Al committente non possono ascriversi colpe per scelte tecniche demandate a soggetti qualificati

 

Al committente non possono ascriversi colpe per scelte tecniche demandate a soggetti qualificati

BOLOGNA MILANO VICENZA TREVISO BOLOGNA RAVENNA FORLI CESENA  DIRITTO IMPRESA

COSA E’ SUCCESSO

del reato di cui agli articoli 113, 434/449 c.p. per avere, in cooperazione tra loro, per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza di regole di sicurezza nell’esecuzione di lavori edili, cagionato il crollo del complesso edilizio sito in Castro, prospiciente piazza Dante; in particolare, premesso che la situazione del banco di calcarenite e dell’intero complesso, prima dell’evento, si era evoluta secondo la seguente scansione temporale:
– nella originaria condizione di equilibrio i carichi agenti, gravanti sui locali- grotta adibiti ad attività commerciali denominate “Speranbar”, “F.”, “Bar pasticceria Le delizie”, “Sport pesca mare”, erano rappresentati dal solo peso proprio del banco che ne costituiva la copertura;
– in epoche successive, ai suddetti carichi naturali, si aggiungevano altri, conseguenti ad interventi dell’uomo e rappresentati dal peso delle costruzioni sovrastanti che hanno poi subito successivi progressivi incrementi dovuti a sopraelevazioni e superfetazioni;
– all’origine i carichi gravanti sui suddetti locali disponevano di numerosi percorsi per raggiungere il terreno di fondazione e questa condizione ne ha garantito l’equilibrio nel corso dei molti anni che hanno preceduto il crollo nonostante il progressivo ridursi degli itinerari conseguenti ad interventi dell’uomo;
– come emerso dal confronto tra lo stato dei luoghi al momento del crollo e i documenti risalenti a molti anni in precedenza, gli interventi anche parzialmente demolitivi sono stati eseguiti in diverse occasioni ed in tempi differenti;
– gli interventi di maggior rilievo sono stati quelli di riduzione delle dimensioni delle pareti portanti di calcarenite, un tempo presenti sulla facciata del banco, per ampliare i varchi d’ingresso alle grotte; nella graduale progressiva erosione, anche mediante la realizzazione di nicchie nel tufo, delle pareti portanti di calcarenite che fungevano anche da elementi divisori tra grotte contigue, sino alla loro quasi totale eliminazione; nella realizzazione e nel successivo ampliamento di nicchie nelle pareti di fondo delle grotte; nella erosione delle stesse pareti portanti di fondo delle grotte, nell’intento dichiarato di regolarizzarne la superficie, ma col fine di incrementare la superficie utile del locale;
– ciascuno dei suddetti interventi provocava il danneggiamento o la totale eliminazione di uno o più percorsi utilizzati dai carichi per raggiungere il terreno di fondazione, costringendo di conseguenza i carichi a modificare i loro itinerari, con-centrandosi sempre più intensamente in quelli ancora disponibili;
– in siffatta antecedente concatenazione causale,

DECISIONE

Fuori discussione, ad avviso del Collegio, è che il crollo che ebbe a realizzarsi presenta tutti i caratteri perché possano ipotizzarsi a carico di chi se ne dimostri responsabile gli aspetti del crollo colposo, riconducibile al reato di cui agli artt. 424 e 449 del codice penale.
Va richiamata, in proposito, la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale per configurare il delitto di crollo colposo è necessario che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante (ex plurimis, vedasi questa Sez. 4, Sentenza n. 18432 del 1/04/2014, dep. il 2015, Papiani ed altri, Rv. 263886).
Ai fini dell’integrazione del reato di cui agli art. 434 e 449 del codice penela, per crollo di costruzione, totale o parziale, deve intendersi la caduta violenta ed improvvisa della stessa accompagnata dal pericolo della produzione di un danno notevole alle persone, senza che sia necessaria la disintegrazione delle strutture essenziali dell’edificio (così Sez. 4, n. 2390 del 13/11/2011 dep. il 2012 in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in presenza del distacco completo, su una linea lunga circa 150 metri, del rivestimento di mattoni che rivestiva la parete esterna di un edificio scolastico).
Nel delineare la differenza rispetto all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 676 del codice penale questa Corte di legittimità ha precisato che nel delitto di crollo colposo si richiede che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante; invece, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici non è necessaria una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone (così la sopra citata Sez. 4, n. 18432 del 1/4/2014 in cui la Corte ha qualificato l’originaria imputazione di cui agli artt. 434 e 449 cod. pen., riferita ad un caso in cui si era verificato, durante lavori di straordinaria manutenzione, il crollo del solaio, senza interessamento delle strutture portanti e senza danni alle persone, nella contravvenzione di cui all’art. 676, co. 2, cod. pen). Era stato anche precisato, in una precedente pronuncia, che il concreto pericolo per la pubblica incolumità deve essere valutato ex ante (Sez. 1, n. 47475 del 29/10/2003, Bottoli ed altri, Rv. 226459).
In particolare, quanto ai tecnici, si è affermato, di recente, che in tema di crollo colposo di costruzioni conseguente ad evento sismico è configurabile la responsabilità a titolo di cooperazione colposa del direttore dei lavori e del direttore tecnico di cantiere i quali, durante i lavori di ampliamento della sede di una facoltà universitaria, abbiano omesso di verificare (il primo) la conformità agli elaborati
progettuali e (il secondo) la F.M.R. esecuzione del progetto e la conformità alle condizioni contrattuali dell’impiego dei materiali previsti, qualora tali condotte siano state una concausa del crollo, unitamente all’evento sismico (così Sez. 4, n. 2378 del 8/7/2016 dep. il 2017, Benedetto ed altro, Rv. 268874 che, in applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la condotta degli imputati per non aver controllato, nelle rispettive qualità, l’effettiva realizzazione degli elementi di rinforzo ed irrigidimento previsti dal progetto per consolidare la struttura, in quanto tali accorgimenti avrebbero impedito o almeno in parte evitato il crollo, non potendo altresì considerarsi la scossa sismica – verificatasi in zona notoriamente soggetta a tale rischio – una causa sopravvenuta idonea da sola a determinare l’evento).
Nel caso in esame, il giudice di merito ha evidenziato come dall’istruttoria era emerso che il crollo aveva interessato un’area ampia, in pieno centro cittadino, e che il crollo non ha avuto esiti letali solo per la circostanza che è avvenuto di sabato pomeriggio. E perche, come ricorda la sentenza di primo grado a pag. 10 attraverso la testimonianza di V. E., R.F. e C.M.A. si accorsero per tempo di quanto stava per accadere e invitarono i presenti nel bar a scappare.
Pur in assenza di danni alle persone, tuttavia, le dimensioni del crollo, la loro diffusione in zone di transito di persone, con valutazione ex ante, hanno messo in pericolo la pubblica incolumità.
Pertanto, tenuto anche conto che ai fini dell’integrazione del reato de quo, per crollo di costruzione, totale o parziale, deve intendersi la caduta violenta ed improvvisa della stessa accompagnata dal pericolo della produzione di un danno notevole alle persone, senza che sia necessaria la disintegrazione delle strutture essenziali dell’edificio (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 2390 del 13/12/2011, dep. il 2012, Nonni ed altro, Rv. 251749, in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in presenza del distacco completo, su una linea lunga circa 150 metri, del rivestimento di mattoni che rivestiva la parete esterna di un edificio scolastico), ne consegue che con motivazione immune da censure il giudice di merito ha riconosciuto nel fatto la tipicità del delitto colposo di cui al combinato disposto degli artt. 434 e 449 cod. pen.
3. Non sono fondate le doglianze in punto di inosservanza o inesatta applicazione dell’art, 521 cod. proc. pen. con cui si assume che gli imputati (ed in particolare i ricorrenti F.G. e F.L.) sarebbero stati condannati in secondo grado per un fatto diverso da quello contestato nel capo d’imputazione e anche da quello considerato nella sentenza di primo grado. In particolare, si assume che solo in secondo grado avrebbe fatto la sua comparsa, tra gli addebiti, la rimozione del residuo sperone calcarenitico.
Del residuo di roccia e della contraddittorietà della motivazione circa la sua presenza si dirà di qui a poco.
Tuttavia, l’avere i giudici del gravame del merito effettivamente spostato la propria attenzione, nell’ambito degli stessi lavori edilizi del 1996, sun’aspetto della rimozione di tale residuo roccioso piuttosto che sull’indebolimento della struttura a seguito della rimozione della parete divisoria e della sua sostituzione con una porta ed una trave, oltre che su un profilo di colpa generica in luogo di quello specifico su cui si era maggiormente soffermato il giudice di primo grado, appare ad avviso del Collegio legittimo.
Ciò perché, come più volte precisato da questa Corte di legittimità, nei proce-dimenti per reati colposi, quando nel capo d’imputazione siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, la sostituzione o l’aggiunta di un profilo di colpa, sia pure specifico, rispetto ai profili originariamente contestati non vale a realizzare una diversità o mutazione del fatto, con sostanziale ampliamento o modifica della contestazione. Difatti, il riferimento alla colpa generica evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell’Imputato globalmente considerata in riferimento all’evento verificatosi, sicché questi è posto in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione di tale evento, di cui è chiamato a rispondere (così Sez. 4, Ord. n. 38818 del 4/5/2005, De Bona, Rv. 232427, in cui l’affermazione é stata resa nell’ambito di un procedimento penale per il reato di omicidio colposo in cui si era addebitato al proprietario dell’immobile, in relazione al decesso dell’inquilino conseguente ad esalazioni di monossido di carbonio provenienti dallo scaldabagno, di non avere adeguato l’impianto alla normativa di sicurezza, mentre era stato condannato per avere dato l’immobile in locazione senza prima avere verificato la funzionalità dell’impianto a gas; conf. Sez. 4, n. 2393 del 17/11/2005 dep. il 2006, Tucci ed altro, Rv. 232973 in relazione ad una fattispecie in tema di infortuni sul lavoro in cui la Corte ha escluso la dedotta violazione di legge nell’ipotesi di condanna per mancato rispetto di norme cautelari, laddove la contestazione riguardava plurimi profili di negligenza e di colpa; Sez. 4, n. 31968 del 19/5/2009, Raso, Rv. 245313 in cui la Corte ha escluso la dedotta violazione di legge nell’ipotesi di condanna del medico per le lesioni colpose gravissime cagionate, in esito ad un parto, ad un neonato, anche per la violazione del dovere di informare la partoriente in ordine alle possibili complicanze per un parto per via vaginale per le dimensioni del nascituro, laddove la contestazione riguardava altri profili di colpa).
In tema di reati colposi, in altri termini, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 51516 del 21/6/2013, Miniscalco ed altro, Rv. 257902 relativamente ad un caso in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori; Sez. 4, n. 35943 del 7/3/2014, Denaro ed altro, Rv. 260161 in un caso in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori).
4. Il tema centrale che percorre il presente processo, tuttavia, attiene all’ascrivibilità soggettiva del reato di crollo colposo di cui all’imputazione.
I giudici del merito danno conto di come al venir giù dell’aggregato edilizio si sia pervenuti con il concorso, nell’arco di alcuni decenni, dell’azione scellerata dell’uomo.
Così, nel corso degli anni, su quel banco roccioso, come si evidenzia dalla copiosa documentazione fotografica in atti, sono stati di volta in volta, costruiti immobili abusivi. E poi, nel tempo, i titolari delle attività commerciali ospitate all’interno di quelle che erano le originarie grotte non hanno resistito alla tentazione di guadagnare spazi utilizzabili in danno del banco calcarenitico.
E’ fuori discussione -secondo le motivazioni prive di aporie logiche dei giudici del merito sul punto- che ciascuno abbia fatto la sua parte nell’indebolire la tenuta complessiva del costone di roccia poi crollato nel gennaio 2009.

SENTENZA PER ESTESO Cassazione Penale, Sez. 4, 09 febbraio 2018, n. 6499

Fatto

  1. Con decreto di rinvio a giudizio del 2/12/2011, gli odierni ricorrenti F.G., F.L., F.M.R., B.M., R.A. e C.M.A. venivano sottoposti a giudizio del GM del Tribunale di Lecce, in uno con altri coimputati, per rispondere:
    • del reato di cui agli articoli 113, 434/449 c.p. per avere, in cooperazione tra loro, per colpa consistita in imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza di regole di sicurezza nell’esecuzione di lavori edili, cagionato il crollo del complesso edilizio sito in Castro, prospiciente piazza Dante; in particolare, premesso che la situazione del banco di calcarenite e dell’intero complesso, prima dell’evento, si era evoluta secondo la seguente scansione temporale:
    – nella originaria condizione di equilibrio i carichi agenti, gravanti sui locali- grotta adibiti ad attività commerciali denominate “Speranbar”, “F.”, “Bar pasticceria Le delizie”, “Sport pesca mare”, erano rappresentati dal solo peso proprio del banco che ne costituiva la copertura;
    – in epoche successive, ai suddetti carichi naturali, si aggiungevano altri, conseguenti ad interventi dell’uomo e rappresentati dal peso delle costruzioni sovrastanti che hanno poi subito successivi progressivi incrementi dovuti a sopraelevazioni e superfetazioni;
    – all’origine i carichi gravanti sui suddetti locali disponevano di numerosi percorsi per raggiungere il terreno di fondazione e questa condizione ne ha garantito l’equilibrio nel corso dei molti anni che hanno preceduto il crollo nonostante il progressivo ridursi degli itinerari conseguenti ad interventi dell’uomo;
    – come emerso dal confronto tra lo stato dei luoghi al momento del crollo e i documenti risalenti a molti anni in precedenza, gli interventi anche parzialmente demolitivi sono stati eseguiti in diverse occasioni ed in tempi differenti;
    – gli interventi di maggior rilievo sono stati quelli di riduzione delle dimensioni delle pareti portanti di calcarenite, un tempo presenti sulla facciata del banco, per ampliare i varchi d’ingresso alle grotte; nella graduale progressiva erosione, anche mediante la realizzazione di nicchie nel tufo, delle pareti portanti di calcarenite che fungevano anche da elementi divisori tra grotte contigue, sino alla loro quasi totale eliminazione; nella realizzazione e nel successivo ampliamento di nicchie nelle pareti di fondo delle grotte; nella erosione delle stesse pareti portanti di fondo delle grotte, nell’intento dichiarato di regolarizzarne la superficie, ma col fine di incrementare la superficie utile del locale;
    – ciascuno dei suddetti interventi provocava il danneggiamento o la totale eliminazione di uno o più percorsi utilizzati dai carichi per raggiungere il terreno di fondazione, costringendo di conseguenza i carichi a modificare i loro itinerari, con-centrandosi sempre più intensamente in quelli ancora disponibili;
    – in siffatta antecedente concatenazione causale,
    • dapprima, F.G. e A.S., rispettivi proprietari dei due locali, in catasto foglio 11/A, rispettivamente p.ila 315/10 e p.lla 315/9, adibiti ad attività commerciale denominata “Speranbar” e committenti dei lavori, F.L., tecnico progettista e direttore dei lavori, con G.L. (deceduto) che certificava l’idoneità statica dell’immobile, F.D., titolare dell’impresa che eseguiva i lavori, S.F.A., responsabile dell’Ufficio Tecnico Comunale, C.R., R.A., F. A., C.A. quali componenti della Commissione Edilizia che esprimeva parere favorevole, C.G., sindaco protempore che rilasciava l’autorizzazione, per imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza di regole essenziali di tecnica costruttiva, realizzavano condotte efficaci e concorrenti alla causazione dell’entità degli effetti disastrosi del cedimento strutturale iniziale, richiedendo, progettando, disponendo, eseguendo e omettendo di valutare e vigilare i lavori indicati nella istanza n. 1110 prot. del 6.3.1996, indebolendo gravemente una parte strutturalmente molto importante dell’edificio contiguo all’area del crollo, ed in esso parzialmente coinvolto:
    – demolendo una muratura portante principale a confine con l’edificio contiguo, sostituendola con una trave in cemento armato sostenuta da un lato da un pilastro, anch’esso in cemento armato, e dall’altro lato precariamente dalla muratura;
    – effettuando il suddetto intervento senza eseguire preventive valutazioni della sua compatibilità con la capacità portante della costruzione esistente, e con le condizioni di rischio in cui già versava l’edificio contiguo, o quanto meno senza tenere conto della incompatibilità che sarebbe dovuta emergere da tali preventive valutazioni, anche in considerazione del fatto che le caratteristiche proprie dell’intero isolato avrebbero dovuto indurre a considerarlo un’unica unità strutturale, della quale faceva parte anche l’edificio oggetto di quel intervento;
    • successivamente, L.G., proprietaria dell’immobile, in catasto foglio 11/A p.lla 315/6, C.M. conduttore del medesimo immobile e titolare dell’esercizio commerciale “SPORT PESCA MARE” ivi corrente, committente ed esecutore dei lavori, F. A., tecnico progettista e direttore dei lavori, S.F.A., responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Castro, per imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza di regole essenziale di tecnica costruttiva, realizzavano condotte efficaci e decisive per la causazione dell’evento, richiedendo, progettando, disponendo, eseguendo e omettendo di valutare e vigilare i lavori indicati nella D.I.A. presentata al Comune di Castro il 21.1.2009 (n.355 prot.), anche in parziale difformità (lavori demolitivi delle pareti di calcarenite), ed in specifico omettendo di effettuare preventive valutazioni delle condizioni di equilibrio precario dell’intero banco di calcarenite, notoriamente interessato da numerosi e gravi aspetti critici strutturali, sapendo o dovendo sapere:
    – delle caratteristiche strutturali originarie scadenti degli edifici e della totale mancanza di robustezza;
    – della conseguente loro intrinseca esposizione al rischio che rotture locali potessero produrre effetti disastrosi, anche sproporzionati rispetto al suddetto ca-rattere locale della causa prima scatenante;
    – della conformazione in un’unica unità strutturale dell’intero isolato, con con-seguente rischio di trascinamento in un crollo anche di parti non immediatamente interessate all’eventuale causa locale scatenante;
    – della lunga storia di progressivi aumenti dei carichi in conseguenza della realizzazione di superfetazioni, soppalchi, sopraelevazioni;
    – della lunga storia di interventi realizzati in epoche precedenti, che avevano concorso ad indebolire progressivamente l’intero organismo strutturale;
    – delle tracce di interventi effettuai nel passato (quali il posizionamento di catene) per far fronte al rischio di cedimenti verso la piazza Dante;
    – della presenza di cavità entro il banco di tufo di fondazione costituente in sé un rischio non controllabile in ragione dell’inadeguata conoscenza sulla loro estensione e conformazione;
    e quindi procedendo, con negligenza grave, alla demolizione dei residui percorsi dei carichi gravanti sulla struttura ed infine procedendo all’allargamento abusivo, mediante spicconatura del materiale calcarenitico, della parete posta sul fondo del locale, cosi determinando l’ulteriore finale indebolimento delle residue forze di coesione del masso alla parete rocciosa posteriore, cooperando a causarne il rovinoso distacco che trascinava con sé l’altra parte del banco roccioso e travolgeva i manufatti costituenti le pareti divisorie e le murature frontali;
    • contemporaneamente, F.M.R., affittuaria dell’immobile in catasto foglio 11/A, p.lla 315/7 e titolare dell’esercizio commerciale Bar Pasticceria “Le Delizie” ivi corrente, nonché committente dei lavori, unitamente al coniuge B.M. che di fatto operava in sua vece, R.A., tecnico progettista e direttore dei lavori, R.F., titolare della impresa esecutrice dei lavori e S.F.A., responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Castro, per imprudenza, negligenza, imperizia ed inosservanza di regole essenziale di tecnica costruttiva, realizzavano condotte efficaci e decisive per la causazione dell’evento, richiedendo, progettando, disponendo, eseguendo ed omettendo di valutare e vigilare i lavori indicati nella D.I.A. presentata al Comune di Castro il 24.12.2008 (prot. ti. 7605), anche in parziale difformità, ed in specifico omettendo di effettuare preventive valutazioni delle condizioni di equilibrio precario dell’intero banco di calcarenite, notoriamente interessato da numerosi e gravi aspetti critici strutturali, sapendo o dovendo sapere:
    – delle caratteristiche strutturali originarie scadenti degli edifici e della totale mancanza di robustezza;
    – della conseguente loro intrinseca esposizione al rischio che rotture locali potessero produrre effetti disastrosi, anche sproporzionati rispetto al suddetto ca-rattere locale della causa prima scatenante;
    – della conformazione in un’unica unità strutturale dell’intero isolato, con conseguente rischio di trascinamento in un crollo anche di parti non immediatamente interessate all’eventuale causa locale scatenante; della lunga storia di progressivi aumenti dei carichi in conseguenza della realizzazione di superfetazioni, soppalchi, sopraelevazioni;
    – della lunga storia di interventi realizzati in epoche precedenti, che avevano concorso ad indebolire progressivamente l’intero organismo strutturale;
    – delle tracce di interventi effettuali nel passato (quali il posizionamento di catene) per far fronte al rischio di cedimenti verso la piazza Dante;
    – della presenza di cavità entro il banco di tufo di fondazione costituente in sé un rischio non controllabile in ragione dell’inadeguata conoscenza sulla loro estensione e conformazione;
    e quindi procedendo, con negligenza grave, alla demolizione dei residui percorsi dei carichi gravanti sulla struttura ed infine procedendo all’allargamento abusivo, mediante spicconatura del materiale calcarenitico, della nicchia posta sul fondo del locale, così determinando l’ulteriore finale indebolimento delle residue forze di coesione del masso alla parete rocciosa posteriore, causandone il rovinoso distacco che trascinava con sé l’altra parte del banco roccioso e travolgeva i manufatti costituenti le pareti divisorie e le murature frontali;
    In Castro il 31.1.2009 (data dell’evento)
    2. Il GM del Tribunale di Lecce, per quello che qui interessa in relazione agli odierni ricorrenti, in data 27/10/2014 pronunciava sentenza con cui F.G., F.L., C.M.A., F.M.R., B.M., R.A. (limitatamente al punto terzo dell’imputazione) venivano riconosciuti responsabili del reato loro ascritto e condannava C.M.A., F.M.R. e B.M. alla pena di anni due di reclusione; F.G., F.L., e R.A. alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione; tutti, al determinando risarcimento del danno patito dalle costituite parti civili, oltre al pagamento delle spese processuali.
