel caso di danno risentito dal committente di un opera, per concorrenti inadempimenti del progettista e dell’appaltatore, sussistono le condizioni di detta solidarietà, con la conseguenza che il danneggiato può rivolgersi indifferentemente all’uno o all’altro per il risarcimento dell’intero danno e che il debitore escusso ha verso l’altro corresponsabile azione per la ripetizione della parte da esso dovuta.

Ciò premesso in ordine al legame di solidarietà che lega i due professionisti, questa Corte ha recentemente puntualizzato (Cass. n. 23418 del 2016, che richiama la pronuncia a Sezioni Unite n. 30174 del 2011) che in presenza di una transazione tra il creditore ed uno dei debitori in solido, è anzitutto da accertare se la transazione abbia riguardato l’intero debito o, invece, abbia avuto ad oggetto unicamente la quota del debitore con cui essa è stata stipulata, riferendosi la previsione dell’art. 1304 c.c. alla prima fattispecie. Mentre nel primo caso – transazione per l’intero – gli altri debitori possono dichiarare di volerne profittare, come previsto dalla menzionata disposizione, con l’effetto che anche per essi opera l’estinzione del debito, nel secondo caso – transazione pro quota – si determina lo scioglimento della solidarietà passiva unicamente rispetto al debitore che vi aderisce, corrispondentemente riducendosi il debito per gli altri. La ratio di tale norma, allorchè il negozio transattivo riguardi l’intero debito, risiede nella comunanza dell’oggetto della transazione, che consente al condebitore in solido di avvalersene, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e, quindi, in deroga al principio dell’art. 1372 c.c. secondo cui il contratto produce effetto solo tra le parti. Viceversa, tale fondamento non sussiste in presenza di una transazione interna per la singola quota, la quale non può coinvolgere gli altri condebitori, che non avrebbero alcun titolo per profittarne e per vedere estendere nei loro confronti l’effetto estintivo della obbligazione: ma, in ogni caso, ne consegue la riduzione del loro debito per effetto di quanto pagato dal debitore transigente.

Nel nostro caso, all’accoglimento del motivo di ricorso consegue la caducazione dell’accertamento, contenuto nella sentenza impugnata, secondo la quale l’appaltatore avrebbe transatto non l’intero debito ma solo la quota di sua spettanza, ed anche la conseguente esclusione dell’applicabilità dell’art. 1304 c.c.

Deve al contrario affermarsi che, poiché nel caso di specie l’obbligazione risarcitoria del progettista comprende le stesse voci risarcitorie a carico dell’appaltatore, che sono comprese nell’accordo transattivo e coperte dalla transazione (pari ai costi sostenuti per la costruzione del muro, conforme al progetto ma inidoneo all’uso e per la sua eliminazione), il progettista si possa utilmente giovare – come richiesto fin dal primo grado – della transazione conclusa dal suo condebitore solidale onde ritenere estinta anche nei suoi confronti l’obbligazione risarcitoria. Conseguentemente, decidendo nel merito, la domanda risarcitoria del Poggio verso il progettista va rigettata, in quanto il suo credito risarcitorio si è integralmente estinto, anche nei confronti dell’Ivaldi, in virtù della transazione conclusa con la impresa Solia già prima dell’inizio del giudizio di merito, in applicazione dell’art. 1304 c.c.

La non piena chiarezza nella esposizione dei rapporti tra le parti, che può aver pregiudicato la adeguata ricostruzione giuridica della fattispecie, induce a compensare le spese di giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda di Poggio Roberto nei confronti di Ivaldi Sergio.

Spese compensate.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 14.3.2018