    La Corte di Appello di Lecce, sun’appello degli imputati condannati, del PG e delle parti civili, con sentenza del 10/10/2016, assolveva il solo coimputato F.A. per non aver commesso il fatto, mentre confermava nel resto la sentenza impugnata e condannava gli odierni ricorrenti e le parti civili appellanti al pagamento delle spese del giudizio di secondo grado, nonché i soli imputati al pagamento delle spese nei confronti delle parti civili,
    3. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
    1. F.G. (Avv. Omissis)
    Si tratta del proprietario dello “SPERANBAR” e committente dei lavori effettuati presso tale esercizio commerciale.
    a. Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 521 cod. proc. pen., in relazione all’art. 606 comma 1 lett. b cod. proc. pen., per aver la corte territoriale condannato l’imputato per un fatto diverso dal quello contestato nel capo di impu-tazione, e non considerato dalla sentenza di primo grado.
    Richiamato il contenuto delle relazioni dei consulenti del Pm, il ricorrente lamenta che, nel caso di specie, infatti, il giudice di appello avrebbe posto a fondamento della propria decisione la sussistenza di un fatto completamente diverso ed eterogeneo rispetto al fatto descritto nell’imputazione, con radicale immutazione della stessa nei suoi elementi essenziali.
    L’iniziale contestazione, ad opera del pubblico ministero, prevedeva la sola colpa consistita, per imprudenza, negligenza ed imperizia, nell’aver richiesto e realizzato un portale in calcestruzzo armato sostitutivo di una parete muraria, mentre la condanna oggetto di gravame si fonderebbe sulla diversa circostanza rappresentata dall’essere stato autorizzato all’esecuzione dei lavori presentando documentazione grafica attestante uno stato dei luoghi diverso da quello verosimilmente esistente (e cioè senza indicare la presenza di un residuo sperone calcarenitico dietro la originaria parete in muratura – pag. 22 sentenza impugnata).
    Si rileva in ricorso che, nel caso di specie, quindi, il giudice di prime cure, in aderenza alle indicazioni contenute nel capo di incolpazione, aveva accertato la responsabilità penale dell’imputato per avere lo stesso demolito un muro e realizzato un portale in calcestruzzo armato, mentre la corte di appello accerta la responsabilità del committente – proprietario sun’assunto che egli, all’atto della presentazione della richiesta volta all’ottenimento del permesso di costruire, ha prodotto documentazione grafica attestante uno stato dei luoghi diverso da quello verosimilmente esistente.
    Detta circostanza, però -ribadisce il difensore ricorrente- non è stata mai portata a conoscenza dell’imputato, così da consentirgli di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione.
    b. Violazione e falsa applicazione degli artt. 192 e 533 comma 2 cod. proc. pen., in relazione all’art. 505 comma 1 lett. b) cod. proc. pen., per non aver il giudice d’appello dato conto dei risultati probatori acquisiti nell’esame testimoniale del teste C.A., né del motivo per il quale il contenuto della testimonianza è stato del tutto omesso.
    Come già evidenziato nella narrativa del primo motivo di ricorso, la Corte di appello di Lecce ha individuato il profilo di colpa a carico del ricorrente nell’avere presentato “documentazione grafica attestante uno stato dei luoghi diverso da quello verosimilmente esistente (e cioè senza indicare la presenza di un residuo sperone calcarenitico dietro la originaria parete in muratura – v. pag. 22 sentenza impugnata). Tale affermazione troverebbe, secondo il ricorrente, il suo addentellato logico nell’affermazione contenuta in sentenza secondo cui :”Già si è detto sopra della verosimile rimozione, nel corso dei lavori del 1996, insieme alla parte divisoria tra i due locali Speranbar, di un residuo roccioso ancora ivi presente, e della conseguente sostanziale difformità rispetto alla situazione esistente delle planimetrie presentate al Comune di Castro da tecnico e committente dei lavori per ottenere il titolo autorizzativo.” (v. pag. 21 sentenza impugnata)
    Ma, ad avviso del difensore di F.G., la sentenza non dà conto delle risultanze delle prove dichiarative, acquisite in dibattimento, dei testimoni oculari, che negano di aver mai operato sulla roccia calcarenitica (vengono richiamate le dichiarazioni rese all’udienza del 7.10.2013 da C.A., operaio impiegato nei lavori del 1996 di demolizione del muro preesistente e sostituzione dello stesso e da F. B., dipendente dello Speranbar.
    La decisiva circostanza – ci si duole- non è mai stata valutata dalla sentenza gravata, né il giudice dell’appello ha motivato circa la sua omessa valutazione, né tale valutazione è rinvenibile aliunde. E neanche la sentenza di primo grado sul punto potrebbe venire in soccorso, atteso che la stessa non ha mai accertato la circostanza relativa alla supposta demolizione dello spuntone roccioso.
    In proposito il ricorrente riportare il passaggio motivazionale della sentenza di primo grado che collega la responsabilità penale del ricorrente alla sola demolizione della parete e alla sostituzione con il portale in cemento armato, del tutto omettendo qualsivoglia riferimento alla circostanza in parola, invece contestata dal giudice dell’appello: “La foto numero 9, il punto cerchiato mostra come la trave andava ad inserirsi non nella muratura ma andava ad inserirsi nell’ultimo residuo spuntone di roccia senza alcun meccanismo di ancoramento; non c’è un muro che andava dal secondo spazio Speranbar verso le costruzioni in alto, ma c’è, come si vede dalla foto, un brandello di roccia su cui evidentemente andava a inserirsi la trave. La trave in cemento armato innestata nella parte di fondo del banco di calcarenite ha costituito un ulteriore elemento di debolezza riducendo la capacità del complesso delle grotte di reggere alla loro progressiva erosione interna” (così la sentenza di primo grado pag. 74-75)
    Sarebbe, pertanto, evidente il vizio di legge in cui è incorsa la sentenza im-pugnata, nel momento in cui, affermando la responsabilità del committente per fatti nuovi e non contemplati né nel capo di imputazione né nella sentenza di primo grado, ha omesso di dare conto dei risultati acquisiti nel corso dell’istruzione dibattimentale.
    L’aver omesso di menzionare le risultanze delle prove dichiarative sopra indicate, a fronte di una ricostruzione del fatto (tra l’altro frutto di una ipotesi formulata dai consulenti del P.M.) che si pone in netto e insanabile contrasto con le prime, integrerebbe il vizio denunciato anche sotto il profilo del paradigma valutativo dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
    c. Inosservanza ed erronea applicazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., dell’art. 192 e 533 comma 1 cod. proc. pen., mancanza, con-traddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, risultante sia dal testo del provvedimento impugnato che dalle dichiarazioni testimoniali di C.A. e F.B., travisamento della prova.
    L’iter logico seguito dal giudice del gravame presenta ad avviso del ricorrente un insanabile vizio motivazionale per aver omesso di dare conto delle dichiarazioni dei testimoni C.A. e F.B., che smentiscono categoricamente che nel corso dei lavori dei 1996 sia mai stata intaccata la roccia calcarenitica, addirittura non riferendo gli stessi di avere mai visto della roccia calcarenitica, ricordando solo la demolizione del muro esistente e la sostituzione dello stesso con un portale in cemento armato.
    Già tale circostanza renderebbe evidente una lesione insanabile dell’architettura motivazionale della sentenza impugnata, non essendo possibile ritenere la motivazione logica e coerente laddove, a fronte dell’accusa di inesatta rappresentazione contenuta negli elaborati progettuali e nella descrizione dell’intervento volto all’ottenimento del permesso di costruire, unitamente a quella di aver verosimilmente rimosso uno sperone roccioso, così da eliminare gli ultimi punti di scarico, non, spiega e non dà conto delle risultanze probatorie contrarie.
    Invero, già di per sé la. motivazione circa la eliminazione dello spuntone roccioso sarebbe priva di quella certezza scientifica richiesta in simili contesti di indagine, posto che il giudizio dei consulenti di parte sul punto si presenterebbe altamente dubbioso ed esposto non come risultato di una ipotesi scientifica che ha trovato, a seguito delle indagini svolte, una grado di certezza sufficiente, ma come ipotesi, o meglio ancora di dubbio, tanto è vero che la Corte di Appello ha dovuto necessariamente premettere all’esposizione del fatto l’avverbio “verosimilmente”..
    Sul punto il difensore ricorrente riporta quanto affermato dal consulente Prof. P. nel corso dell’esame, da cui non si desumerebbe alcuna certezza circa l’eliminazione della roccia calcarenitica, né sarebbero stati indicati altri elementi indiziari che possano corroborare quelle che era una ipotesi, che sarebbe rimasta tale.
    Sulla scorta di tali considerazioni il giudice di appello, a fronte di un giudizio di verosimiglianza, fermo in realtà alla soglia del dubbio, avrebbe omesso del tutto la valutazione delle dichiarazioni dei testi oculari, che si porrebbero in antitesi con la ricostruzione giudiziale, giungendo ad una pronuncia di condanna.
    A ciò si deve aggiungere -prosegue il ricorrente- che la sentenza impugnata darebbe per provato un elemento mai emerso dall’istruzione probatoria: la contestata difforme rappresentazione della situazione reale all’Interno del locale di proprietà del F., presuppone logicamente la conoscenza da parte dello stesso della presenza di uno spuntone roccioso all’Interno del proprio locale, al momento della presentazione dell’istanza edilizia.
    I consulenti, in particolare, riferiscono che la roccia si trovava probabilmente dietro un rimpello, che altro non è che una parete interna normalmente edificata in adiacenza ad altro muro.
    Tuttavia sarebbe logico inferire – secondo la tesi prospettata in ricorso- che se la roccia si trovava dietro la parete, il ricorrente non ne poteva conoscere l’esistenza. E pertanto le planimetrie allegate all’Istanza edilizia devono essere ritenute veritiere.
    Né sarebbero emersi elementi tali da consentire di affermare che la costruzione della parete, che celava la roccia, fosse stata effettuata dal ricorrente.
    Inoltre, la documentazione fotografica dell’epoca prodotta dalla difesa dell’Arch. F.L., che ritrae sia l’apertura praticata ad inizio lavori al centro della parete demolita (ripresa sia dal “lato Speranbar’,’ che “lato F.”) sia la parte finale stessa della parete, in prossimità del pilastro, evidenzierebbe in maniera incontrovertibile la presenza di soli conci di tufo su entrambi i lati di quella che è, a tutti gli effetti, una muratura in conci di tufo, intonacata su entrambi i lati.
    Introdurre il concetto di “residuo spuntone roccioso”, di cui tuttavia non sarebbe dato comprendere la presunta collocazione e individuazione, di cui si pone in dubbio da parte degli stessi consulenti la presenza, e di cui tanto i testimoni escussi, quanto la documentazione fotografica escluderebbero la sussistenza, sarebbe per il ricorrente una inaccettabile forzatura ricostruttiva che priverebbe di logicità la sentenza e costituirebbe anche un vizio di travisamento della prova.
    Della presenza di questo “residuo spuntone roccioso” il committente, all’atto, della presentazione della richiesta di licenza edilizia per lavori di ristrutturazione, doveva, a parere del giudice di appello, essere a conoscenza, in modo da poter effettuare un controllo sugli elaborati progettuali e sulla descrizione dell’intervento contenuta nella relazione tecnica, a firma’ del ‘ professionista incaricato, sulla cor-rettezza, e corrispondenza al vero di quanto dichiarato dal tecnico.
    Non sarebbe, però, coerente sotto il profilo logico, oltreché contrastante con la documentazione fotografica e con le dichiarazioni rese dai testi, l’argomentazione del giudice di appello che, partendo da un elemento certo e documentato (l’apertura centrale della parete demolita, di notevole ampiezza, che denota la presenza di muratura di conci di tufo) desumerebbe un elemento di convincimento di senso contrario, laddove ritiene che le foto 11) e 12) lascino pensare che il residuo spuntone roccioso sia “dietro la parte di muratura non ancora eliminata”. Detta considerazione, secondo il ricorrente, è smentita dalla successiva foto 15).
    Risulta, dunque, davvero difficile comprendere sotto il profilo soggettivo il fondamento del rimprovero mosso nei confronti del committente, per non avere correttamente rappresentato nella documentazione prodotta l’intervento richiesto e successivamente assentito, ossia peravere presentato una descrizione dei lavori e le allegate “planimetrie” difformi rispetto alla situazione esistente.
    Ad avviso del ricorrente, così come dichiarato dai testi e come risulterebbe evidente dalla documentazione fotografica prodotta, sarebbe da escludere qualsiasi intervento sulla roccia in occasione delle opere realizzate nel 1996, anche nell’ipotesi dubitativa prospettata dai consulenti dell’accusa e ripresa nel giudizio di verosimiglianza da parte del giudice di appello.
    Le prove, di cui la sentenza gravata non avrebbe tenuto conto, rivestirebbero natura decisiva in quanto, se considerate, avrebbero apportato ulteriori elementi valutativi tali da mettere in crisi l’impianto e la tenuta logica-argomentativa della sentenza.
    Nel caso di specie, invece, il giudice del gravame del merito si sarebbe limitato a trasferire nel discorso giustificativo della decisione talune conclusioni puramente dichiarative e ipotetiche della relazione dei consulenti della pubblica accusa, senza porre dette dichiarazione in contraddittorio con le risultanze processuali comunque presenti nel compendio probatorio, così incorrendo nel denunciato vizio di motivazione (in proposito viene richiamata la sentenza 6095/2016 di questa Corte di legittimità)
    d. Violazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen., degli articoli 40 comma secondo, 419, 434, e 449 cod. pen.
    Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell’imputato per il reato di disastro colposo.
    La sentenza impugnata sarebbe viziata, secondo il difensore ricorrente, da una evidente illogicità, atteso che equiparerebbe, ai fini della rimproverabilità per colpa generica, la figura del committente – proprietario a quella del progettista e direttore dei lavori.
    Non vi sarebbe traccia in sentenza -ci si duole- di una adeguata motivazione circa i profili omissivi o commissivi della condotta imputata al ricorrente, che non sia un mero richiamo ai profili di colpa del tecnico incaricato della redazione progettuale e dell’esecuzione dell’opera.
    Ricorda il ricorrente che il committente può essere chiamato a rispondere penalmente, qualora l’evento si colleghi causalmente ad una sua colpevole omissione, ma ciò laddove la mancata adozione o l’inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini.
    Ciò significa che il proprietario: 1. avrebbe dovuto conoscere la situazione esistente (ossia presenza di uno spuntone roccioso e non di una semplice muratura che divideva il proprio locale con quello adiacente di proprietà Speranbar; 2. avrebbe dovuto, inoltre, al momento di presentazione dell’istanza, avere la capacità di “comprendere” e sindacare gli elaborati progettuali e la relazione tecnica predisposta dal professionista incaricato sul punto in cui gli stessi descrivevano l’intervento come di demolizione di una parete muraria, omettendo di descrivere la presenza di un “residuo spuntone roccioso”.
    D’altra parte, si aggiunge, il committente non può essere chiamato a rispondere per aspetti e obblighi che incombono ai professionisti cui affida l’incarico di progettazione e di direzione dei lavori, né allo stesso può essere imputata la inesatta rappresentazione che emergerebbe dagli elaborati progettuali o dalla relazione tecnica, che non descrive la presenza di tracce di roccia sulla parete su cui si andava ad intervenire, sia perché gli elementi noti e conoscibili non consentivano allo stesso di poter ritenere il contrario, sia perché si tratterebbe di valutazioni tecniche e asseverazioni risultato dell’attività di studio e di indagine riservate al professionista progettista, il quale eventualmente risponde di falsa attestazione con riferimento alla tipologia delle opere descritte e da realizzare.
    Né si potrebbe ritenere che il proprietario, titolare di licenza media, debba poter valutare e sindacare valutazioni e attestazioni, che superano la propria sfera di conoscenza e di giudizio.
    Incombe sul progettista -sostiene il ricorrente- l’obbligo di corretta informazione del cliente circa i possibili rischi, vantaggi e svantaggi derivanti dal contratto d’opera professionale, comprendendo tutti gli aspetti e le prevedibili implicazioni dell’attività professionale, in relazione tanto al momento dell’assunzione dell’incarico, quanto alla successiva fase di attuazione del rapporto e deve essenzialmente riferirsi alla fattibilità dell’intervento sotto il profilo materiale e giuridico.
    Si evidenzia che lo stesso progettista è obbligato, inoltre, ad utilizzare la diligenza qualificata di cui al secondo comma dell’art. 1176 cod. civ. sia nell’attività di elaborazione del progetto (che deve essere redatto conformemente alle regole tecniche e alle norme giuridiche che disciplinano l’edificazione) sia in quella con-seguente alla presentazione dello stesso alle autorità amministrative (con il precipitato onere di depositare tutta la documentazione necessaria all’approvazione) in quanto comunque strumentale alla realizzazione dell’opera. E rientrano nelle obbligazioni del tecnico l’accertamento della conformità, sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa conformemente al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi.
    L’esatto accertamento dei confini, delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi ove avrebbe dovuto eseguirsi l’intervento -prosegue il ricorrente- costituisce un presupposto essenziale per il corretto espletamento del mandato professionale. Da ciò discenderebbe che, in tali ipotesi, il professionista può essere ritenuto responsabile di false attestazioni rese nell’esercizio della propria attività, in quanto nella redazione del progetto il progettista esercita un servizio di pubblica necessità. Detta ipotesi di reato ricorre laddove il professionista attesta falsamente in un certificato fatti dei quali è destinato a provare la verità.
    Non spetterebbe al proprietario committente, secondo la tesi proposta in ricorso, sindacare la corretta redazione del progetto e della relazione tecnica del professionista incaricato, a meno che non si tratti di errori evidenti e facilmente riconoscibili. Allo stesso spetterebbe, invece, l’obbligo di individuare figure professionali in possesso dei requisiti previsti per lo svolgimento dell’incarico.
    In altri termini, per potersi affermare la responsabilità del ricorrente occorre-rebbe prima di tutto superare quello che rimane un dubbio, ossia se la parete in muratura demolita ed “erroneamente” descritta negli elaborati tecnici celasse effettivamente un “residuo spuntone roccioso” demolito insieme alla prima; in secondo luogo, occorrerebbe stabilire se lo stesso ricorrente ne fosse a conoscenza e potesse rendersi conto della erronea descrizione tecnica fatta dal progettista al momento di presentazione della domanda di licenza edilizia.
    In proposito viene evidenziato che la giurisprudenza opererebbe un distinguo tra concessione edilizia/permesso di costruire (che ricorre nel caso di specie) e denuncia di inizio di attività. Ed invero, si ricorda che, proprio in tema di accusa di falsa attestazione contenuta nella relazione tecnica del progettista in una domanda di concessione edilizia, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (il richiamo è alla sentenza 9918/2008) afferma che trattandosi di concessione edilizia e non di Dia, la documentazione e la eventuale relazione presentata dai tecnici progettisti non ha valore probante e fidefacente assoluto, ritenendo che non hanno valore di certificazione i documenti e le attestazioni allegate alla domanda di concessione, che non assume efficacia se non dopo il vaglio positivo dell’ente pubblico, mentre a diverse conclusioni deve giungersi per la domanda di inizio attività, dotata di autonoma efficacia.
    La conclusione sarebbe, allora, che, se ciò vale per il professionista, a maggior ragione deve valere per il proprietario che richieda un permesso di costruire e che si affida dapprima al professionista progettista per la predisposizione degli elaborati, tecnico-progettuali e, successivamente, alla pubblica amministrazione, che esercita un vaglio e un controllo dell’istanza, sotto il profilo formale, ma anche sostanziale, come è avvenuto nella fattispecie in esame, con la richiesta fatta dall’Ufficio tecnico di integrazione documentale e di presentazione di una perizia giurata statica, che veniva redatta e sottoscritta dall’Ing. G.L. e acquisita dall’Ente prima del rilascio dell’autorizzazione edilizia e valutata dagli uffici comunali adeguata e sufficiente ai fini del rilascio stesso..
    Né potrebbe essere imputato al proprietario di non aver valutato l’inadeguatezza della perizia statica stessa, in quanto la stessa – come afferma il giudice di appello – si limitava a considerare le conseguenze sulla statica dell’intervento richiesto soltanto con riferimento agli immobili sovrastanti e alle spinte gravitazionali e non anche a quelle oR.A.ntali che dovevano essere considerate sul presupposto che l’immobile faceva parte di un unico aggregato edilizio.
    La figura del committente dei lavori, peraltro, prosegue il ricorso, è stata introdotta e disciplinata solo successivamente all’intervento del 1996. In particolare, come precisato dalla giurisprudenza, detta figura ha trovato esplicito riconoscimento solo con il D.Lgs. n. 494/1996; prima di tale decreto legislativo, infatti, i D.P.R. n. 547/55, n. 164/56, n. 302/56e n. 303/56e nemmeno il D. Lgs. n. 626/1994 avevano menzionato tale ruolo. In particolare, il D. Lgs. n. 626/1994, con l’art. 7, individuava nel datore di lavoro che affida i “lavori ad imprese appal tatrici o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell’ambito, dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima”, il referente soggettivo degli obblighi che la medesima disposizione ha introdotto, essenzialmente in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
    Per lungo tempo – si ricorda- la giurisprudenza di legittimità ha escluso che il committente potesse rispondere delle inadempienze prevenzionistiche verificatesi nell’approntamento del cantiere e nell’esecuzione dei lavori in quanto tali violazioni venivano poste a carico del datore di lavoro-appaltatore. Una responsabilità concorrente del committente veniva ravvisata, in sostanza, solo in casi particolari e cioè ad esempio nel caso in cui questi, travalicando il suo ruolo, assumesse di fatto una posizione direttiva o si ingerisse nell’esecuzione dei lavori o assumesse di fatto una posizione di datore di lavoro (cosi come avviene per il lavoro a cottimo) o quando i lavori fossero stati eseguiti dall’appaltatore senza autonomia tecnica, con l’apprestamento da parte del committente delle apparecchiature di lavoro, o quando l’appaltatore non avesse avuto libertà di determinazione nell’attuazione delle misure di prevenzione degli infortuni. Il committente, invece, salvo contrario accordo contenuto nel contratto di appalto, non ha il diritto e tanto meno il dovere di intervenire o comunque influire in tale organizzazione dell’impresa, con le logiche conseguenze sul piano sanzionatorio.
    A seguito del sopraindicato mutamento normativo, prosegue ancora il ricorso, nella giurisprudenza di legittimità la responsabilità del committente è stata ritenuta derivare dalla violazione di alcuni obblighi specifici, quali l’informazione sui rischi dell’ambiente di lavoro e la cooperazione nell’apprestamento delle misure di protezione e prevenzione. E tuttavia viene evidenziato come detto principio, applicabile in materia di sicurezza sul lavoro, non conosca nemmeno un’applicazione automatica, non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sun’organizzazione e sun’andamento dei lavori, per cui ne conseguirebbe che “ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo” (il richiamo è alla sentenza di questa Sez. 4 n. 23171/2016)
    La sentenza impugnata incorrerebbe, dunque, in violazione di legge laddove postula e ritiene rilevanti sul piano causale una serie di doveri che la legislazione non riconduce in capo al proprietario-datore di lavoro.
    La sentenza impugnata, inoltre, non conterrebbe alcun cenno alle circostanze di fatto dalle quali emergerebbe un’ingerenza del committente nella fase di progettazione, organizzazione del cantiere e nell’esecuzione dei lavori (il ricorrente in proposito ripercorre l’iter amministrativo di rilascio dell’autorizzazione, dal quale emergerebbe, in tutta la sua evidenza, l’insussistenza di profili di responsabilità a carico di F.G.).
    Al proprietario -si ribadisce in ricorso- la legge non impone un dovere di valutare, dal punto di vista tecnico e della scienza delle costruzioni, l’intervento da realizzare, perché non disporrebbe delle necessarie competenze.
    Alcun indizio, neanche in via presuntiva, sarebbe emerso a carico di F.G., da cui possa dedursi una sia pur minima ingerenza o l’esercizio di un potere direttivo, di semplice indicazione esecutiva nei confronti della ditta o degli operai, né di partecipazione attiva e consapevole nella supposta erronea descrizione tecnica e progettuale dell’intervento da realizzare. Invero, lo stesso non si sarebbe mai interessato direttamente all’immobile di sua proprietà, né aveva un interesse diretto all’intervento del 1996, avendo sempre dato il locale in affitto, già prima di tale epoca.
    In merito invece alle scelte tecnico progettuali, alle verifiche e ai saggi effettuati, alle soluzioni costruttive impiegate e alla scelta dei materiali, F.G. non avrebbe svolto alcun ruolo, neppure marginale e nulla di contrario avviso -si evidenzia in ricorso- sarebbe emerso né in fase di indagini, né in fase dibattimentale.
    e. Contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e cod. proc. pen., per aver del tutto disatteso le osservazioni difensive in merito alla correttezza dell’intervento edilizio del 1996. Insussistenza del nesso causale.
    Il difensore ricorrente evidenzia, sotto il profilo del nesso causale, che la sentenza impugnata, sposando pedissequamente la ricostruzione effettuata dai consulenti dell’accusa, ritiene che, con riferimento all’intervento del 1996, “sarebbe errato focalizzare la valutazione della rilevanza causale delle condotte ascritte agli imputati sul solo momento dell’innesco del crollo, dovendosi invece ricomprendere tra gli antecedenti causali penalmente rilevanti anche quelle opere che, in tempi relativamente recenti, a fronte di importanti alterazioni strutturali già verificatesi, hanno precipitosamente amplificato gli effetti della condizione di instabilità del complesso, pregiudicandone gravemente gli equilibri statici e rendendolo fortemente vulnerabile ad ogni successiva manomissione, proprio in ragione di detti antecedenti, idonea a esaurire in modo solo apparentemente improvviso le risorse di resistenza del banco di roccia” (pagina 9 della sentenza di appello).
    Il giudice di seconde cure – si legge ancora in ricorso- giunge a siffatta conclusione motivando per relationem con un rimando alle conclusioni espresse dei consulenti del PM.
    La sentenza di appello, al fine di sostenere che l’intervento del 1996 abbia aggravato le condizioni di stabilità del complesso edilizio in parola, richiama le valutazioni sviluppate dai consulenti della Procura che fanno riferimento nella loro analisi alla normativa che disciplina la sicurezza negli edifici. Detta normativa, sebbene sopravvenuta rispetto all’intervento in parola (nel 2005, con le Norme Tecniche per le Costruzioni, è stato per la prima volta inserito nella normativa un capitolo dedicato alla verifica della sicurezza delle “costruzioni esistenti”) sarebbe, tuttavia, utilizzata come parametro di riferimento per valutare le condizioni di rischio dell’aggregato edilizio e il presunto indebolimento statico introdotto dal predetto intervento e, quindi. L’efficienza causale nella determinazione dell’evento-crollo.
    Il ricorrente si duole che la suggestiva “teoria degli archi”, cui i periti si rifanno per evidenziare il comportamento dei locali “grotte” posti al piano terra, da considerarsi unitariamente, di modo che chi agiva avrebbe dovuto considerare non soltanto le forze verticali e gravitazionali agenti sulle strutture murarie, ma anche quelle oR.A.ntali, sarebbe rimasta una mera ipotesi ricostruttiva non supportata da elementi idonei a sostegno.
    In tal senso le foto 15) e 19) del dossier fotografico prodotto dalla difesa dell’Arch. F., da cui sarebbe possibile intravedere la volta del locale del ricorrente, denoterebbero una conformazione piana e non voltata della volta stessa. E alla stessa conclusione giungerebbe la consulente di parte della prof.ssa A. (CTP della difesa dell’Arch. F.), che ha sostenuto, come la volta delle grotte in esame avessero una conformazione quasi perpendicolare alle pareti.
    Né il riferimento, contenuto nella perizia dei CCTT della Procura alle grotte collocate in altro contesto (porto di Castro), che hanno mantenuto un soffitto a volta concava, potrebbe assurgere ad elemento probatorio della effettiva conformazione dei locali in questione, trovandosi questi ultimi in un diverso contesto, ampiamente modificato e urbanizzato, già dai primi del ‘900. Le prime, di valore storico, utilizzate in epoca antica, come ricovero dei pescatori e non modificate nel corso dei secoli, i locali, in questione inseriti in un contesto abitativo commerciale risalente ai primi del ‘900.
    Sarebbe, perciò, evidente che mancando la prova dell’originaria conformazione dei locali-grotta, e di quella esistente all’interno del locale F. nel 1996, la ricostruzione in termini di “teoria’ delle volte” rappresentata dai CCTT, assunta per fondare la sussistenza del nesso causale, resterebbe priva di un presupposto essenziale per dare copertura all’Imputazione di responsabilità.
    f. Motivazione manifestatamente illogica e contraddittoria, ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. in relazione al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
    La sentenza gravata -ci si duole- esclude il riconoscimento delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 bis cod. pen., non ritenendo che la regolarità dell’ iter amministrativo di rilascio del titolo edilizio possa essere valutata positivamente in tal senso.
    Ebbene, secondo il ricorrente la motivazione non consentirebbe di comprendere il motivo per cui tale circostanza non possa avere un effetto valutativo attenuante, né si comprenderebbe perché anche altri elementi emersi dal dibattimento non possano concorrere ad attenuare una valutazione francamente severa della condotta del ricorrente. Ed invece proprio i controlli cui è stata sottoposta l’iniziale domanda volta a conseguire il permesso di costruire dimostrerebbe come il ricorrente abbia voluto impostare la propria condotta al massimo rispetto delle norme vigenti, nonché alle norme di cautela imposte a chi intenda eseguire opere edilizie importanti.
    Vi sarebbe, inoltre, un altro passaggio illogico, questa volta contenuto nella sentenza di primo grado, che ugualmente nega l’attenuante in parola, e cioè l’aver utilizzato, nella realizzazione dell’arco in calcestruzzo armato, materiali di prima qualità. L’illogicità sarebbe palese in quanto non potrebbe un elemento che dovrebbe essere considerato come, “normale”, ossia come comportamento normalmente richiesta al soggetto che opera in determinate condizione, addirittura essere valutato in negativo, quale elemento che va a connotare con maggior disvalore una condotta ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche.
    2. F.L. (Avv. OMISSIS)
    Si tratta dell’architetto progettista dei lavori eseguiti nel 1996 presso lo “SPERANBAR”.
    Il ricorrente evidenzia che F.L. è imputato per aver diretto un intervento del 1996 (ben 13 anni prima del crollo) finalizzato a mettere in comunicazione due locali dell’esercizio commerciale denominato “Speranbar”, la cui licenza era intestata ad A.S., collocati al piano stradale.
    Lo “Speranbar” era costituito, guardando il prospetto del non più esistente aggregato edilizio, da due locali: quello di destra era in muratura e faceva parte della c.d. palazzina ex Sansò (ed era di proprietà della A.S.), mentre il locale adiacente, posto a sinistra di chi guarda, era un locale grotta di proprietà di F.G. e dato in locazione alla predetta A.S..
    Il locale grotta di proprietà F.G. presentava, oltre all’apertura sulla piazza (che ne costituiva l’ingresso) anche un secondo fornice naturale sul lato a ridosso della parete in muratura della palazzina ex Sansò.
    All’arch. F. fu commissionata proprio l’apertura di una porta nella muratura di detta palazzina, in modo da consentire l’espansione dell’attività commerciale anche nel civico accanto.
    Detto intervento fu attuato tramite demolizione della sola porzione di muratura sufficiente ad aprire un varco e posa di una trave in cemento armato e due analoghi pilastri laterali.
    Si tratta di valutare – rileva in premessa il ricorrente- se detto intervento abbia esplicato un’efficacia causale sulla dinamica del crollo oppure no e se l’imputato sia incorso in un illecito rimproverabile allo stesso a titolo di colpa.
    I motivi dedotti a sostegno dell’impugnazione sono:
    a. Contraddittorietà della motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. in relazione alla possibilità di ritenere con sufficiente certezza che i locali grotta inte-ressati dal crollo (incluso uno di quelli che componevano lo Speranbar) presentassero originariamente una conformazione della volta ad arco.
    II ricorrente evidenzia che la ricostruzione storica degli interventi umani su quel costone di roccia non è stata semplice, in ragione della stratificazione degli stessi in un arco temporale che copre circa un secolo e della carenza di documentazione ufficiale presso l’ufficio tecnico del Comune di Castro, anche dipesa – a dire degli stessi CCTT della Procura – dal numero rilevante di superfetazioni abusive (riguardanti anche i piani superiori appartenenti alle odierne parti civili).
    L’impugnata sentenza si caratterizzerebbe -secondo quanto si sostiene in ricorso- per l’acritico appiattimento sulla consulenza tecnica redatta dai consulenti tecnici della Pubblica Accusa – prof.ri V. e P..
    Il difensore ricorrente ricorda di avere sempre sostenuto – sulla base di prove acquisite al fascicolo – che l’intervento edilizio condotto sotto la direzione dell’arch. F. nel 1996 ha riguardato solo la muratura della palazzina ex Sansò. Da ciò ne deriva una lettura della catena eziologica incompatibile con un coinvolgimento del professionista nei fatti per cui è processo già solo sul piano del nesso di causalità materiale, a prescindere dalle implicazioni in termini di colpevolezza.
    Di contro, si lamenta che la sentenza della Corte d’appello scarti detta prospettazione, preferendo attribuire al F. condotte volte a erodere il costone roccioso riducendone così la capacità di resistenza alle sollecitazioni.
    Secondo il ricorrente la Corte territoriale applica – a differenza di quanto aveva fatto il primo giudice – un paradigma causale di tipo rigidamente condizionalistico, attribuendo rilevanza ad ogni singola condotta che, sulla base della relazione V.- P., abbia modificato l’assetto statico dei luoghi.
    L’assioma teorizzato dal prof. V. (e fatto proprio dalla sentenza) si rias-sumerebbe nella lettura, suggestiva e di facile comprensione, che immagina le grotte come una teoria ininterrotta di reciproche spinte e controspinte, alla stregua di quello che può accadere nella navata di una basilica paleocristiana (ad es. Sant’Apollinare in Classe a Ravenna) laddove corre una serie di archi a tutto sesto. Stando a detta rappresentazione, quella serie di arcate vedeva i punti di massimo scarico delle spinte nelle terminazioni laterali e quindi verso il locale bancomat (da un lato) e verso la palazzina ex Sansò (dall’altro).
    Ebbene, si controbatte che la ricostruzione in termini di “teoria delle volte” sarebbe stata brillantemente contestata dalla prof. A. (CTP dell’arch. F.) la quale ha obiettato correttamente come le volte delle grotte crollate non presen-tassero una morfologia ad arco, ma fossero piuttosto schiacciate e quasi perpen-dicolari alle pareti, privando così la teoria del prof. V. di ogni fondamento.
    La suggestiva teoria sopra enunciata, infatti, risulterebbe intrinsecamente contraddittoria, non trovando riscontro nell’effettiva conformazione dei locali grotta coinvolti nel crollo, le cui volte – per come ricostruite dagli stessi CCTT – presentavano delle volte tendenzialmente ortogonali alle pareti. Detta circostanza -si fa rilevare- era già agevolmente evincibile dai rilievi della stessa relazione V.-P. che vengono riprodotti in ricorso.
    Non sarebbe stato accertato quale fosse in antiquo l’originaria conformazione delle cavità crollate e se la volta fosse stata erosa dalla mano dell’uomo, e soprattutto in quale epoca (che potrebbe essere assai remota).
    La Corte, per dare corpo alla teoria delle volte si riferisce – ci si duole- ad altre grotte collocate nei pressi del porto di Castro che presentano, invece, un soffitto a volta concava. Detta similitudine, tuttavia, rappresenterebbe già, essa stessa, un primo travisamento, poiché si tratterebbe di cavità diverse da quelle per cui è processo e sulla cui formazione non si ha alcun tipo di informazione; è ben possibile che l’attuale conformazione sia ancll’essa ascrivibile alla mano dell’uomo per ragioni che oggi ignoriamo e tuttavia riconducibili alla necessità – a mero titolo esemplificativo – di ricoverarvi imbarcazioni dotate di albero.
    Il dato euristico ricavato da questo paragone sarebbe davvero debolissimo e inadatto a fungere da prova della teoria summenzionata. Tale passaggio risulterebbe, invece, fondamentale e decisivo per corroborare la ricostruzione dei CCTT del P.M. Ma senza la prova dell’originaria conformazione dei locali-grotta in questione la legge scientifica adottata dalla Corte territoriale come explanans del nesso causale resterebbe priva di qualsivoglia fondamento concreto in grado di dare copertura (anche solo statistica) alla catena di responsabilità.
    Il ricorrente evidenzia che, a pag. 11 della sentenza impugnata, la Corte ter-ritoriale stabilisce che i lavori diretti dal F. avrebbero interessato anche la demolizione di parte dello sperone di roccia che si frapponeva tra i due vani dello “Speranbar”.
    Questa conclusione, tuttavia, non sarebbe per il ricorrente in alcun modo con-divisibile, poiché priva di fondamento e frutto del travisamento e dell’omessa valutazione delle prove acquisite nel corso dell’istruttoria.
    La sentenza farebbe proprie alcune conclusioni dei CCTT del PM cui gli stessi erano approdati in via presuntiva e prima che l’istruttoria dibattimentale apportasse ulteriori elementi. Ciò sarebbe dipeso dal fatto che l’incarico peritale conferito dal PM ex art. 360 cod. proc. pen. non vedeva all’epoca tra gli indagati l’arch. F. (come risulta dal verbale di conferimento incarico del 23.03.2009 allegato con riferimento 0.1-4 alla CTP V.-P.) il cui nome fu iscritto in un secondo momento all’esito dell’accertamento tecnico de quo.
    Secondo i consulenti V. e P. vi era la possibilità che l’arch. F. avesse depositato presso il Comune delle planimetrie modificate rispetto all’effettivo stato dei luoghi, al fine di nascondere la reale portata dei lavori all’interno dello Speranbar che avrebbero Interessato anche il costone di roccia.
    Tale intuizione sarebbe derivata dal rinvenimento di un moncone di roccia evidenziato in consulenza nella fotografia Fig. 1.1.73-bl) che autorizzerebbe il prof. V. a dire: “differentemente da quello che leggiamo insomma, a sostegno delle tesi difensive, questa divisione tra Speranbar qui a destra e il locale che qui è ingombrato dalle macerie, F., era in realtà in parte sicuramente calcarenitica, perlomeno in parte, e che quindi la sua demolizione ha concorso a indebolire la grotta contigua”.
    Fin qui le conclusioni dei consulenti fatte proprie dalla Corte a pag. 11 della sentenza.
    b. Contraddittorietà e insufficienza della motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. desumibile dall’omessa valutazione della documentazione di cantiere consistente in un dossier fotografico dei lavori eseguiti nel 1996 prodotto dalla difesa all’udienza innanzi al Tribunale del 7.10.2013 (affoliazione da 337 in poi del fascicolo del dibattimento). Per quanto attiene invece la foto n. 11 di detto dossier la contraddittorietà della motivazione assumerebbe le forme del travisamento della prova, avendo la Corte errato sun’informazione contenuta in essa.
    A seguire, però, il ricorrente fa rilevare che la sentenza è obbligata a misurarsi con le risultanze istruttorie – e segnatamente con un fascicoletto fotografico prodotto al Tribunale da essa difesa dell’arch. F. all’udienza del 7.10.2013 – ma traviserebbe in maniera grossolana quanto raffigurato nelle immagini. Ciò in quanto le foto 11 e 12 di detto fascicoletto – raffiguranti il pr incipio del varco aperto nella parete in muratura della palazzina “ex Sansò” che separava i due vani dello Speranbar – sono poste dalla Corte a base di un ragionamento del tutto errato alla stregua del quale: “nella foto 11, infatti, la posizione dell’arco che si intravede oltre il muro, nel lato. Speranbar – molto arretrata rispetto alla porzione di varco che risulta aperta al momento dello scatto – lascia pensare che il residuo sperone di banco roccioso abbattuto durante i lavori sia dietro la parte di muratura non ancora eliminata”.
    La Corte territoriale sarebbe incorsa in un errore marchiano, attribuibile al disorientamento spaziale rispetto all’immagine raffigurata.
    Come si può evincere dagli allegati, invece, secondo il ricorrente, il varco aperto nel punto indicato con un cerchietto blu lascia intravedere uno dei quattro pilastri su cui poggia la volta del vano attiguo, sito nell’angolo opposto (contrassegnato con un cerchietto rosso). Ed allora il residuo sperone roccioso vagheggiato in sentenza non potrebbe mai trovarsi oltre la parete da demolire perché il locale grotta è quello da cui è scattata la foto, mentre il vano oltre la breccia è (come si vede) archivoltato in muratura ed appartiene alla palazzina “ex Sansò”.
    Sarebbe fin troppo evidente il travisamento delle prove fotografiche.
    c. Contraddittorietà e insufficienza della motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. desumibile dall’omessa valutazione della deposizione resa all’udienza innanzi al Tribunale del 7/10/2013 dal teste C.A., operaio che nel 1996 aveva lavorato nel cantiere sotto la direzione dell’arch. F..
    Ricorda il ricorrente che la documentazione fotografica, nel corso dell’udienza istruttoria del 7.10.2013, è stata integralmente riconosciuta riferirsi ai lavori del 1996 dal teste C.. E proprio la testimonianza del sig. C.A., il quale lavorò come operaio alla realizzazione del portale in cemento armato, sarebbe l’altro elemento probatorio che si pone in contrasto con la motivazione e la cui valutazione sarebbe stata del tutto pretermessa dalla Corte territoriale, traducendosi in un’omessa motivazione parziale.
    La fondamentale deposizione del C., il quale ha dichiarato che in occasione dei lavori del 1996 non si intervenne sulla parete rocciosa non sarebbe stata – irragionevolmente – tenuta in considerazione dal primo giudice e (sebbene fosse stata oggetto di specifico motivo nell’atto di appello) nemmeno dalla Corte territoriale, la quale non ha spiegato in nessun passaggio della motivazione come abbia potuto ritenere l’arch. F. responsabile per aver contribuito all’erosione del banco di calcarenite sebbene il teste C. lo avesse escluso espressamente.
    La rilevanza del dato introdotto dal teste C. sarebbe tale da rivestire i requisiti della decisività, poiché avrebbe consentito di vanificare l’intera ricostruzione causale che individua la responsabilità del F. proprio nell’aver eroso la parete rocciosa.
    d. Contraddittorietà della motivazione ex art. 606 lett, e) cod. proc. pen. sub specie di travisamento della prova, avendo la Corte territoriale errato sulle infor-mazioni ricavabili dalla foto fig. 1.1.7.5-bl) – 9 a pag. di 469-RE-1.1.7.5-b) della CTP della Procura.
    Meriterebbe, secondo il ricorrente, un definitivo chiarimento anche la foto fig. 1.1.7.5-bl) – 9 riprodotta a pag. 7 del 1.1.7.5 della CTP V.- P. che viene allegata, indicata in maniera sintetica come “foto n. 9” dal Tribunale nel passaggio della prima sentenza, a pag. 74, riportato pedissequamente nella pronuncia della corte di appello a pag. 12. Nella foto – si spiega in ricorso- i CCTT hanno cerchiato un dettaglio rappresentato da una lente di roccia, sulla base del quale il primo giudice (e per relationem, la Corte) argomenta così: “…la foto numero 9, il punto cerchiato mostra come la trave andava a inserirsi non nella muratura ma andava inserirsi nell’ultimo residuo spuntone di roccia senza alcun meccanismo di ancoramento: non c’è un muro che andava dal secondo spazio dello Speranbar verso le costruzioni in alto, ma c’è, come si vede alla foto, un brandello di roccia su cui evidentemente andava ad inserirsi la trave. La trave in cemento armato innestata nella parete di fondo del banco di calcarenite ha costituito un ulteriore elemento di debolezza riducendo la capacità del complesso delle grotte di reggere alla loro progressiva erosione interna”
    Questa clamorosa svista del primo giudice (sulla scorta di quanto sostenuto dai CCTT del P.M.) avrebbe esercitato una forte suggestione sulla Corte territoriale inducendola al medesimo errore di lettura del dato: Ed invece già solo un’attenta “lettura” dell’immagine a colori sarebbe in grado di fornire elementi utili. Appena sotto la lente di calcarenite e prima di quello che resta della boiserie che rivestiva la parete dietro al banco mescita si osserverebbe una porzione di muro ricoperto di intonaco bianco che, in parte scrostatosi, lascerebbe intravedere il color grigioscuro del cemento armato. Si tratterebbe, infatti, proprio di quello stesso pilastro di cemento indicato dalla freccia nella foto n. 17 del dossier fotografico prodotto dalla difesa all’udienza 7.10.2013; uno dei due pilastri che, sostituendo la muratura a sacco della palazzina ex Sansò, creavano con l’architrave in c.a. il varco che metteva in comunicazione i due vani dello Speranbar.
    A documentare quella stessa parete prima dell’edificazione dell’architrave ci sarebbe un’altra foto fondamentale, la n. 15 del dossier prodotto in udienza, dalla quale si evincerebbe con indubbia chiarezza che in loco vi era muratura e non roccia.
    Il ricorrente ritiene che lo stato dei luoghi (casina ex Sansò) al momento dell’intervento del 1996 sia stato ricostruito in maniera molto chiara alle pagg. XLVIII – LUI della relazione a firma della Prof. A. versata in atti e riassunto nel verbale fono trascritto dell’udienza del 7.10.2013 (pag. 108): “Per quanto riguarda il primo piano avevamo un muro che, ovviamente, era sostenuto dai muro a piano terra, quindi un muro ai primo piano al di sopra di questo muro al piano terra, sempre in muratura, e che proseguiva, che proseguiva nella parte posteriore; così come si vede, chiaramente, dalle foto scattate dopo il crollo. Quindi, questo vuol dire che, mentre a piano terra una parte del muro era tutto calcarenite e l’altro tutto muratura, al primo piano era tutto muratura, cioè tutto muratura a sacco. Quindi, di fatto questo che noi vediamo qui che è il muro dalla foto scattata subito dopo il crollo, è il muro del vano posteriore che, come ho già detto prima, di fatto poggiava su una parete in calcarenite. Quindi, in realtà, non ci meravigliamo se al di sotto di questo muro troviamo una lente di calcarenite, cosa che viene sottolineata dai consulenti tecnici ma che a mio parere è un fatto naturale se analizziamo in dettaglio come era fatta la struttura. Quindi, il muro posteriore poggiava sulla parete di calcarenite”.
    Se ne ricava – prosegue il ricorso che il muro del locale al pian terreno della palazzina ex Sansò di proprietà A.S. posto al confine con il locale grotta di F.G. oggetto dell’intervento edilizio del 1996 presentava una conformazione disomogenea, poiché per un lungo tratto era costituito da muro a sacco (sostituito nel 1996) e per una piccola parte (sul fondo) da una parete di roccia posta alle spalle del pilastro (il richiamo è alle pagg. L e LI della CTP a firma della prof. A.).
    La scelta compiuta dalla Corte territoriale all’atto di ignorare immotivatamente la prova dichiarativa di chi partecipò nel 1996 alla realizzazione del manufatto vizierebbe per il ricorrente irrimediabilmente la motivazione, poiché attingerebbe un passaggio determinante, senza il quale è impossibile pervenire alla condanna dell’arch. F. che – a dire della Corte – deriverebbe dall’essere intervenuto (indebolendola) sulla parete rocciosa. Senza la prova di questo intervento la condotta dell’arch. F. non potrebbe inserirsi nella catena di cause e concause che hanno determinato l’evento.
    e. Contraddittorietà della motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. perché incompatibile con la testimonianza resa dal teste A.G..
    Il ricorrente si duole anche che la Corte territoriale, travisando il contenuto della deposizione dell’A.G. e della relazione dei CCTT della Procura, sia pervenuta ad un’erronea ricostruzione della cinematica del crollo in relazione al comportamento statico del portale in calcestruzzo ed al posizionamento dello stesso una volta avvenuto il crollo.
    Altro tema di grande importanza sarebbe in tal senso la posizione della trave in c.a. al momento del crollo.
    Il difensore ricorrente ritiene, forte degli elementi emersi in istruttoria e delle conclusioni cui è pervenuto il CTP Prof. A. nella sua relazione, che non vi siano elementi per stabilire con certezza che il crollo abbia coinvolto anche il portale in calcestruzzo, anzi.
    Viene ricordato che all’udienza del 7.10.2013 fu sentito come teste A.G., di professione escavatorista, intervenuto per primo sul luogo del crollo, la cui testimonianza è particolarmente importante, perché tutta la documentazione fotografica è comunque successiva al suo intervento (e ciò è dimostrato dal fatto che le pur numerose foto poste a base della ricostruzione offerta dai CCTT della Procura mostrano sempre la grossa trave già ripulita e poggiata in bella mostra fuori dal cumulo delle macerie).
    Anche in questo caso, secondo il ricorrente, il problema sarebbe costituito dalla scelta della Corte territoriale di appiattirsi sulle valutazioni elaborate dei prof.ri V. e P. quando molti degli odierni imputati (incluso l’arch. F.) non erano ancora indagati e non hanno, così, potuto fornire il proprio apporto.
    Ad avviso del ricorrente i giudici di merito hanno omesso di arricchire la loro piattaforma conoscitiva, come avrebbero dovuto, ponendo in proficuo dialogo i dati raccolti in fase di indagine con quelli emersi dall’istruttoria dibattimentale, soprattutto se una prova fondamentale – in un processo siffatto – come la consulenza tecnica, sia intervenuta in contraddittorio con indagati parzialmente non coincidenti con i soggetti oggi imputati.
    Da qui, l’intrinseca contraddittorietà della sentenza.
    Ci si duole che la Corte territoriale (a pag. 14 della sentenza impugnata) per superare la testimonianza dell’A.G. utilizzi la relazione V.- P., cadendo in un’evidente incongruenza apodittica, poiché la consulenza tecnica per sua stessa natura rappresenta un’ipotesi ricostruttiva basata sulle evidenze disponibili tra le quali, all’epoca della sua stesura, non figurava certo la deposizione dell’A.G..
    Il ricorrente contesta che si possa utilizzare una prova valutativa e indiretta (CTP) per contestare la validità di una evidenza diretta (la testimonianza dell’A.G.) con la quale la prima non si è misurata; inoltre, la deposizione sarebbe perfettamente in linea con la ricostruzione della cinematica cui approda la prof. A. nella sua relazione (acquisita a seguito dell’esame della stessa all’udienza del 7.10.2013). In detta relazione tecnica di parte -prosegue il ricorso- si chiarisce come il gigantesco masso calcarenitico quadrangolare abbia sì compiuto una rotazione verso la palazzina ex Sansò, ma abbia impattato non con il portale di calcestruzzo, bensì con il primo piano di detta palazzina.
    La dinamica sarebbe spiegata dalla Prof.ssa A. in modo efficace nelle pagine XXIX – XXXIX della consulenza a sua firma, laddove si fa notare che se il portale fosse stato davvero il primo elemento architettonico a cedere, all’esito del crollo Lo avremmo dovuto rinvenire sotto tutte Le altre macerie e non sopra.
    Detta fondamentale circostanza, infatti, dimostrerebbe chiaramente come il portale abbia senz’altro resistito al primo impatto, per poi cedere – inevitabilmente – quando è collassata l’intera struttura.
    f. Errata applicazione della legge penale ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen. in relazione all’artt. 40 e 41 cod. pen. con riferimento alla ricostruzione del nesso causale.
    In ultimo, il ricorrente ritiene che vada operata una riflessione non trascurabile dal punto di vista dell’accertamento della causalità.
    Posto il complesso roccia-edifici non era un terreno vergine, ma vi si erano succeduti nei decenni numerosi rimaneggiamenti e interventi umani, molti dei quali sono rimasti anonimi e (nella parte crollata) ignoti, mancherebbe nel l’istruttoria, e quindi nella sentenza, la prova che – una volta sposata la teoria condizionalistica – quell’aggregato edilizio avrebbe resistito se l’odierno imputato non avesse posto in essere le condotte contestategli.
    Ciò avrebbe comportato, oltre all’errata applicazione delle leggi della causalità, la violazione della regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
    g. Erronea applicazione della legge penale ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 449 e 43 terza alinea c.p. con riferimento alla configurazione della colpa.
    Il ricorrente evidenzia che la sentenza impugnata, all’atto di esaminare la colpevolezza prende le mosse dal presupposto (già criticato) che l’arch. F. abbia ridotto il banco calcarenitico.
    Ebbene, viene sottolineato che i lavori diretti dall’odierno imputato nel 1996 erano stati regolarmente autorizzati, vennero svolti conformemente ai titoli autorizzativi e furono corredati anche da una perizia ingegneristica giurata sulla statica della struttura rispetto all’intervento modificativo.
    La Corte territoriale – ci si duole- ritiene insufficiente quella consulenza com-missionata a un ingegnere perché si sarebbe impegnata solo sugli aspetti statici relativi alle spinte verticali e non a quelle oR.A.ntali.
    Ma per il ricorrente sarebbe ovvio ritenere che di quelle valutazioni statiche risponda il solo professionista estensore e non anche il F. il quale, incompetente in materia, le ha fisiologicamente recepite.
    A seguire (sempre a pag. 14) si rileva che la sentenza fa discendere la re-sponsabilità dell’arch. F. dalla preordinata presunta eliminazione già dai rilievi dello sperone di roccia che si assume poi demolito durante i lavori. Ma sul punto il difensore ricorrente ribadisce quanto sostenuto e provato nei motivi precedenti, cioè che il rilievo allegato alla richiesta di DIA fosse conforme allo stato dei luoghi, non avendo il F. modificato in nulla il banco calcarenitico.
    Oltretutto si evidenzia che si trattava di locali commerciali siti nella piazza principale del piccolo borgo marinaro, dove sarebbe stato difficile sottrarsi ai controlli delle Autorità comunali.
    h. Illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza ex art. 606 lett. e) cod. proc.. pen. in relazione all’individuazione della responsabilità a titolo di colpa generica.
    Con un ulteriore motivo il ricorrente evidenzia poi che, con riferimento al coef-ficiente psicologico la Corte territoriale pare abbandonare il paradigma delta colpa-specifica (con tutte le difficoltà ad esso legate in termini di individuazione della regola cautelare vigente nel 1996) per assestarsi su quello della colpa generica (facendo addirittura un discutibile riferimento al “senso comune”) compiendo un’o-perazione dogmatica deprecabile perché invece di procedere al puntuale e meticoloso accertamento delle regole cautelari violate ed alla possibilità dei soggetti di conoscere il contesto attivatore di dette regole, si limiterebbe a valutare le condotte alla stregua del post hoc propter hoc (il passaggio censurato è quello ove si legge: “Era così evidente che il complesso sarebbe crollato che anche il quisque de populo lo avrebbe capito, figuriamoci un tecnico!”).
    Ebbene, si sottolinea in ricorso che l’arch. F. non ha improvvisato un in-tervento edilizio abusivo di notte con una squadra di operai raccattati chissà dove. Al contrario, il professionista ha depositato presso il Comune tutta la documentazione richiestagli, rivolgendosi ad un ingegnere per gli aspetti non di sua competenza e realizzando un’opera che per tanti anni ha retto bene.
    A pag. 10 della sentenza – ci si duole- la Corte liquida in poche righe un tema di grande importanza: nel 1996 non esisteva ancora sul piano tecnico un concetto codificato di unità strutturale; tema di evidente centralità in una situazione come quella per cui è imputato l’arch. F..
    La sentenza – ci si duole- critica la scelta definita “tomistica” di analizzare le responsabilità sulla base dei singoli interventi, edilizi, dimenticando che su quelle basi fu depositata presso il Comune di Castro la documentazione urbanistica; nessuno all’epoca pretese, né avrebbe potuto, che la committenza dei lavori per l’apertura di un varco in un muro presentasse delle valutazioni sull’intero complesso di roccia (a patto che fosse possibile compiere delle valutazioni di quel tipo).
    Si lamenta, ancora, che a pag. 10 della sentenza la Corte compia una sorta di “sorpasso a destra” della consulenza tecnica V.- P.; mentre, infatti i CCTT della Procura si erano sempre espressi in termini di colpa specifica, la sentenza impugnata richiamerebbe a sostegno dei proprio ragionamento aspetti generici della vicenda quali la presenza di catene (in altre zone dell’aggregato edilizio), i vistosi rimaneggiamenti nelle linee statiche essenziali, il fatto che si trattasse di più edifici affastellati.
    La genericità dei riferimenti individuati dalla Corte territoriale per porre le basi del rimprovero colposo si tradurrebbe nell’evidente illogicità della motivazione sul punto.
    Il ricorrente rileva che la condanna a titolo di colpa (anche solo generica) doveva necessariamente presupporre che l’arch. F. fosse a conoscenza della progressiva erosione della roccia calcarea verificatasi nel corso dei decenni e dell’operatività di quella “teoria delle volte” che trasformerebbe la spinta verticale del carico statico in spinta oR.A.ntale scaricata in buona parte sul residuo di roccia a metà dei due locali componenti lo Speranbar. Ma la decisione impugnata trascura evidentemente – si legge ancora in ricorso- che l’architetto, il quale non era pro-prietario di quei locali, non era ovviamente tenuto a conoscere quale fosse stata la progressiva riduzione del banco calcarenitico (per effetto dell’uomo o per cause naturali), elemento che potrebbe anche essere stato artatamente taciuto dai pro-prietari; e ancor meno si poteva pretendere che l’arch. F. avesse cognizione della modificazione ab urbe condita della progressiva erosione del banco calcarenitico anche all’interno delle altre proprietà.
    Per il ricorrente la “teoria delle volte” elaborata dal prof. V. non pare potesse costituire patrimonio di un semplice architetto chiamato a compiere un banale intervento di ampliamento. E peraltro, pur ipotizzando che, per eccesso di zelo, l’arch. F. avesse voluto (per aprire un varco in un muro) compiere una valutazione globale dell’intero complesso architettonico, viene evidenziato come lo stesso non avesse poteri autoritativi di cui avvalersi per entrare invito domino negli appartamenti e negli altri esercizi commerciali edificati sul costone. Né l’arch. F. – prosegue il suo difensore- poteva conoscere nel 1996 la condizione dell’intero aggregato edilizio (includendo i carichi statici dei piani superiori), laddove la stessa documentazione presso l’Ufficio tecnico del Comune di Castro si è rivelata (come si è scoperto già in fase di indagini) in gran parte inesistente e le abitazioni presentavano superfetazioni edilizie abusive (soppalchi in cemento armato etc.).
    Preliminare ad ogni rimprovero colposo – viene ricordato- è la possibilità in capo al soggetto di conoscere la situazione concreta attivatrice dello specifico obbligo cautelare. Ebbene, per il ricorrente, nel caso in esame né il tribunale, né la corte di appello hanno voluto prendere atto che all’epoca dei fatti l’arch. F. non aveva motivo di compiere accertamenti diversi da quelli posti in essere tenendo una condotta rispettosa delle regulae artis rispetto al tipo di intervento che si accingeva a eseguire.
    ì. Insufficienza della motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. in relazione alla decisione di non rinnovare l’istruttoria disponendo una perizia d’ufficio che valutasse gli aspetti statici alla luce delle evidenze dibattimentali.
    Sul punto si lamenta che la Corte territoriale si sia limitata a stabilire di non ritenere “necessario un apporto tecnico per valutare le conclusioni dei periti di parte e porle in rapporto dialettico”.
    Si tratterebbe di una motivazione più che laconica o lacunosa, di una vera e propria motivazione apparente, poiché la Corte formalmente risponde al motivo sollevato dalla difesa nei motivi di appello, ma non spiega le ragioni di tale dissenso.
    I. Contraddittorietà e illogicità della motivazione ex art. 606 lett. e) cod. proc. pen. in relazione al rigetto del motivo volto alla concessione delle attenuanti generiche.
    Con il decimo ed ultimo motivo il ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia negato la diminuente in discorso sulla base del fatto che l’arch. F. avrebbe eliminato parte dello sperone di roccia che (stando alla sentenza impugnata) divideva i locali dello Speran Bar dagli elaborati progettuali, provvedendo poi alla demolizione.
    3. C.M.A. (Avv. OMISSIS)
    Si tratta del conduttore dell’attività commerciale “Sport Pesca Mare”.
    a. Violazione di legge ed illogicità della motivazione (art. 606 co. 1 lett. b ed e cod. proc. pen) in relazione agli artt. 113, 443 e 449 cod. pen.
    Il ricorrente ricorda essere principio consolidato in giurisprudenza, in tema di cooperazione colposa, che, ai fini del riconoscimento della cooperazione nel reato colposo non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell’altrui condotta, né la conoscenza dell’identità delle persone che cooperano, ma è sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza del coinvolgimento di altri soggetti in una determinata attività, fermo restando che la condotta cooperativa dell’agente deve, in ogni caso, fornire un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell’evento.
    Di tale contributo causale – evidenzia il ricorso- si discute a proposito della condotta dell’attuale ricorrente C.M., conduttore dell’attività commerciale “Sport Pesca Mare”.
    Ebbene, per il ricorrente dall’analisi del capo di imputazione, della sentenza di primo grado e dell’atto di appello, emergerebbe con chiarezza che l’unica ipotesi di condotta che astrattamente avrebbe potuto costituire un contributo causale al crollo di cui è processo sarebbe stata quella consistente nell’erosione della parete rocciosa di fondo del locale, erosione che avrebbe accentuato l’aggetto della parete rocciosa sovrastante e che ne avrebbe favorito il crollo.
    Intorno a tale possibile erosione – prosegue il ricorso- si sono affrontate nel processo le tesi dell’accusa e della difesa, la prima affermandola e la seconda ne-gandola. Ancora più in particolare, la difesa ha fatto riferimento alla presenza, dopo il crollo, di due tracce di intonaco sulla suddetta parete che individuerebbero, logicamente e inequivocabilmente, il piano verticale della parete, quale esso era anche prima del crollo. Piano che, come le due tracce testimonierebbero, sarebbe rimasto immutato, ossia mai interessato dai lavori effettuati dal C.M. all’interno del locale e non essere stato mai approfondito neppure di un millimetro.
    Tale affermazione della difesa – viene ancora ricordato- era stata fondata su tre argomenti, che vengono riassunti, nel testo della motivazione della sentenza, a pag. 29, nei seguenti termini: “la quantità e qualità del materiale di risulta di cui è stato accertato lo smaltimento; il profilo ad arco della parte superiore della nicchia, la presenza di due residui di intonaco sulla parete di fondo della nicchia medesima”.
    Ricordato testualmente come la Corte territoriale abbia replicato al primo ar-gomento, quello fondato sui dati quantitativi e qualitativi del materiale di risulta, per il ricorrente i giudici del gravame del merito sarebbero incorsi nei seguenti errori:
    1. Nel primo capoverso assimilando “tufo” e “roccia viva” che corrispondono a due entità assolutamente distinte (e da distinguere rigorosamente nel caso di specie) in quanto per “tufo1 sono da intendersi esclusivamente, secondo il significato tecnico che deve essere attribuito ai nomi in una materia tecnica e di cui parlano i tecnici intervenuti nel processo, i materiali, derivanti da “conci di tufo”, ossia pietra da costruzione estratta dalla cava in blocchi omogenei solitamente dello spessore di 25 cm, mentre per “roccia viva’ deve intendersi invece il materiale proveniente dalle pareti rocciose delle grotte nelle quali erano stati realizzati nel tempo i locali commerciali.
    Sbaglierebbe quindi la Corte territoriale allorché afferma, dimenticando tale distinzione che “in ogni caso, tolta una quota di altri inerti, quasi tutto il materiale portato in discarica era costituito da roccia viva”.
    Il materiale era, al contrario, come risulterebbe dai dati incontrovertibili acquisiti al processo, costituito da almeno due elementi, il tufo e la roccia.
    Diversamente opinando, come fa la Corte, secondo il ricorrente si dovrebbe giungere all’assurda conclusione che il proprio assistito avrebbe asportato dal locale quasi 10 metri cubi di roccia viva (“quoti tutto il materiale portato in discarica era costituito da roccia viva), cosa che nessuno, neppure da parte dei consulenti del PM ha mai affermato durante l’intero processo.
    2. Nel terzo capoverso il ricorrente si duole che la Corte territoriale critichi le conclusioni del consulente di parte incorrendo in ulteriori gravi errori logici. Ciò, a suo dire, in quanto, in un primo momento ammette, allo scopo di criticare i calcoli del predetto consulente, l’esistenza di “due nicchie nella parete di fondo del locale” e immediatamente dopo nega che del rivestimento in muratura tufacea della nicchia, dello spessore medio di cm 25 vi sia “traccia in atti”.
    Ancora una volta, però, secondo il ricorrente, occorrerebbe intendersi sul significato delle parole. La parola “nicchia”, secondo l’accezione comune, sta a indicare: a) un incavo nello spessore di un muro, oppure, estensivamente, un piccolo ripostiglio, o anche un piccolo vano. Da ciò consegue che, se nella parete di fondo del locale erano presenti due nicchie, come anche la Corte territoriale ammette, e se il piano verticale della parete di fondo è rimasto visibile, anche dopo il crollo, da due tracce di intonaco, le due nicchie, i due incavi, i due ripostigli erano stati realizzati ricoprendo la parete di fondo con un rivestimento in muratura tufacea e lasciando libero, sulla medesima parete, lo spazio per le predette nicchie, o cavità, o ripostigli. Quindi le nicchie erano preesistenti, erano state realizzate sovrapponendo il tufo alla parete di fondo e dalla rimozione del rivestimento tufaceo (lasciando intatta la parete di fondo rocciosa) era scaturito quel materiale di risulta di cui parla esattamente il consulente di parte e che è stato ritrovato in discarica. Ergo, il ricorrente non avrebbe alterato in alcun modo la parete di fondo del locale e non avrebbe dato alcun contributo causale al verificarsi dell’evento dannoso.
    Riportato quindi il passo della sentenza in cui la Corte di Appello replica al secondo argomento, quello fondato sulla forma ad arco del profilo della volta della parete di fondo, con un ragionamento del tutto ipotetico-probabilistico, il ricorrente evidenzia che secondo i giudici del gravame del merito l’argomento della difesa non sarebbe significativo perché ad esso sarebbero opponibili due ipotesi.
    La prima che l’arco sia stato rettificato parzialmente per uniformano al profilo tondeggiante della parte superiore delle due nicchie già presenti. Ma a tale ipotesi, secondo il ricorrente, è agevole opporre che nulla la Corte sa del profilo tondeggiante della parte superiore delle due nicchie. In altri termini, si chiede il ricorrente, da dove la Corte ricava la plausibilità di tale ipotesi che presuppone un profilo tondeggiante? Da cosa la Corte esclude che il profilo superiore delle nicchie fosse rettilineo, e che la nicchia, come sempre accade, avesse anche nella fattispecie una forma rettangolare? Si tratterebbe di una pura ipotesi senza alcun fondamento negli atti processuali. Ma non meno ipotetico -prosegue il ricorrente- sarebbe il secondo ragionamento adottato dalla Corte territoriale, secondo il quale il ricorrente avrebbe rettificato “totalmente” il profilo della volta ad arco (sostanzialmente realizzandolo ex novo), “ove, come è probabile, la parte superiore delle due predette nicchie non arrivasse al filo della volta”. Ma ancora una volta, quindi, secondo il ricorrente, si tratterebbe di un’ipotesi che si affianca a un’altra ipotesi di segno diverso, per affermare la sussistenza di una condotta penalmente rilevante. Ma entrambe tali ipotesi non terrebbero in alcun conto il dato di fatto che, in ogni caso, tale arco non è crollato, è ben visibile in tutte le ricostruzioni fotografiche effettuate dai consulenti del PM acquisite agli atti processuali. E se l’arco non è crollato, a voler concedere per assurdo che esso sia stato realizzato dal ricorrente, ciò vorrebbe dire che non è l’arco a poter essere indicato come prova della manomissione della parete rocciosa posta al fondo del locale.
    Ricorda poi il ricorrente che il terzo argomento della difesa viene affrontato dalla Corte con una semplice assenza di valutazione.
    La difesa – evidenzia il ricorso- ha sostenuto che le due tracce di intonaco poste sulla parete di fondo testimonierebbero inconfutabilmente che la parete di fondo del locale non è stata approfondita. Ma su tale conseguenza logica la Corte tace (e quindi non motiva), ignorando la portata e la valenza dell’argomento medesimo.
    Infine, secondo il ricorrente, vi è poi un ultimo argomento che la Corte territoriale intende utilizzare contro il suo assistito (il richiamo è a pag. 31) quando parla della avvenuta modifica dell’ampiezza interna dei locale in questione sulla base della ricostruzione storica delle planimetrie acquisite. Ma qui occorrerebbe sottolineare che il ricorrente è stato il conduttore dell’immobile e che non possono certo, essergli imputate tutte le modifiche che il locale avrebbe subito prima del suo ingresso nello stesso.
    Dall’analisi della motivazione emergerebbe perciò con chiarezza che la Corte non ha individuato con ragionamento immune da vizi logici e giuridici il contributo causale fornito dalla condotta del ricorrente al crollo del complesso di immobili.
    4-5-6. B.M., F.M.R. e R.A. (Avv. OMISSIS).
    Si tratta della titolare dell’esercizio commerciale Bar Pasticceria “Le delizie” e committente dei lavori (F.M.R.), del marito (B.M.) del tecnico progettista e direttori dei lavori in corso di esecuzione all’interno del locale (R.A.).
    a. Nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 co. 1 lett. e) cod. proc. pen., nonché per difetto di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza ai sensi dell’art. 521 e 522 cod. proc. pen., in relazione alla entità e alla natura dei lavori effettuati all’interno della pasticceria “Le delizie” nei giorni precedenti il crollo.
    Secondo i ricorrenti la sentenza impugnata ha certamente violato i principi di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. poiché, a fronte della chiara contestazione mossa nei confronti dei loro assistiti, ai quali era addebitata, quale condotta colposa specifica, di aver proceduto “alla demolizione dei residui percorsi dei carichi gravanti sulla struttura ed all’allargamento abusivo, mediante spicconatura del materiale calcarenitico, della nicchia posta sul fondo del locale, così determinando l’ulteriore finale indebolimento delle residue forze di coesione del masso alla parete rocciosa posteriore, causandone i! rovinoso distacco”, ne avrebbe affermato la loro responsabilità con riferimento principalmente ai lavori eseguiti sulla parete di fondo del locale e, solo in minima parte, con riguardo ai lavori che avevano interessato la nicchia.
    Ci si duole che, in alcuni passaggi della sentenza emerga chiaramente un vero e proprio difetto di motivazione, nel senso che, con riferimento ad alcuni aspetti approfonditamente trattati nell’atto di impugnazione proposto avverso la decisione del tribunale, i giudici di secondo grado operino un rinvio ad altri passaggi della propria sentenza che, tuttavia, riguardano imputati diversi e questioni solo apparentemente simili a quelle prospettate dalla difesa di B.M., F.M.R. e R.A..
    Illogica, contraddittoria, inadeguata e ricca di mere congetture si appaleserebbe, poi, la sentenza della Corte di Appello nella parte in cui si sottrae totalmente ai rilievi esposti nell’atto di appello e dà per scontato che all’interno dei locali della pasticceria “Le delizie” fossero in corso determinati lavori, la riprova della cui esistenza discenderebbe – a detta dell’estensore – unicamente dalla presenza di martelletti elettrici rinvenuti dopo il crollo e dalla individuazione di alcuni residui calcarenitici tra il materiale di risulta sequestrato presso una discarica distante diversi chilometri dal luogo del crollo.
    Il difensore ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sia rimasta totalmente silente di fronte alle osservazioni difensive, tutt’alto che infondate, secondo cui la presenza di quei martelletti elettrici, lungi dal provare che si stesse eseguendo una vera e propria spicconatura del blocco calcarenitico, erano stati impiegati unicamente al fine di realizzare i lavori previsti nella relativa DIA, cioè la sostituzione del rivestimento delle pareti di roccia con muratura in conci di tufo, la sostituzione del rivestimento in legno bituminato, nonché il rivestimento delle murature del locale in cui erano collocati i servizi igienici con piastrelle smaltate oltre al rifacimento della controsoffittatura e degli impianti. Quanto, poi, al materiale di risulta sequestrato nella predetta discarica, appare davvero singolare e oltremodo ardito, ad avviso del ricorrente, ricollegare, addirittura con indubbia certezza, tale materiale a quello proveniente dai lavori eseguiti nella pasticceria, quasi che quanto rinvenuto in discarica recasse una qualsivoglia indicazione (ad esempio, una targhetta identificativa) della sua certa provenienza dal locale dei coniugi B.M.-F.M.R. e non potesse invece provenire da chissà quali altri lavori di demolizione. Peraltro, la natura del materiale sequestrato in discarica (nelle foto allegate alla perizia e nei motivi di appello viene ricordato che si era parlato espressamente della presenza di “piastrelle, blocchi di tufo e di cemento, tubazioni dismesse e una minima quantità di sabbia tufacea”) lascerebbe ragionevolmente ritenere che non provenisse da lavorazioni condotte sulle pareti di calcarenite.
    Quanto alla natura e alle caratteristiche dei lavori eseguiti, i ricorrenti evidenziano di avere a loro avviso già dimostrato nel corso del processo, con l’ausilio del consulente tecnico di parte Ing. S., che tali lavori non hanno in alcun modo interessato né il banco di roccia né altre parti murarie direttamente o indirettamente incidenti sulla struttura portante che sorreggeva il complesso edilizio inte-ressato dal crollo del 31 gennaio 2009.
    In primo luogo, sarebbe da escludersi che gli odierni imputati siano intervenuti in qualche modo sulle pareti laterali della grotta, ciò al contrario desumendosi, secondo i giudici dell’appello, dalla “evidenza dei segni dei martelli pneumatici sulla parete di fondo della pasticceria… (che) dimostra inequivocabilmente che erano state del tutto eliminate le pareti di calcarenite divisorie tra la pasticceria “le delizie”, il negozio “Sport Pesca Mare” e lo “Speran bar”.
    Quanto riportato rivestirebbe carattere di assoluta novità (se non addirittura di vera e propria sorpresa) nell’ambito del presente processo e, in particolar modo, con riguardo agli addebiti mossi nei confronti dei ricorrenti.
    A parte la evidente contraddizione per cui la prova della eliminazione delle pareti divisorie (cioè laterali) tra i vari locali deriverebbe dai segni dei martelli pneumatici sulla parete di fondo, non comprendendosi in che modo possa desumersi la presunta eliminazione di una parete dalla natura dei lavori effettuati su tutt’altra parete ancora presente; ciò che tuttavia costituirebbe novità assoluta nel panorama delle accuse per le quali, diversamente dalla originaria contestazione, viene affermata la penale responsabilità penale, risiederebbe per il difensore ricorrente nel fatto che a B.M., F.M.R. e R.A. giammai è stato contestato di avere effettuato lavori sulle pareti laterali della grotta, né essi mai hanno avuto possibilità di difendersi rispetto a tale sconosciuto addebito.
    La Corte di Appello, poi, prenderebbe le mosse dall’elenco dei lavori indicati nella DIA presentata da F.M.R. il 22.12.2008 (laddove figura la “realizzazione di nuovo rivestimento murario di supporto da realizzarsi con fette di gas-beton dello spessore di cm 5 previa piombatura delle pareti rocciose e processo deumidificante con malta premiscelata”) per affermare che la piombatura effettuata sulla parete di fondo del locale non sarebbe avvenuta “in accrescimento, bensì livellando detta parete a partire dal basso e incidendo in modo via via più intenso verso l’alto, eliminando un consistente supporto del banco calcarenitico”.
    Tuttavia, secondo la tesi proposta in ricorso, sarebbe del tutto evidente che la sentenza non tiene minimamente conto di quanto affermato sul punto dai Consulenti tecnici del Pubblico Ministero (il riferimento è a pagg. 18-22 della sentenza di primo grado) nonché dal Consulente tecnico della difesa (pagg. 7-9 Relazione di consulenza Ing. S., nonché pagg. 7 e 8 dei motivi di appello).
    La prova della effettuazione dei lavori di piombatura della parete di fondo discenderebbe, invero, unicamente da una testimonianza, riportata in un “memo” all’interno della consulenza del Pubblico Ministero, secondo cui “i lavori erano relativi alla parete di fondo che, a causa della convessità verso l’interno, presentava un rivestimento in blocchi di tufo di spessore variabile da circa 30 cm al piede fino ad annullarsi in testa. Tale rivestimento è stato eliminato e la parete calcarenitica è stata messa a piombo eliminando, quindi, uno spessore variabile da circa 30 cm in sommità fino ad annullarsi al piede”.
    Innanzitutto, però, secondo il ricorrente, da questa testimonianza si ottiene la riprova (ancora una volta e diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata) che i lavori non hanno interessato le pareti rocciose laterali e che la asserita eliminazione delle pareti di calcarenite divisorie tra la pasticceria e gli altri locali confinanti è da ricondurre evidentemente a mani diverse da quelle degli imputati, e comunque ad epoca precedente rispetto a quella in cui la F.M.R. è divenuta affittuaria dell’immobile adibito a pasticceria.
    La relazione del CT della difesa, Ing. S., ha invece chiarito -secondo la tesi proposta in ricorso- che le lavorazioni eseguite sul muro frontale all’ingresso erano consistite nella rimozione del rivestimento di materiale tufaceo poco coerente e di spessore variabile “degradante da 0 all’altezza di metri 2-2,20 mentre, per la restante altezza, era stato soltanto rimosso l’intonaco, senza scasso della parete rocciosa” (pag. 8 relazione C.T. Ing. S.). Dunque, il rivestimento di materiale tufaceo, rimosso nel corso dei lavori eseguiti all’interno della pasticceria, non raggiungeva le volte della grotta ma si fermava all’incirca ad un metro dal controsoffitto, sicché non esercitava alcuna azione di sostegno del masso roccioso, non essendo posto a contrasto con la volta medesima.
    L’impugnata decisione avrebbe completamente trascurato tale decisiva osservazione, che esclude in maniera perentoria che i lavori possano avere interessato il banco di calcarenite.
    Non solo. Viene ricordato che il consulente della difesa Ing. S. (e la difesa nei motivi di appello) avevano escluso che i lavori potessero avere interessato la parete di fondo del locale, mediante una sua riduzione, e ciò perché, qualora la parete fosse stata effettivamente scavata, le fotografie allegate alla consulenza del Pubblico Ministero avrebbero evidenziato uno spazio tra il filo del cemento del massetto che rappresenta il limite della pavimentazione esistente e la parete stessa. La mancanza di questo spazio non potrebbe allora che portare a concludere che non solo la parete non è stata scavata ma che i segni riscontrati su di essa sono derivanti unicamente dalla rimozione del rivestimento composto da elementi di tufo. Tanto ciò è vero, viene fatto notare, che, sempre dalle fotografie puntualmente indicate dall’Ing. S. (pag. 8 e 9 Relazione C.T.), nella parte superiore della parete rocciosa di fondo non si nota alcun segno perché il rivestimento, poi rimosso, si fermava ad un livello inferiore.
    Su tale ultimo aspetto il ricorrente osserva che la Corte di Appello ritiene “del tutto inconferente l’argomento speso dal consulente di parte” e ciò sulla scorta della considerazione, francamente incomprensibile, secondo cui “la parete in questione è stata messa a piombo rettificandola per uno spessore crescente, dal basso verso l’altro, da 0 a 30 cm: è evidente che tale operazione non può avere modificato la originaria distanza tra il massetto del pavimento e la base del profilo verticale della roccia”. Ma tale spiegazione -ci si duole- sarebbe manifestamente illogica, contraddittoria e non proverebbe affatto la circostanza che la parete rocciosa sia stata scavata, ma anzi la smentisce. Ed infatti, se è vero che le tracce degli strumenti di scavo sarebbero, a detta dei giudici del merito, “chiaramente visibili” ciò significherebbe che la parete, anche nella sua parte più bassa, deve essere stata scavata. Ma ciò, tuttavia, avrebbe inesorabilmente determinato quello spazio (tra il massetto in cemento della pavimentazione e l’attacco della parete) di cui il CT della difesa Ing. S. ha invece evidenziato l’assenza.
    Se ne dedurrebbe allora, a rigor di logica, che quei segni (di leggera incisione) non possono essere altro che la risultanza dei meri lavori di rimozione del rivestimento preesistente.
    Infine, con riferimento ai lavori effettuati nella nicchia posta sul muro frontale all’ingresso (il cui allargamento abusivo costituirebbe l’unico addebito espressamente contestato agli imputati), secondo il ricorrente è stata operata in sentenza una totale confusione a proposito dei rilievi mossi sul punto dalla difesa nei propri motivi di impugnazione. Ciò in quanto, a pagina 28 del provvedimento impugnato, è dato leggere che “gli appellanti sostengono sia stato dalla medesima (nicchia) rimosso del materiale tufaceo (rivestimento in blocchi di tufo distante dal fondo con conseguente approfondimento dello spazio) di spessore al piede di circa 2025 cm e degradante fino a zero all’altezza di metri 2-2,20, che tuttavia non raggiungeva le volte della grotta e tuttavia, che i lavori in questione fossero volti quantomeno all’allargamento di detta nicchia emerge con evidenza dalle immagini (pag. 220 della perizia) nelle quali figura una profonda fessurazione che trae origine proprio da uno degli spigoli superiori della nicchia n. 3, probabile punto dell’innesco del crollo”.
    Orbene, per il difensore ricorrente sarebbe sufficiente rileggere l’atto di appello proposto nell’interesse di B.M., F.M.R. e R.A. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce per rendersi immediatamente conto che le affermazioni sopra riportate non riguardavano affatto i lavori eseguiti a carico della nicchia, bensì proprio quelli eseguiti sulla parete posta di fronte all’ingresso della pasticceria, di cui si è parlato in precedenza e che erano consistiti nella rimozione del rivestimento del materiale tufaceo preesistente, fino ad una altezza di metri 2,20, senza scasso della parete rocciosa.
    Piuttosto, per ciò che riguarda la nicchia, nei motivi di appello (pag. 9) il difensore ricorrente ricorda che era stato posto l’accento su una testimonianza, annotata nella relazione dei consulenti tecnici del Pubblico Ministero, secondo cui “con riferimento all’allargamento della nicchia sul fondo del locale il testimone ha affermato che è stato semplicemente rimosso il rivestimento in blocchi di tufo che però in questo caso era sensibilmente staccato dal banco calcarenitico (probabilmente secondo il testimone per proteggere 11 locale dalle note infiltrazioni di acque nere) per cui a rimozione effettuata la nicchia è risultata più grande di quanto previsto”.
    Di fatto, dunque, la sentenza della Corte di Appello ometterebbe compieta- mente di rispondere alle osservazioni difensive, ulteriormente corroborate dalla circostanza, evidenziata dal CT della difesa Ing. S. e pure riportata nei motivi, secondo cui nella ridetta nicchia era collocata una vetrina frigorifera delle dimensioni di circa 60-70 cm per 60 cm, cioè esattamente le stesse dimensioni riscontrabili dall’esame delle foto scattate nel corso dell’accertamento tecnico irripetibile.
    b. Nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 co i lett. e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 43 cod. pen.,, con riferimento alla prevedibilità dell’evento “ricavabile, dalla effettiva valutabilità alla stregua di fatto notorio delle criticità strutturali da cui era interessato il banco di calcarenite”.
    Ci si duole che la sentenza impugnata, così come quella di primo grado, sposi acriticamente l’ipotesi accusatoria nella parte in cui agli imputati viene contestato di avere omesso di effettuare preventive valutazioni delle condizioni di equilibrio precario dell’intero banco di calcarenite “notoriamente” interessato da numerosi e gravi aspetti critici e strutturali, sapendo o dovendo sapere, tra le altre cose, delle caratteristiche strutturali originarie scadenti degli edifici e della totale mancanza di robustezza; della conformazione in un’unica unità strutturale dell’intero isolato; della lunga storia di progressivi aumenti di carichi in conseguenza della realizzazione di superfetazioni, soppalchi, sopraelevazioni, nonché di tutto quanto è dato leggere dettagliatamente nel capo di imputazione.
    Il ricorrente ricorda la consolidata giurisprudenza in tema di fatto notorio onde evidenziarne, a suo avviso, l’assoluta inconferenza nel caso di specie, desumibile dalla circostanza che sono state indispensabili analisi tecniche ed approfondite verifiche, controlli, e l’utilizzo di costosissime apparecchiature per individuare le “criticità” che interessavano non il banco di calcarenite, ma l’intero complesso edilizio costituito da edificazioni scoordinate e da superfetazioni spesso invisibili.
    Ci si duole che la sentenza impugnata abbia acriticamente recepito le conclusioni della sentenza di primo grado che riprendevano, a loro volta, pedissequamente gli elaborati dei consulenti tecnici del Pubblico Ministero con le loro contraddittorie e contrastanti conclusioni, laddove da un lato affermano che l’evento si è “manifestato con una dinamica rapida nel tempo e con segni premonitori che sono divenuti evidenti solo poco prima del collasso” e dall’altro sottolineano ripetutamente la notorietà della situazione del banco di calcarenite.
    Delle due l’una, ad avviso del ricorrente: o si è trattato di un evento improvviso o era più che prevedibile, perché notorio.
    In considerazione di tali osservazioni nelle sentenze di merito non sarebbe stata fornita alcune argomentazione sulle ragioni per quali i prevenuti avrebbero conosciuto o dovuto conoscere le assente criticità del banco di calcarenite, le condizioni scadenti degli edifici e la totale mancanza di robustezza.
    Sul punto la motivazione sarebbe sostanzialmente mancante, atteso che i giudici del gravame del merito si riportano espressamente “a quanto già sul punto più sopra-considerato”, in tal modo costringendo il lettore a ricercare in precedenti passaggi della motivazione (peraltro nemmeno indicati) quelli che dovrebbero fungere da risposta alle doglianze difensive.
    In ogni caso, ritenere che le criticità strutturali che interessavano il banco di calcarenite sul quale poggiava il complesso edilizio oggetto del crollo dovessero essere valutate dagli imputati “alla stregua di fatto notorio” sarebbe per il ricorrente affermazione inammissibile. Ancor più ove si consideri che a pag. 10 della sentenza si aggiunge che sarebbe stato sufficiente applicare “il senso comune alla minima condizione dei luoghi certamente posseduta dagli imputati in ragione del rapporto sussistente con gli stessi” per giungere alla conclusione che “opere di aggressione più o meno intense del banco roccioso sarebbero state sicuramente destinate ad incidere in modo rilevante sun’equilibrio statico del complesso”.
    Ebbene, a fronte di una situazione pregressa (rispetto al crollo) di totale ‘oscurità’, nel corso della quale giammai si erano manifestati quei “gravi aspetti critici strutturali” ovvero segnali di allarme che potessero far ritenere la esistenza di una condizione di (addirittura) vistosa pericolosità del banco di calcarenite, ritenere che gli imputati non potevano non conoscere, finanche con certezza, le ritenute criticità strutturali equivarrebbe -secondo la tesi proposta in ricorso- a esporre una evidente congettura.
    Peraltro, si sottolinea che non potevano certamente essere i modesti lavori (comunque non strutturali) indicati nella DIA presentata da F.M.R. a far insorgere in capo ai ricorrenti il solo sospetto che lo svolgimento degli stessi avrebbe potuto incidere sulla portanza complessiva dell’intero organismo edilizio.
    Ciò in quanto si trattava di opere assai più modeste rispetto, invece, all’allargamento di una intera parete operato sul fondo del locale “Pesca Sport Mare” e, addirittura, alla demolizione di una muratura portante principale del locale “Speran bar”, con sostituzione della stessa con trave in cemento armato.
    Senza contare che la sentenza impugnata tacerebbe del tutto in relazione all’affidamento legittimamente riposto da parte degli odierni ricorrenti nella Am-ministrazione Comunale, la quale, per mezzo dell’Ufficio Tecnico preposto, sarebbe dovuto essere l’unico ‘soggetto’ in condizioni di conoscere con certezza tutte le attività realizzate in quell’epoca: e tuttavia, nessun rilievo e nessuna obiezione il Comune ha mai sollevato, né ha mai ingiunto a chicchessia di provvedere a correggere le anomalie eventualmente esistenti.
    Ad avviso del ricorrente non può trascurarsi di considerare, poi, la circostanza (richiamata a pag. 57 della sentenza di primo grado) che copia della DIA presentata da F.M.R. all’Ufficio Tecnico del Comune di Castro il 24.12.2008, fu inoltrata, unitamente alla relazione tecnica illustrativa a firma del geom. R.A., alla AUSL LE/2, area sud Maglie – Servizio igiene e sanità pubblica, per l’ottenimento del relativo parere, che fu poi rilasciato, favorevole, in data 23.1.2009 senza alcuna richiesta al privato di integrazione della documentazione e senza alcun ordine di astenersi dall’effettuare l’intervento programmato.
    In un quadro di tal fatta, allora, non si comprenderebbe – e la sentenza non lo spiegherebbe- quali “valutazioni approfondite” avrebbero dovuto effettuare gli imputati e, in particolare, quali ulteriori accortezze avrebbero dovuto usare i coniugi B.M.-F.M.R. che hanno sempre e soltanto svolto l’attività di pasticceri, non avendo alcuna minima cognizione tecnica in ordine alle modalità con cui sarebbero stati effettuati i lavori indicati nella DIA, per la progettazione e realizzazione dei quali si erano opportunamente affidati a professionisti esperti, i quali ultimi avevano ottenuto l’assenso dalla Amministrazione Comunale e dagli altri Enti preposti.
    c. Nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 co. 1 lett. e) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 40 e 41 co. 2 cod. pen., con riferimento alla ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra la condotta posta in essere dagli imputati e l’evento, nonché alla esclusione della incidenza di fattori causali differenti da quelli indicati..
    La sentenza della Corte di Appello -si lamenta- ometterebbe totalmente di rispondere alle censure difensive, sviluppate nello specifico alle pagg. 14 e 15 dei motivi di appello proposti avverso la sentenza del tribunale ed afferenti alla mancanza di rapporto di causalità tra i lavori in corso nella pasticceria e il crollo.
    Invero, i giudici del gravame sono dell’avviso che in ordine a tali censure “valgono le considerazioni generali sul punto già in precedenza svolte” (pag. 29 sent.):
    tuttavia, a ben rileggere i passaggi che la impugnata sentenza avrebbe dedicato, in altre pagine della motivazione, alla incidenza sun’evento-crollo di fattori causali completamente differenti da quelli contestati agli imputati, non si rinverrebbe alcuna considerazione che possa assurgere al grado di risposta alle censure difensive esposte nell’interesse degli odierni ricorrenti.
    In particolare, il difensore ricorrente evidenzia che, nei motivi di appello, era stato evidenziato che i modesti lavori che si stavano svolgendo all’Interno dei locali della pasticceria non avrebbero eziologicamente concorso in alcun modo al verificarsi dell’evento. Piuttosto, preso atto che gli stessi consulenti tecnici del Pubblico Ministero avevano affermato che la sopravvivenza del complesso immobiliare “era ormai affidata solo al persistere di precarie e non controllabili condizioni favorevoli”, assoluto rilievo si sarebbe dovuto, invece, riconoscere agli effetti derivanti dagli eventi di pioggia immediatamente antecedenti al crollo, ricavati dall’analisi dei dati pluviometrici che avevano evidenziato la oggettiva eccezionalità delle precipitazioni atmosferiche nelle settimane precedenti il 31 gennaio 2009.
    Nella Relazione di consulenza tecnica redatta nell’interesse dell’Amministrazione Comunale di Castro dai Prof. C. e Ch. sarebbe chiaramente indicato (pag. 14, già richiamata nei motivi di appello) che l’incidenza degli eccezionali fenomeni atmosferici avrebbe dovuto essere oggetto di necessari approfondimenti che sarebbero dovuti scaturire “più circostanziatamente a livello di indagini successive”, tuttavia mai svolte né dai predetti consulenti tecnici del Comune di Castro, né soprattutto da quelli del Pubblico Ministero.
    Alla luce di quanto precede, a parte la totale mancanza di motivazione da parte della sentenza impugnata, rimarrebbe del tutto indimostrato che i lavori (non strutturali) in corso di esecuzione nei locali della pasticceria al momento del crollo possano essere stati causa dello stesso, non potendosi al contrario escludere che le copiose precisazioni atmosferiche si siano infiltrate nel sottosuolo e nelle fessurazioni già esistenti nel banco calcarenitico, contribuendo in maniera assolutamente determinante a provocarne il crollo.
    d. Nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 co. 1 lett. e) cod. proc. pen., in relazione alla affermazione della responsabilità penale di B.M..
    La Corte di Appello -lamenta ancora il difensore ricorrente- si astiene del tutto dal chiarire in quale misura e a quale titolo B.M. debba essere ritenuto responsabile del reato contestatogli, pur non avendo ricoperto in tale vicenda alcun ruolo formale, diversamente dalla moglie F.M.R., che quantomeno è risultata essere affittuaria dell’immobile nonché titolare dell’esercizio commerciale Bar pasticceria “Le delizie” e committente dei lavori, e diversamente da R.A.
    Angelo, che era il tecnico progettista e direttori dei lavori in corso di esecuzione all’interno del locale.
    Appare francamente illogico -secondo la tesi sostenuta in ricorso- che il B.M. sia stato condannato semplicemente sulla scorta della circostanza che, come recita il capo di imputazione, “di fatto operava in vece” della moglie F.M.R., quando poi nella sentenza impugnata non si rinviene un solo rigo in cui venga chiarita la posizione concretamente rivestita dall’uomo nella presente vicenda processuale.
    Ed invero, se il dibattimento (e lo stesso capo di imputazione) hanno accertato che la formale intestataria del contratto di affitto del locale era F.M.R., che a nome della stessa era intestato l’esercizio commerciale “Le delizie” e che, sempre in tale qualità, è stata la donna a presentare la DIA in data 24.12.2008 presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Castro; e se, ancora, il processo ha chiarito che tali lavori erano stati regolarmente commissionati al geometra R.A., il quale ha assunto altresì la carica di direttore degli stessi; se e vero dunque tutto ciò, non si comprenderebbe affatto a che titolo il B.M. sia stato dapprima annoverato nell’elenco degli imputati e poi addirittura condannato in una vicenda in cui non ricopriva alcun ruolo formale.
    La mera qualifica di “gestore di fatto” della pasticceria non autorizzerebbe in alcun modo un’affermazione di responsabilità penale nei confronti di chi non è stato mai provato abbia svolto un qualche ruolo attivo e concreto, né che avesse conoscenza certa degli aspetti critici riscontrati (peraltro solo nel corso delle indagini preliminari e grazie ad una consulenza tecnica complessa e laboriosa) in quell’aggregato edilizio di Castro.
    e. Nullità della sentenza per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606 co. 1 lett b) cod. proc. pen. in relazione all’art. 113 cod. pen. nonché per mancanza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 co. 1 lett. e) e 546 co. 1 lett. e) cod. proc. pen..
    La sentenza impugnata -lamenta ancora il ricorrente- sarebbe incorsa in un macroscopico errore nel recepire in maniera assolutamente acritica ed apodittica il provvedimento del primo giudice, che ha ritenuto di inquadrare la vicenda per cui si procede nella peculiare ipotesi del concorso di persone nel reato ex art. 113 cod. pen..
    Ci si duole, nello specifico, che la Corte territoriale abbia liquidato le doglianze espresse dai prevenuti con l’atto di gravame precisando che “ai fini di cui all’art. 113 cod. pen. è sufficiente la consapevolezza, negli autori dell’illecito, del coinvolgimento di altri soggetti in una data attività (Sez. Fer. n. 41158 del 25/8/2015; Sez 4 n. 43083 del 3/10/2013) senza che sia richiesto alcun accordo o coordinamento tra gli stessi” e che è ‘difficile sostenere che ciascuno degli imputati fosse ignaro che si stessero effettuando e fossero stati effettuati lavori della consistenza e incisività esposte in perizia nei locali commerciali confinanti”.
    Invece, proprio una corretta analisi delle due sentenze citate dai giudici del gravame consentirebbe di escludere che, nel caso di specie, gli imputati possano rispondere ex art. 113 cod. peri, di cooperazione nel delitto colposo.
    Dalla lettura integrale dalla sentenza n. 41153/15, quindi, emergerebbe come per poter parlare di cooperazione colposa non sia sufficiente la consapevolezza, negli autori dell’illecito, del coinvolgimento di altri soggetti in una data attività ma occorra un quid pluris costituito dall’adesione intenzionale dell’agente all’altrui azione negligente, imprudente
    Nel caso in esame il ricorrente ritiene che le iniziative di coloro che hanno eseguito opere edilizie, costruzioni, superfetazioni e sopraelevazioni in maniera non coordinata ed in tempi diversi, potrebbero costituire tutt’al più, cause autonome concorrenti alla produzione del crollo, ma non potrebbero mai essere riportate all’ipotesi della cooperazione colposa.
    f. Nullità della sentenza per mancanza contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 co. 1 lett. e) e 546 co. 1 letta e) cod. proc. pen. Violazione dell’art. 192 cod. proc. pen..
    Per il ricorrente la sentenza impugnata sarebbe anche assolutamente priva di motivazione sulle doglianze espresse nell’atto di gravame in merito all’attendibilità dei testi escussi in relazione ai lavori in corso di esecuzione presso la “Pasticceria Le Delizie” nei giorni antecedenti al crollo.
    La sentenza impugnata si limiterebbe ad evidenziare a pag. 24 che “gli appellanti eccepiscono che le testimonianze acquisite in dibattimento, stando alle quali i lavori presso la pasticceria Le Delizie avrebbero interessato il banco di calcarenite anche mediante l’utilizzo di mezzi meccanici, non sono affidabili perché provenienti da soggetti interessati a una determinata ricostruzione degli accadimenti, in quanto vicine ai titolari dello Speranbar o parti civili costituite in giudizio”.
    La doglianza -si lamenta- non viene analizzata e, perciò, vi sarebbe sul punto una carenza assoluta di motivazione.
    g. Nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 co. 1 lett. e) cod. proc. pen., in relazione alla mancata concessione delle attenuanti generiche.
    Il ricorrente lamenta che, con mera formula di stile e senza minimamente prendere nella dovuta considerazione le osservazioni difensive spese sul punto, i giudici del gravame del merito hanno incomprensibilmente negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche, laddove, invece, la condotta colposa concretamente posta in essere dai ricorrenti appare di scarsissima gravità, sia con riferimento alla entità assai modesta dei lavori in corso di esecuzione nei locali della pasticceria, sia con riferimento alla impossibilità di addebitare (soprattutto ai coniugi B.M.-F.M.R.) l’omessa valutazione delle condizioni generali dell’intero complesso edilizio e, in particolare, del banco calcarenitico sul quale esso sorgeva, sia con riferimento infine al grado della colpa, sensibilmente inferiore rispetto a quello addebitabile ad altri coimputati, resisi protagonisti della esecuzione di lavori (certamente strutturali) che hanno avuto una incidenza maggiore sul determinismo del crollo.
    Tutti i ricorrenti chiedono, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.

Diritto

  1. Talune delle doglianze sopra illustrate appaiono fondate e pertanto, come si specificherà e per i motivi che si andranno ad illustrare in seguito, deve procedersi all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alle posizioni di F.G. e F.L. perché il fatto non costituisce reato. E ad annullarsi la medesima sentenza limitatamente alle posizioni di B.M., R.A., F.M.R. e C.M.A. con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce, cui andrà demandata anche la regolamentazione delle spese tra le parti in questo giudizio di cassazione.
    2. Il processo ha ad oggetto l’individuazione dei responsabili del crollo – veri-ficatosi il 31.1.2009 – di un aggregato edilizio edificato a ridosso e all’interno di un costone roccioso sito nella piazza centrale (Piazza Dante) di una località del Salento denominata Castro Marina.
    Tale complesso si componeva di un livello sul piano stradale costituito da tre locali-grotta (da destra: Sport-Pesca-Mare; Bar Pasticceria “Le delizie”; locale F. “Speranbar”) ricavati nella roccia ed altri in muratura appartenenti ad un edificio a due piani in stile denominato “Palazzina ex Sansò” (di cui uno, di proprietà di A.S., unificato a quello di proprietà F. a costituire lo Speranbar, gestito dalla stessa A.S., conduttrice della metà dell’immobile di proprietà F.). Oltre a questo primo livello, vi erano, più sopra, altri edifici realizzati in diverse epoche su terrazzamenti del banco calcarenitico, creando così un caratteristico aggregato fatto di abitazioni affastellate su pochi metri quadri disponibili.
    Per la Corte di Appello di Lecce (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata), condivisibilmente, “la storia del crollo è (…) la storia della progressiva eliminazione dei possibili itinerari dei carichi per mano dell’uomo (..) e dal passaggio graduale da una condizione originaria di sovrabbondante equilibrio statico ( … ) ad una situazione critica, in cui la probabilità del collasso del masso roccioso nella vita dell’opera era di gran lunga superiore a quella idonea a garantire livelli di sicurezza compatibili con la pubblica incolumità”.
    Fuori discussione, ad avviso del Collegio, è che il crollo che ebbe a realizzarsi presenta tutti i caratteri perché possano ipotizzarsi a carico di chi se ne dimostri responsabile gli aspetti del crollo colposo, riconducibile al reato di cui agli artt. 424 e 449 del codice penale.
    Va richiamata, in proposito, la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale per configurare il delitto di crollo colposo è necessario che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante (ex plurimis, vedasi questa Sez. 4, Sentenza n. 18432 del 1/04/2014, dep. il 2015, Papiani ed altri, Rv. 263886).
    Ai fini dell’integrazione del reato di cui agli art. 434 e 449 del codice penela, per crollo di costruzione, totale o parziale, deve intendersi la caduta violenta ed improvvisa della stessa accompagnata dal pericolo della produzione di un danno notevole alle persone, senza che sia necessaria la disintegrazione delle strutture essenziali dell’edificio (così Sez. 4, n. 2390 del 13/11/2011 dep. il 2012 in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in presenza del distacco completo, su una linea lunga circa 150 metri, del rivestimento di mattoni che rivestiva la parete esterna di un edificio scolastico).
    Nel delineare la differenza rispetto all’ipotesi contravvenzionale di cui all’art. 676 del codice penale questa Corte di legittimità ha precisato che nel delitto di crollo colposo si richiede che il crollo assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante; invece, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici non è necessaria una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone (così la sopra citata Sez. 4, n. 18432 del 1/4/2014 in cui la Corte ha qualificato l’originaria imputazione di cui agli artt. 434 e 449 cod. pen., riferita ad un caso in cui si era verificato, durante lavori di straordinaria manutenzione, il crollo del solaio, senza interessamento delle strutture portanti e senza danni alle persone, nella contravvenzione di cui all’art. 676, co. 2, cod. pen). Era stato anche precisato, in una precedente pronuncia, che il concreto pericolo per la pubblica incolumità deve essere valutato ex ante (Sez. 1, n. 47475 del 29/10/2003, Bottoli ed altri, Rv. 226459).
    In particolare, quanto ai tecnici, si è affermato, di recente, che in tema di crollo colposo di costruzioni conseguente ad evento sismico è configurabile la responsabilità a titolo di cooperazione colposa del direttore dei lavori e del direttore tecnico di cantiere i quali, durante i lavori di ampliamento della sede di una facoltà universitaria, abbiano omesso di verificare (il primo) la conformità agli elaborati
    progettuali e (il secondo) la F.M.R. esecuzione del progetto e la conformità alle condizioni contrattuali dell’impiego dei materiali previsti, qualora tali condotte siano state una concausa del crollo, unitamente all’evento sismico (così Sez. 4, n. 2378 del 8/7/2016 dep. il 2017, Benedetto ed altro, Rv. 268874 che, in applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la condotta degli imputati per non aver controllato, nelle rispettive qualità, l’effettiva realizzazione degli elementi di rinforzo ed irrigidimento previsti dal progetto per consolidare la struttura, in quanto tali accorgimenti avrebbero impedito o almeno in parte evitato il crollo, non potendo altresì considerarsi la scossa sismica – verificatasi in zona notoriamente soggetta a tale rischio – una causa sopravvenuta idonea da sola a determinare l’evento).
    Nel caso in esame, il giudice di merito ha evidenziato come dall’istruttoria era emerso che il crollo aveva interessato un’area ampia, in pieno centro cittadino, e che il crollo non ha avuto esiti letali solo per la circostanza che è avvenuto di sabato pomeriggio. E perche, come ricorda la sentenza di primo grado a pag. 10 attraverso la testimonianza di V. E., R.F. e C.M.A. si accorsero per tempo di quanto stava per accadere e invitarono i presenti nel bar a scappare.
    Pur in assenza di danni alle persone, tuttavia, le dimensioni del crollo, la loro diffusione in zone di transito di persone, con valutazione ex ante, hanno messo in pericolo la pubblica incolumità.
    Pertanto, tenuto anche conto che ai fini dell’integrazione del reato de quo, per crollo di costruzione, totale o parziale, deve intendersi la caduta violenta ed improvvisa della stessa accompagnata dal pericolo della produzione di un danno notevole alle persone, senza che sia necessaria la disintegrazione delle strutture essenziali dell’edificio (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 2390 del 13/12/2011, dep. il 2012, Nonni ed altro, Rv. 251749, in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato in presenza del distacco completo, su una linea lunga circa 150 metri, del rivestimento di mattoni che rivestiva la parete esterna di un edificio scolastico), ne consegue che con motivazione immune da censure il giudice di merito ha riconosciuto nel fatto la tipicità del delitto colposo di cui al combinato disposto degli artt. 434 e 449 cod. pen.
    3. Non sono fondate le doglianze in punto di inosservanza o inesatta applicazione dell’art, 521 cod. proc. pen. con cui si assume che gli imputati (ed in particolare i ricorrenti F.G. e F.L.) sarebbero stati condannati in secondo grado per un fatto diverso da quello contestato nel capo d’imputazione e anche da quello considerato nella sentenza di primo grado. In particolare, si assume che solo in secondo grado avrebbe fatto la sua comparsa, tra gli addebiti, la rimozione del residuo sperone calcarenitico.
    Del residuo di roccia e della contraddittorietà della motivazione circa la sua presenza si dirà di qui a poco.
    Tuttavia, l’avere i giudici del gravame del merito effettivamente spostato la propria attenzione, nell’ambito degli stessi lavori edilizi del 1996, sun’aspetto della rimozione di tale residuo roccioso piuttosto che sull’indebolimento della struttura a seguito della rimozione della parete divisoria e della sua sostituzione con una porta ed una trave, oltre che su un profilo di colpa generica in luogo di quello specifico su cui si era maggiormente soffermato il giudice di primo grado, appare ad avviso del Collegio legittimo.
    Ciò perché, come più volte precisato da questa Corte di legittimità, nei proce-dimenti per reati colposi, quando nel capo d’imputazione siano stati contestati elementi generici e specifici di colpa, la sostituzione o l’aggiunta di un profilo di colpa, sia pure specifico, rispetto ai profili originariamente contestati non vale a realizzare una diversità o mutazione del fatto, con sostanziale ampliamento o modifica della contestazione. Difatti, il riferimento alla colpa generica evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell’Imputato globalmente considerata in riferimento all’evento verificatosi, sicché questi è posto in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione di tale evento, di cui è chiamato a rispondere (così Sez. 4, Ord. n. 38818 del 4/5/2005, De Bona, Rv. 232427, in cui l’affermazione é stata resa nell’ambito di un procedimento penale per il reato di omicidio colposo in cui si era addebitato al proprietario dell’immobile, in relazione al decesso dell’inquilino conseguente ad esalazioni di monossido di carbonio provenienti dallo scaldabagno, di non avere adeguato l’impianto alla normativa di sicurezza, mentre era stato condannato per avere dato l’immobile in locazione senza prima avere verificato la funzionalità dell’impianto a gas; conf. Sez. 4, n. 2393 del 17/11/2005 dep. il 2006, Tucci ed altro, Rv. 232973 in relazione ad una fattispecie in tema di infortuni sul lavoro in cui la Corte ha escluso la dedotta violazione di legge nell’ipotesi di condanna per mancato rispetto di norme cautelari, laddove la contestazione riguardava plurimi profili di negligenza e di colpa; Sez. 4, n. 31968 del 19/5/2009, Raso, Rv. 245313 in cui la Corte ha escluso la dedotta violazione di legge nell’ipotesi di condanna del medico per le lesioni colpose gravissime cagionate, in esito ad un parto, ad un neonato, anche per la violazione del dovere di informare la partoriente in ordine alle possibili complicanze per un parto per via vaginale per le dimensioni del nascituro, laddove la contestazione riguardava altri profili di colpa).
    In tema di reati colposi, in altri termini, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, n. 51516 del 21/6/2013, Miniscalco ed altro, Rv. 257902 relativamente ad un caso in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori; Sez. 4, n. 35943del 7/3/2014, Denaro ed altro, Rv. 260161 in un caso in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori).
    4. Il tema centrale che percorre il presente processo, tuttavia, attiene all’ascrivibilità soggettiva del reato di crollo colposo di cui all’imputazione.
    I giudici del merito danno conto di come al venir giù dell’aggregato edilizio si sia pervenuti con il concorso, nell’arco di alcuni decenni, dell’azione scellerata dell’uomo.
    Così, nel corso degli anni, su quel banco roccioso, come si evidenzia dalla copiosa documentazione fotografica in atti, sono stati di volta in volta, costruiti immobili abusivi. E poi, nel tempo, i titolari delle attività commerciali ospitate all’interno di quelle che erano le originarie grotte non hanno resistito alla tentazione di guadagnare spazi utilizzabili in danno del banco calcarenitico.
    E’ fuori discussione -secondo le motivazioni prive di aporie logiche dei giudici del merito sul punto- che ciascuno abbia fatto la sua parte nell’indebolire la tenuta complessiva del costone di roccia poi crollato nel gennaio 2009.
    Desta invero perplessità che il processo non coinvolga chi ha edificato su quel costone e abbia visto uscire indenne da responsabilità penale chi aveva il compito di vigilare sulla portata complessiva di quelli che sono stati, come si dirà di qui a poco e come si è ampiamente ricordato in premessa, dei lavori autorizzati o assentiti.
    Compito di questa Corte di legittimità, tuttavia, è e deve essere limitato alla valutazione della tenuta motivazionale, in ragione delle censure sopra illustrate, delle pronunciate condanne degli odierni ricorrenti,
    Non colgono nel segno -va qui detto- le censure dei ricorrenti, sopra illustrate, che attengono alle valutazioni tecniche fatte proprie dai giudici di merito, che danno ampiamente conto di avere vagliate tutti i contributi scientifici portati nel processo.
    Siamo di fronte, va peraltro ricordato, ad una doppia conforme affermazione di responsabilità, che impone di leggere le due pronunce come un tutt’uno. E la disamina, soprattutto da parte del giudice di primo grado, delle cause che hanno portato al crollo appare priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto.
    Va ricordato, in proposito, che costituisce ius receptum di questa Corte il principio che, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudicante ha la possibilità di scegliere fra varie tesi, prospettate da differenti periti, di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purché dia conto con motivazione accurata ed approfondita -com’è avvenuto nel caso che ci occupa- delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicché, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poiché si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di Cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sez. 4, n. 5691 del 02/02/2016, Tettamanti, Rv. 265981; conf. Sez. 4, n. 34747del 17/5/2012, Rv. 253512; Sez. 4, n. 45126 del 6/11/2008, Rv. 241907; Sez. 4, n. 7591 del 20/5/1989, Rv.181382).
    La sentenza -va anche questo subito detto, dovendosi ritenere infondate le doglianze sul punto – opera un buon governo, in termini di nesso di causalità, della più recente giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che ha affermato che Nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (così questa Sez. 4, n. 28571 del 01/06/2016, De Angelis, Rv. 266945 in un caso in cui questa Corte di legittimità ha escluso il nesso causale tra la condotta omissiva addebitata all’ingegnere progettista e direttore dei lavori di realizzazione di un nuovo tetto di un fabbricato – individuata nella mancata effettuazione di una preliminare valutazione delle condizioni statiche dell’edificio, sia nello stato di fatto che in quello post-intervento – e la morte e le lesioni occorse agli abitanti del palazzo, interamente collassato in occasione del terremoto, non avendo il giudice di merito chiarito le ragioni in base alle quali ritenere che, informata sullo stato di fragilità del fabbricato e sulla sua scarsa capacità di resistenza alle azioni sismiche, l’assemblea condominiale avrebbe sicuramente deliberato l’ef-fettuazione di non meglio precisati interventi di consolidamento strutturale dell’intero edificio, ovvero che, in mancanza di tale delibera, i singoli condomini avrebbero certamente abbandonato per mesi l’edificio, allertati dalle prime scosse sismiche).
    E’ stato anche di recente precisato che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sun’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, n. 26491 del 11/5/2016, Ceglie, Rv. 267734 ove, in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione che aveva affermato la sussistenza del nesso causale tra la condotta omissiva dell’anestesista, consistita nel mancato monitoraggio dei tracciati ECG della paziente nel corso di un intervento chirurgico e nel non tempestivo rilevamento delle complicanze cardiache insorte per asistolia, ed i gravi danni cerebrali procurati alla stessa in conseguenza del ritardo con cui era stato eseguito il massaggio cardiaco).
    Nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sun’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, n. 33749del 4/5/2017, Ghelfi, Rv. 271052, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto logicamente fallace, perché espressione di un ragionamento “circolatorio”, la ricostruzione del nesso causale tra la condotta del datore di lavoro, consistita nell’omessa manutenzione di una macchina stampatrice, e le lesioni gravi da schiacciamento della mano occorse al lavoratore intento alla manutenzione determinate dal mancato azionamento del microinterruttore di blocco della rotazione del rullo portaclichè, per effetto della rottura della linguetta metallica di attivazione, non avendo il giudice di merito chiarito le ragioni di tale rottura, la tipologia degli interventi di manutenzione omessi e se la loro esecuzione sarebbe stata in grado di evitare il malfunzionamento del dispositivo di sicurezza).
    5. Prima di passare all’esame delle singole posizioni, vanno anche fatte ulteriori premesse.
    Il presente processi vede imputati soggetti cui si rimproverano lavori compiuti nel 1996 (F.G. e F.L., rispettivamente proprietario e direttore dei lavori dello Speranbar), nel 2008-2009 (F.M.R., B.M. e R.A., rispettivamente gestori e direttore dei lavori al Bar Pasticceria Le delizie) e nel 2009 (C.M.A., conduttore dell’immobile e titolare dell’esercizio Sport Pesca Mare).
    Ebbene, ritiene il Collegio che, in via astratta, la distanza temporale della condotta colposa che si ritiene sinergica rispetto al crollo non impedisce di riconoscere la responsabilità penale del soggetto che l’abbia posta in essere.
    Ciò, in quanto, condivisibilmente, sin dai tempi più risalenti, questa Corte di legittimità ha ritenuto che nel reato di crollo colposo di costruzioni, così come in quello, eventualmente conseguente, di omicidio colposo, vanno tenuti nettamente distinti il momento nel quale fu posta in essere la condotta dell’imputato e quello degli eventi che si ritengono causati da quella condotta, dato che condotta ed evento, pur essendo gli elementi costitutivi di un unico fatto rilevante, possono essere tra loro temporalmente assai distanti (così, condivisibilmente, Sez. 5, n. 998 del 31/3/1992, Quaglino, Rv. 190422 in una fattispecie relativa ad eventi – deflagrazione di una miscela aria-gas metano a seguito della quale era crollato un fabbricato cagionando la morte di un abitante – verificatisi nel 1986, in cui la Corte ha ritenuto legittimo che la condotta causativa di tali eventi penalmente rilevanti potesse esser ricercata con riferimento ad eventuali deficienze nella costruzione dell’impianto del gas sotto la casa della vittima avvenuta tra il 1970 e il 1972).
    Tuttavia, come si dirà in seguito, più sono temporalmente distanti i fatti e maggiore sarà la difficoltà per individuare il nesso di causalità tra la condotta colposa posta in essere e l’evento, e conseguentemente l’onere motivazionale per il giudice, laddove nel frattempo si siano sedimentati in loco ulteriori interventi colposi. E soprattutto diventerà non facile ritenere, sotto un profilo soggettivo, la sussistenza della cooperazione colposa.
    Sotto questi aspetti, come si dirà, la motivazione della sentenza impugnata, laddove non dice e laddove si contraddice, merita in parte le censure che le sono state rivolte.
    Va da subito ricordato che la cooperazione nel delitto colposo si distingue dal concorso di cause colpose indipendenti per la necessaria reciproca consapevolezza dei cooperanti della convergenza dei rispettivi contributi all’incedere di una comune procedura in corso, senza che, peraltro, sia necessaria la consapevolezza del carattere colposo dell’altrui condotta in tutti quei casi in cui il coinvolgimento integrato di più soggetti sia imposto dalla legge ovvero da esigenze organizzative connesse alla gestione del rischio o, quantomeno, sia contingenza oggettivamente definita della quale gli stessi soggetti risultino pienamente consapevoli (così questa Sez. 4, n. 49735 del 13/11/2014, Jimenez Vellejro, Rv. 261183 fattispecie in cui è stata ritenuta responsabile di omicidio colposo a titolo di cooperazione la madre della vittima, la quale era salita a bordo dell’autovettura guidata dal coniuge, che versava in evidente stato di ebbrezza alcolica, senza preoccuparsi di collocare nel seggiolino di sicurezza il figlio, che rimaneva ucciso nell’incidente stradale causato dalla condotta di guida del padre).
    Per aversi cooperazione nel delitto colposo, in altri termini, non è necessaria la consapevolezza della natura colposa dell’altrui condotta, né la conoscenza dell’identità delle persone che cooperano, essendo sufficiente la coscienza dell’altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza, da parte dell’agente, del fatto che altri soggetti – in virtù di un obbligo di legge, di esigenze organizzative correlate alla gestione del rischio, o anche solo in virtù di una contingenza oggettiva e pienamente condivisa – sono investiti di una determinata attività, con una conseguente interazione rilevante anche sul piano cautelare, nel senso che ciascuno è tenuto a rapportare prudentemente la propria condotta a quella degli altri soggetti coinvolti (Sez. 4, Sentenza n. 15324 del 4/2/2016, San- sonetti, Rv. 266665 in una fattispecie relativa ad omicidio colposo conseguente allo scontro frontale tra due autovetture, causato dall’invasione dell’opposta corsia da parte di una di esse, il cui conducente era impegnato in una serie di sorpassi reciproci ed altre manovre gravemente imprudenti con altra vettura che procedeva nella sua stessa direzione. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità, a titolo di cooperazione colposa, anche del conducente di tale ulteriore veicolo, che con la propria condotta aveva consapevolmente indotto e stimolato quella del soggetto direttamente coinvolto nel sinistro).
    6. Le suvvista premesse di ordine generale in punto di diritto consentono, a questo punto, di passare alla disamina delle singole posizioni processuali.
    Si partirà, anche in ordine cronologico, dalla ipotizzata responsabilità a carico di F.G. e F.L. in relazione ai lavori effettuati nel 1996 presso lo Speranbar.
    Come ricordano le sentenze di merito, dapprima con comunicazione di inizio lavori del 20/1/1996 e poi, a seguito della nota del Sindaco del Comune di Castro, con apposita istanza di autorizzazione per ristrutturazione interna, A.S. (che, come ricordato in precedenza, era la proprietaria di uno dei due locali di cui constava lo Speranbar, l’affittuaria dell’altro di proprietà F. e la titolare dello Speranbar) e F.G. (proprietario di uno dei due locali di cui constava lo Speranbar, cioè di quello nella grotta calcarenitica) presentavano domanda di esecuzione di lavori presso lo Speranbar, allegando la documentazione tecnica a firma del progettista e direttore dei lavori Arch. F.L..
    In merito a tale istanza, l’Ufficio tecnico del Comune di Castro inoltrava una richiesta di integrazione documentale, richiedendo la presentazione di una perizia giurata a firma di un tecnico abilitato, sulla tenuta statica dell’intero immobile cui i locali fanno parte, perizia a firma dell’originario coimputato Ing. G.L. (deceduto nelle more del processo), che veniva presentata e valutata dai tecnici comunali idonea è adeguata a soddisfare la richiesta di un surplus conoscitivo e di indagine.
    Pertanto, in data 20/3/1996, con il verbale n. 4/7, la Commissione Edilizia comunale, esaminata tutta la documentazione presentata, esprimeva parere fa-vorevole in ordine al richiesto intervento. E con provvedimento del 22/3/1996 il Sindaco dell’epoca, “vista l’istanza presentata in data 27/1/1996 prot. 434 (..) visto il parere favorevole espresso dalla C. E. C. nella seduta del 20/3/1996; vista la perizia giurata certificante ‘idoneità statica dell’intero immobile’ cui le anzidette particelle fanno parte, a firma del ring. G.L.; visti gli allegati elaborati tecnici debitamente firmati dall’Arch. F.L.; visto il locale R.E.C.”, autorizzava l’esecuzione dell’intervento richiesto.
    Con provvedimento del 5.4.1996, poi, l’Ufficio tecnico comunale rilasciava il certificato di agibilità, dopo aver accertato che i lavori erano stati eseguiti in conformità al progetto approvato ed alle prescrizioni imposte.
    Già il richiamo a tale iter amministrativo – e, soprattutto, l’avere ottemperato alla richiesta comunale di rivolgersi ad un ingegnere per una perizia sulla staticità dell’immobile- rende difficilmente ipotizzabile, almeno sotto il profilo psicologico, una responsabilità di F.G., proprietario delle “mura” dello Speranbar, che peraltro non esercitava egli stesso l’attività commerciale in loco.
    In realtà, la sentenza impugnata non è immune, quanto a vizi motivazionali, anche in relazione alla portata oggettiva dell’addebito mosso in relazione ai lavori del 1996.
    E’ vero che l’iniziale contestazione, ad opera del pubblico ministero, prevedeva la sola colpa consistita, per imprudenza, negligenza ed imperizia, nell’avere richiesto e realizzato un portale in calcestruzzo armato sostitutivo di una parete muraria, mentre la condanna oggetto di gravame si fonderebbe sulla diversa circostanza rappresentata dall’essere stato autorizzato all’esecuzione dei lavori presentando documentazione grafica attestante uno stato dei luoghi diverso da quello verosimilmente esistente (e cioè senza indicare la presenza di un residuo sperone calcarenitico dietro la originaria parete in muratura – pag. 22 sentenza impugnata).
    In altri termini, è vero che l’imputazione e la sentenza di primo grado focaliz-zavano la loro attenzione sull’avvenuta unificazione dei due locali di cui constava all’atto del crollo lo Speranbar e con la sostituzione della parete divisoria con una porta ed una trave in cemento armato, mentre quella di secondo grado -legittimamente per quanto si è detto in precedenza- ha spostato la sua attenzione sun’eliminazione di un ultimo sperone roccioso che sarebbe stato presente al di sotto della parete rimossa.
    Ciò ha consentito ai giudici del gravame del merito di poter dire che i due F., in concorso, hanno presentato una documentazione non F.M.R. dello stato dei luoghi, inducendo in errore i tecnici comunali. E proprio sulla base di tale assunto è stato ritenuto che fosse esente da responsabilità penale il coimputato S.F.A., a capo dell’Ufficio Tecnico del Comune di Castro.
    Hanno ragione, tuttavia, i ricorrenti, laddove lamentano che la sentenza im-pugnata non chiarisca come da affermazioni dalle affermazioni di verosimiglianza, mutuate dai consulenti tecnici del PM (cfr. pag. 11 del provvedimento impugnato ove si legge “del tutto verosimilmente nel 1996 fu demolito il banco roccioso” e pag. 21 ove si legge della “…verosimile rimozione, nel corso dei lavori del 1996, insieme alla parete divisoria tra i due locali Speran Bar, di un residuo sperone roccioso ancora ivi presente, e della conseguente sostanziale difformità rispetto alla situazione esistente delle planimetrie presentate al Comune di Castro da tecnico e committente dei lavori per ottenere il titolo autorizzativo”) si passi nei giudici alla certezza che tale residuo roccioso ci fosse e fosse stato rimosso (cfr. pag. 14 della sentenza impugnata ove si legge “…si consideri, in ogni caso, come sia nella descrizione dei lavori indicata nell’istanza di autorizzazione del 1996 che nelle planimetrie alla medesima allegate (p. 235 e ss. perizia) non è stata riportata la presenza (ritenuta sussistente, per come più sopra argomentato) del residuo sperone calcarenitico eliminato insieme alla muratura a sacco con l’inserimento del portale: la qual cosa esclude, evidentemente, che possa ravvisarsi una condizione di incolpevole affidamento in capo all’imputato”. E che su tale verosimiglianza divenuta non si sa come certezza, si fondi, di fatto, la ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico in capo ai ricorrenti F. (vedasi pag. 21 della sentenza impugnata ove si legge che “…tale circostanza escluda la possibilità da parte degli appellanti di rivendicare, anche sul piano dell’elemento soggettivo del reato contestato, una conformità tra quanto realizzato e quanto autorizzato dalla pubblica amministrazione.).
    La Corte di appello di Lecce, in altri termini, ha individuato il profilo di colpa a carico dei ricorrenti F. nell’avere presentato “documentazione grafica attestante uno stato dei luoghi diverso da quello verosimilmente esistente (e cioè senza indicare la presenza di un residuo sperone calcarenitico dietro la originaria parete in muratura – v. pag. 22 sentenza impugnata). Ma, al di là che la sentenza dia conto o meno, come lamentano i ricorrenti delle risultanze delle prove dichiarative dei testimoni oculari, che negano di aver mai operato sulla roccia calcarenitica (così le dichiarazioni rese all’udienza del 7.10.2013 da C.A., operaio impiegato nei lavori del 1996 di demolizione del muro preesistente e sostituzione dello stesso e di F.B., dipendente dello Speranbar non vi è una motivazione che possa far dire accertata la circostanza relativa alla supposta demolizione dello spuntone roccioso, non bastando, evidentemente, la verosimiglianza che ciò sia avvenuto per fondare una responsabilità penale.
    Né può soccorrere sul punto la sentenza di primo grado, laddove, come si è detto in premessa il ricorrente riporta il passaggio motivazionale della sentenza di primo grado che collega la responsabilità penale del ricorrente alla sola demolizione della parete e alla sostituzione con il portale in cemento armato, del tutto omettendo qualsivoglia riferimento alla circostanza in parola, invece contestata dal giudice dell’appello.
    Peraltro, a voler dare acclarata la presenza di tale sperone roccioso sotto il muro rimosso, occorre provare che di tale esistenza fossero a conoscenza i due imputati F., e soprattutto il proprietario G.. Nemmeno si dice, nella sentenza impugnata, dove sia rimasta provata la falsa rappresentazione documentale che sarebbe stata operata da F.L., con la consapevolezza di ciò anche da parte di F.G..
    7. Tali vizi motivazionali, se fossero stati gli unici, avrebbero dovuto imporre l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in relazione anche a F.G. e F.L..
    Ritiene, invece, il Collegio che per tali due imputati la sentenza impugnata vada annullata senza rinvio per difetto di prova dell’elemento psicologico e, pertanto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.
    Per entrambi, infatti, vale la considerazione che, alla luce dei sopra ricordati principi che governano la cooperazione colposa nel reato, non solo non vi è prova che essi fossero a conoscenza del residuo sperone di roccia rimosso durante i lavori del 1996 (quand’anche, come detto, se ne accertasse l’esistenza), ma, soprattutto, che potessero certamente essere a conoscenza, o prevedere, nel momento in cui sono andati a compiere dei lavori debitamente autorizzati e previa perizia statica affidata ad un ingegnere, la sedimentazione di interventi successivi dell’uomo che, nei tredici anni a venire, avrebbero dato il colpo di grazia alla staticità del costone.
    Nel momento in cui vi è un altro tecnico che certifica la compatibilità statica degli interventi edilizi che sono stati progettati diventa davvero improbo affermare la consapevolezza del progettista F.L. che sta andando ad arrecare un danno alla staticità complessiva del sito che, unito a ciò che accadrà negli anni a venire, porterà al crollo del 2009.
    Emerge palmare la fragilità della motivazione che si legge a pag. 10 della sentenza impugnata circa la sussistenza, in capo agli imputati, dell’elemento psi-cologico del reato loro contestato. Per i giudici del gravame del merito è bene puntualizzare che la formulazione di un giudizio di rimproverabilità per le condotte dagli stessi poste in essere si muove sul piano della colpa generica e si esprime nella positiva affermazione della prevedibilità e prevenibilità dell’evento realizzatosi in ragione: della consapevolezza da parte di chi ha agito che gli esercizi interessati dai lavori erano ospitati in grotte scavate in un unico banco di roccia; dell’evidenza, percepibile applicando il senso comune alla minima cognizione dei luoghi certamente posseduta dagli imputati in ragione del rapporto sussistente con gli stessi, che opere di aggressione più o meno intensa del banco roccioso, quelle di approfondimento cosi come quelle di erosione delle pareti divisorie, sarebbero state sicuramente destinate ad incidere in modo rilevante sun’equilibrio statico del complesso, aumentando il rischio di cedimenti (si consideri, in tale direzione, il vano scrupolo – correttamente evidenziato da chi ha redatto la perizia e ripreso in motivazione dal giudice di prime cure – nel realizzare con materiali di buona qualità le opere in cemento armato con cui erano state nel corso del tempo parzialmente sostituite le pareti di roccia). In altre parole, non si ritiene credibile che gli imputati non avessero cognizione delle peculiarità del luogo in cui operavano, né della ben maggiore prudenza che avrebbe richiesto agire su un complesso roccioso così vistosamente rimaneggiato nelle sue caratteristiche statiche essenziali ed evidentemente gravato da edifici affastellati su più livelli, la cui precarietà era resa palese – particolarmente a chi quei luoghi frequentava quotidianamente da anni – dalla presenza di catene e dai non pochi interventi di verifica statica effettuati da tecnici del Comune. Molto prima della questione relativa alla puntuale codificazione sul piano tecnico del concetto di unità strutturale, rileva, infatti, la circostanza evidente, perché emergente in fatto e propria alla più elementare e comune esperienza, che l’ulteriore scarificazione delle fondamenta portanti di un siffatto complesso avrebbe comportato un pregiudizio certo sul piano statico e altissimi rischi di crollo”.
    Il richiamo al senso comune, con tutta evidenza, appare poco per fondare la responsabilità penale in punto di elemento soggettivo, tema su cui si tornerà anche per gli altri imputati.
    8. Ma se per F.L. non si riesce ad andare oltre ogni ragionevole dubbio circa la sussistenza dell’elemento soggettivo, per F.G. c’è invero la certezza dell’insussistenza dello stesso.
    Non si riesce davvero a comprendere -una volta che nessuna delle sentenza di merito riesce a dare argomentata certezza di un suo comportamento fraudolente- cosa si debba richiedere di più ad un committente di lavori edilizi presso l’immobile di sua proprietà, peraltro locato a terzi, che si affidi per la progettazione per e per la direzione dei lavori ad un tecnico abilitato. E che ottemperi alla richiesta di integrazione documentale richiestagli dall’ente pubblico affidando una perizia statica ad un ingegnere e ricevendo, pertanto, le autorizzazioni richieste.
    Ritiene il Collegio che anche in relazione ad un reato come quello che ci occupa vada confermato e ribadito, mutatis mutandis, il condivisibile indirizzo. più recentemente affermato di questa Corte di legittimità in materia di responsabilità colposa a seguito di incidenti sul lavoro, secondo cui il committente di lavori dati in appalto (impresa appaltante rispetto all’appaltatore, o appaltatore rispetto ai subappaltatori) debba adeguare la sua condotta a fondamentali regole di diligenza e prudenza nello scegliere il soggetto al quale affidare l’incarico, accertandosi che tale soggetto sia non soltanto munito dei titoli di idoneità prescritti dalla legge, ma anche della capacità tecnica e professionale, proporzionata al tipo astratto di attività commissionata ed alle concrete modalità di espletamento della stessa; ed ha l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dell’impresa e dei lavoratori autonomi prescelti in relazione anche alla pericolosità dei lavori affidati (cfr. ex multis Sez. 3, n. 35185 del 26/4/2016, Marangio, Rv. 267744 in un caso relativo alla morte di un lavoratore edile precipitato al suolo dall’alto della copertura di un fabbricato, nella quale è stata ritenuta la responsabilità per il reato di omicidio colposo dei committenti, che, pur in presenza di una situazione oggettivamente pericolosa, si erano rivolti ad un artigiano, ben sapendo che questi non era dotato di una struttura organizzativa di impresa, che gli consentisse di lavorare in sicurezza).
    Tuttavia questa Corte di legittimità, riaffermato che in tema di infortuni sul lavoro, il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente, ha anche precisato che dal committente non può tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori, occorrendo verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità, da parte del committente, di situazioni di pericolo (cfr. Sez. 4, n. 27296 del 2/12/2016 dep. il 2017, Vettor, Rv. 270100 in una fattispecie in tema di appalto di lavori di pulizia all’intemo dell’azienda, in cui la Corte ha annullato la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità del committente in relazione al reato di lesioni colpose, per aver dato incarico ad un lavoratore di pulire il piazzale della ditta usando soda caustica, senza assicurarsi che il datore di lavoro appaltatore avesse spiegato al dipendente la necessità di cambiare gli indumenti contaminati dalla predetta sostanza pericolosa; conf. Sez. 4, n. 44131 del 15/7/2015, Heqimi ed altri, Rv. 264974-75).
    Trasposti questi principi in un ambito quale quello che ci occupa appare evidente che, una volta affidatosi ad un architetto e ad un ingegnere, che hanno curato il primo la progettazione e la direzione dei lavori e il secondo la redazione di una perizia statica, e non essendo emersa prova che lo stesso si sia mai ingerito in qualsiasi scelta tecnica in ordine ai lavori a compiersi, pare evidente che a F.G. non possa essere mosso alcun rimprovero, neanche a titolo colposo.
    Come affermato da questa Corte in ambito antinfortunistico rimane anche fermo il principio che al committente non possano ascriversi colpe in relazione a scelte tecniche demandate a soggetti qualificati che richiedono una specifica competenza nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine (così la condivisibile Sez. 3, n. 12228 del 25/2/2015, Cicuto, Rv. 262757 che, in applicazione del principio, ha escluso che potesse andare esente da responsabilità il committente che aveva omesso di attivarsi per prevenire il rischio, non specifico, di caduta dall’alto di un operaio operante su un lucernaio).
    9. Si è detto fin qui che la motivazione della sentenza impugnata non offre certezze su diversi aspetti dei lavori del 1996, passando a quelli in tempi più recenti, si legge a pag. 8 della sentenza impugnata: “(ci si limita, sul punto, a richiamare il seguente passo di sintesi della relazione di perizia: [ … ] Se, dunque, si deve ritenere estremamente probabile, alla luce di tutte le indagini svolte, che nel locali Sport Pesca Mare e Pasticceria fossero in corso lavori demolitivi a danno del banco portante di calcarenite (sul fondo dei locali e sulle pareti divisorie), e che pertanto a tali interventi si deve attribuire la responsabilità dell’estremo ‘colpo’ inferto alla sicurezza strutturale del complesso edilizio…”.
    Siamo di fronte ad un altro passaggio in cui il giudizio in relazione alla sussistenza di quelli che sono i lavori su cui si fonda l’affermazione di penale responsabilità degli imputati passa attraverso una valutazione di “estrema probabilità” che gli stessi siano stati realizzati.
    Passando, perciò, ad analizzare le posizioni soggettive di F.M.R., B.M. e R.A., rispettivamente i primi due, moglie e marito, affittuari dei Bar Pasticceria Le Delizie, ed il terzo tecnico e progettista dei lavori presso tale esercizio commerciale effettuati nel 2008-2009, ritiene il Collegio che pure sussista il deficit e la contraddittorietà motivazionale denunciata, ma che lo stesso possa essere colmato dal giudice del rinvio.
    Ciò soprattutto sotto due profili.
    Il primo è quello della natura dei lavori in atto.
    La sentenza impugnata pare desumere che fossero in atti lavori di piombatura della parete rocciosa attraverso una scarnificazione della stessa, desumendo ciò da due elementi: 1. il rinvenimento di martelletti elettrici; 2. il rinvenimento di materiali di risulta compatibili.
    La sentenza impugnata, tuttavia, non risponde ai rilievi difensivi sulla certezza che quei materiali attenessero proprio ai lavori effettuati al Bar Pasticceria Le Delizie. E nemmeno al rilievo se le piastrelle, i tubi e quant’altro, fossero compatibili con i lavori ipotizzati in imputazione. Inoltre, la sentenza impugnata non si sofferma ed anzi cade in contraddizione su quelli che vengono indicati a pag. 23 come martelletti elettrici e a pag. 27 come martelli pneumatici (che è cosa diversa) e circa la loro idoneità a scarnificare la roccia.
    Soprattutto, però, la motivazione della sentenza impugnata -e tali considerazioni valgono sia per gli imputati F.M.R., B.M. e R.A. che per C.M., la cui posizione soggettiva verrà analizzata di qui a poco) appare carente e contraddittoria sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato, di cui si è già ampiamente detto in precedenza in punto di diritto.
    Si legge a proposito di tali imputati a pag. 28 della sentenza impugnata: “Quanto alle censure mosse dagli appellanti in relazione all’effettiva valutabili alla stregua di fatto notorio delle criticità strutturali da cui era interessato il banco di calcarenite su cui poggiava il complesso edilizio della piazzetta di Castro, ci si riporta a quanto già sul punto più sopra considerato, puntualizzando ulteriormente che, palesemente ridotti o eliminati, nel corso dell’ultimo trentennio, supporti fondamentali del banco (fra gli altri, le pareti divisorie in roccia fra le tre cavità, sostituite da manufatti oltremodo sottili, dalla valenza statica meramente figurativa), la consapevolezza che il volume della grotta non avrebbe potuto essere approfondito all’infinito e che, anzi, nelle condizioni date, non avrebbe dovuto essere più in alcun modo modificato,, non richiedeva alcuna specialistica conoscenza, ma soltanto l’uso dei senso comune e l’esercizio della prudenza di non sfidare la sorte. Per il medesimo motivo, evidentemente non basta invocare a discolpa degli imputati la modesta portata delle opere eseguite o l’affidamento ingenerato dall’autorizzazione della pubblica amministrazione (ove mai i lavori effettuati fossero stati conformi a quelli dichiarati)”.
    La sentenza impugnata, in questo come in altri punti, fa un largo suo di espressioni generiche come quella che lo stato di criticità dell’aggregato edilizio poi crollato non poteva non essere conosciuto da chi frequentava quei luoghi. Oppure richiama il “senso comune” o utilizza impropriamente la locuzione di “fatto notorio”.
    Le massime di esperienza e i fatti notori – va ricordato- sono generalizzazioni empiriche indipendenti dal caso concreto, fondate, con procedimento induttivo, sull’esperienza comune, conformemente ad orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione, in quanto non si risolvono in semplici illazioni o in criteri meramente intuitivi o addirittura contrastanti con conoscenze o parametri riconosciuti e non controversi (così Sez. 2, n. 51818 del 6/12/2013, Brunetti, Rv. 258117; conf. Sez. 6, n. 1775 del 9/10/2012 dep. il 2013, Ruoppolo, Rv. 254196).
    I ricorrenti ricordano tale consolidata giurisprudenza in tema di fatto notorio e ne evidenziano, fondatamente, l’assoluta inconferenza nel caso di specie, desumibile dalla circostanza che sono state indispensabili analisi tecniche ed approfondite verifiche, controlli, e l’utilizzo di costosissime apparecchiature per individuare le “criticità” che interessavano non il banco di calcarenite, ma l’intero complesso edilizio costituito da edificazioni scoordinate e da superfetazioni spesso invisibili.
    Agli imputati viene contestato di avere omesso di effettuare preventive valu-tazioni delle condizioni di equilibrio precario dell’intero banco di calcarenite “notoriamente” interessato da numerosi e gravi aspetti critici e strutturali, sapendo o dovendo sapere, tra le altre cose, delle caratteristiche strutturali originarie scadenti degli edifici e della totale mancanza di robustezza; della conformazione in un’unica unità strutturale dell’intero isolato; della lunga storia di progressivi aumenti di carichi in conseguenza della realizzazione di superfetazioni, soppalchi, sopraelevazioni, nonché di tutto quanto è dato leggere dettagliatamente nel capo di imputazione.
    Ebbene, non può sfuggire come si palesi in evidente contraddizione l’affermata conosciuta criticità della statica di quel costone, da parte anche di imputati non particolarmente scolarizzati, con la necessità che gli inquirenti prima ed i giudici poi abbiano dovuto fare ricorso a complesse consulenze per venire a capo delle cause del crollo, con tesi peraltro neanche convergenti tra loro.
    Peraltro, le sentenze poco dicono, su quali potessero essere i segnali di allarme che avessero interessato la zona.
    Peraltro, si fa rilevare efficacemente che la sentenza impugnata recepisce le conclusioni della sentenza di primo grado che riprendevano, a loro volta, gli elaborati dei consulenti tecnici dei Pubblico Ministero con le loro contraddittorie e contrastanti conclusioni, laddove da un lato affermano che l’evento si è “manifestato con una dinamica rapida nel tempo e con segni premonitori che sono divenuti evidenti solo poco prima del collasso” e dall’altro sottolineano ripetutamente la notorietà della situazione del banco di calcarenite. Ma, effettivamente, delle due l’una, o si è trattato di un evento improvviso o era più che prevedibile, perché notorio.
    Nelle sentenze di merito non sarebbe stata fornita alcune argomentazione – e su tale questione dovrà tornare il giudice del rinvio- sulle ragioni per quali i prevenuti avrebbero conosciuto o dovuto conoscere le assente criticità del banco di calcarenite, le condizioni scadenti degli edifici e la totale mancanza di robustezza.
    In ogni caso, ritenere che le criticità strutturali che interessavano il banco di calcarenite sul quale poggiava il complesso edilizio oggetto del crollo dovessero essere valutate dagli imputati “alla stregua di fatto notorio” è inammissibile. Così come lo è l’affermazione, ricordata, di pag. 10 della sentenza ove si legge che sarebbe stato sufficiente applicare “il senso comune alla minima condizione dei luoghi certamente posseduta dagli imputati in ragione del rapporto sussistente con gli stessi” per giungere alla conclusione che “opere di aggressione più o meno intense del banco roccioso sarebbero state sicuramente destinate ad incidere in modo rilevante sull’equilibrio statico del complesso”.
    Fondato, in tal senso, pare il rilievo difensivo che, a fronte di una situazione pregressa (rispetto al crollo) di totale oscurità, nel corso della quale giammai si erano manifestati quei “gravi aspetti critici strutturali” ovvero segnali di allarme che potessero far ritenere la esistenza di una condizione di (addirittura) vistosa pericolosità del banco di calcarenite, ritenere che gli imputati non potevano non conoscere, finanche con certezza, le ritenute criticità strutturali equivarrebbe a esporre una evidente congettura.
    Peraltro, bisognerà valutare, in sede di rinvio, qualora non vi sia la prova che i lavori realizzati siano stati altri rispetto a quelli assentito o autorizzati, quale incidenza abbia potuto avere dal punto di vista psicologico il completamento delle procedure amministrative sottese ai lavori e l’assenza di rilievi o interventi delle pubbliche autorità che, effettivamente, come lamentano i ricorrenti, erano le uniche ad avere poteri di accesso e verifica rispetto agli interventi edilizi dei vicini.
    Un discorso a parte merita la posizione di B.M., per il quale la lettura delle sentenze di merito, tra le righe, disegna una posizione di committente di fatto dei lavori che andava motivata. E così non è stato. I giudici del gravame del merito lo accomunano alquanto apoditticamente alla moglie senza dare conto degli elementi su cui fondano la consapevolezza dello stesso rispetto al reato in contestazione. Eloquente, in tal senso, è quanto si legge a pag. 26 della sentenza impugnata: “Gli appellanti sono committenti (B.M. e F.M.R.)”. Per B.M., formalmente, così non era. E che lo fosse di fatto, in ragione del suo ruolo di cogestore della pasticceria, occorre che sia provato e darne conto in motivazione, non essendo, con tutta evidenza, a ciò sufficiente il suo status di coniuge.
    10. Venendo, in ultimo, ad esaminare la posizione di C.M., conduttore e gestore dell’esercizio commerciale “Sport Pesca Mare”, certamente rilevante è la circostanza, che viene ricordata dai giudici di merito che egli, tra il 15 e il 15 di gennaio 2009, dunque almeno cinque giorni prima della presentazione della D.LA., avesse provveduto in prima persona ad iniziare i lavori, rimuovendo parte del pavimento, scalcinando le mura e la volta – ivi compresa, in difformità da quanto poi dichiarato in D.I.A., parte del banco roccioso della parete di fondo – e incaricando terzi di portare il materiale di risulta in discarica.
    La responsabilità colposa attribuitagli è costituita dall’effettuazione, in epoca prossima al crollo, di lavori demolitivi del banco portante di roccia sul fondo del locale Sport Pesca Mare.
    In particolare, i consulenti tecnici del P.M. hanno ritenuto che il C.M. avesse demolito la parete di roccia – allo scopo di unificare, in una più grande, due nicchie ivi presenti – dalla presenza di una lacuna nella pavimentazione interna del locale, per gli stessi spiegabile solo con la demolizione di una preesistente parete rocciosa contornante le due nicchie.
    Convincono – e quindi in tal senso appaiono infondate le proposte doglianze- le argomentazioni offerte dai giudici del gravame di merito per confutare i rilievi difensivi circa la natura dei lavori effettuati e la loro incidenza nella determinazione del crollo.
    Come ricorda la Corte leccese, risulta infondata la tesi già prospettata in quella sede, secondo cui nel corso dei lavori effettuati poco prima del crollo non era stato eliminato alcun supporto della volta rocciosa, bensì solamente un basamento integrato al banco e posto ai piedi della nicchia nella parete di fondo del locale, oltre a delle tamponature tufacee apposte dopo lo scavo originario.
    Quella tesi, come ricordano i giudici del gravame del merito, si fondava es-senzialmente su tre elementi: 1. la quantità e qualità del materiale di risulta di cui è stato accertato lo smaltimento; 2. il profilo ad arco della parte superiore della nicchia; 3. la presenza di due residui di intonaco sulla parete di fondo della nicchia medesima.
    Ebbene, alle pagg. 30 e ss. del provvedimento impugnato, i giudici salentini confutano una ad una tali punti. Quanto al primo, viene ricordato che dagli accertamenti e dalle conseguenti valutazioni dei periti della Procura (p. 380 e ss. perizia) è emerso che il materiale di risulta proveniente dal cantiere in questione occupava un volume di circa dieci metri cubi, ripartito in sette carichi di automezzo, di cui tre di solo tufo (dunque, circa 4,28 metri cubi) e quattro di tufo e altri materiali inerti (dunque, circa 5,72 metri cubi); in ogni caso, tolta una quota di altri inerti, quasi tutto il materiale portato in discarica era costituito da roccia viva ed era, dunque, assolutamente eccessivo per reputarlo proveniente dalla sola scalcinatura delle pareti e del soffitto del locale.
    I giudici di appello danno atto che, secondo i rilievi effettuati dal consulente di parte appellante, Ing. S., il volume del materiale roccioso asportato dalla nicchia della parete di fondo del locale non avrebbe potuto eccedere i due metri cubi (corrispondente a un gradino dell’altezza di circa 80 cm. da terra e 50 cm. di spessore), considerato il volume del materiale proveniente dai restanti lavori e quello complessivo degli scarti portati in discarica.
    Tuttavia, viene rilevato che, nel computo effettuato, il consulente di parte: 1. ha incluso lo spazio vuoto corrispondente alle due nicchie nella parete di fondo del locale; 2. ha incluso un “rivestimento in muratura tufacea della nicchia”, dello spessore medio di cm. 25, del quale non vi è traccia in atti; 3. ha considerato, ai fini del calcolo del volume della scalcinatura delle pareti, misure decisamente generose, fra l’altro includendo per l’intero anche la parete sulla quale si apriva la porta d’ingresso del locale e considerando uno spessore d’intonaco di ben tre centimetri (difficile sostenere, stando alle immagini disponibili, che tale fosse lo spessore delle uniche residue tracce d’intonaco sulla parete di fondo); 4. ha incluso per l’intero la pavimentazione del locale, benché le immagini in atti (foto 1.1.73-a3)- 11, 12, 13) dimostrino che essa si trova quasi del tutto ancora al suo posto.
    Tanto non consente di considerare i rilievi del consulente di parte, ad avviso dei giudici di merito, idonei a inficiare le valutazione dei periti della Procura.
    Quanto al secondo punto, si legge nella motivazione della sentenza impugnata, priva di aporie logiche, che la forma ad arco del profilo della volta della parete di fondo della grotta non è, di per sé, elemento indicativo del fatto che esso fosse integralmente preesistente ai lavori effettuati dall’imputato, essendo ben possibile che lo stesso sia stato rettificato parzialmente (così da uniformano al profilo tondeggiante della parte superiore delle due nicchie già presenti) o totalmente (ove, come è probabile, la parte superiore delle due predette nicchie non arrivasse al filo della volta).
    Infine i giudici del gravame del merito rilevano, quanto al terzo punto, che, in mancanza di elementi di segno contrario, è ragionevole pensare che le due aree di intonaco residuo sulla parete della grotta attestino anche la posizione e la dimensione approssimativa dei fondo delle nicchie preesistenti. Logica appare in tal senso l’affermazione che non si vede, infatti, per quale motivo, altrimenti, chi ha eseguito i lavori nel locale avrebbe dovuto lasciare solo due macchie d’intonaco e rimuoverne tutto il resto. Né convince, secondo i giudici di appello, la risposta in merito fornita dal consulente di parte, e cioè l’intenzione di “testimoniare la profondità della nicchia esistente” in quanto se davvero l’imputato fosse stato mosso dallo scrupolo di dimostrare con certezza di non aver livellato la parete in questione, avrebbe ragionevolmente documentato lo stato della stessa prima e durante i lavori, non affidato la questione alla testimonianza del tutto ambigua di due semplici saggi d’intonaco.
    Peraltro, viene ricordato in sentenza che la valutazione dei periti della Procura in relazione all’avvenuta modifica dell’ampiezza interna del locale in questione, come anche degli altri, ha come base la ricostruzione storica delle planimetrie acquisite, previa validazione mediante sovrapposizione delle stesse sul rilievo laser-scanner.
    Con tale motivazione il ricorrente non si confronta, finendo con il riproporre in questa sede le medesime argomentazioni già argomentatamente confutate in appello.
    Tuttavia, anche per C.M. la sentenza impugnata nulla dice sulla prova dell’elemento psicologico, soprattutto in relazione all’entità ed al tipo di lavori interni in corso o effettuati negli anni negli altri esercizi commerciali (e se quelli consistiti nell’unificazione dei locali dello Speranbar erano a vista e datati nel tempo, così non può dirsi per quelli in corso presso il Bar Pasticceria Le Delizie).
    Pertanto, anche per C.M. la sentenza impugnata dovrà essere annullata con rinvio dovendo il giudice ad quem rivalutarne la responsabilità in punto di elemento psicologico.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle posizioni di F.G. e F.L. perché il fatto non costituisce reato; annulla la medesima sentenza limitatamente alle posizioni di B.M., R.A., F.M.R. e C.M.A. con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Appello di Lecce cui demanda anche la regolamentazione delle spese tra le parti in questo giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma il 9 gennaio 2018