reati tributari di cui all’art. 10 ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – omesso versamento IVA
reati tributari di cui all’art. 10 ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – omesso versamento IVA
rimarranno sottoposti a vincolo sino alla sentenza definitiva del giudice civile, operando soltanto in tal momento la conversione laddove sia accertato e liquidato il danno. Ed invero, ai sensi del già richiamato art. 320, comma 1, cod. proc. pen., la conversione del sequestro conservativo in pignoramento, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna al risarcimento in favore della parte civile, presuppone che la pronuncia abbia dichiarato l’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, così da costituire titolo esecutivo; di talché, nel caso di condanna generica, detta conversione si verifica solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza del giudice civile, il quale, sulla base della certezza del danno acquisita in sede penale, abbia proceduto alla sua liquidazione. (Sez. 4, n. 9851 del 19/01/2015, Biagini, Rv. 262439).
Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 17060 depositata il 10 gennaio 2019
reati tributari di cui all’art. 10 ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – omesso versamento IVA – confisca per equivalente – competenza per territorio
PRINCIPIU ESPRESSI DALLA SENTENZA DELLA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE:
in tema di reati tributari, la competenza per territorio in relazione al reato di omesso versamento di IVA di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 va individuata nel luogo in cui si verifica l’omissione del versamento del tributo ex art. 8 cod. proc. pen., che coincide con quello ove si trova la sede effettiva dell’azienda, nel senso di centro della attività amministrativa e direttiva dell’impresa, attesa la non applicabilità del criterio di cui all’art. 18, comma secondo, del d.lgs. n. 74 del 2000, riferito ai soli delitti da esso previsti al capo I del titolo II (Sez. 3, n. 27701 del 01/04/2014, Sxxxxx, Rv. 260110; nello stesso senso, con riguardo al reato di cui all’art. 10 bis d.lgs. 74 del 2000, Sez. 3, n. 23784 del 16/12/2016, dep. 2017, Mosetter, Rv. 269983).
In particolare, la citata giurisprudenza merita certamente adesione laddove rileva che, essendo il reato di omesso versamento dell’IVA collocato nel capo secondo del titolo secondo del decreto, non viene in rilievo la speciale regola sulla competenza per territorio stabilita dall’art 18, comma 2, d.lgs. 74 del 2000, giusta la quale, «per i delitti previsti dal capo I del titolo II il reato si considera consumato nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale» e deve invece farsi applicazione della generale previsione, contenuta nel primo comma della disposizione, secondo cui «se la competenza per territorio per i delitti previsti dal presente decreto non può essere determinata a norma dell’art.8 del codice di procedura penale, è competente il giudice del luogo di accertamento del reato». Essendo il delitto previsto dall’art. 10 ter d.lgs. 74 del 2000 un reato omissivo istantaneo, il rinvio al codice di rito contenuto nella richiamata disposizione va necessariamente operato all’art. 8, comma 1, cod. proc. pen., a mente del quale «la competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato» e, trattandosi di condotta omissiva, tale luogo coincide con quello in cui si sarebbe dovuta compiere l’azione doverosa, vale a dire il versamento al Fisco dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale presentata per il precedente anno d’imposta.
Appare allora più corretto – e dev’essere qui ribadito – l’orientamento secondo cui, in tema di delitto di omesso versamento dell’Iva, ai fini della individuazione della competenza per territorio, non può farsi riferimento al criterio del domicilio fiscale del contribuente, ma deve ricercarsi il luogo di consumazione del reato ai sensi dell’art. 8 cod. proc. pen.; ne consegue che, essendo impossibile individuare con certezza il suddetto luogo di consumazione, siccome l’adempimento dell’obbligazione tributaria può essere effettuato anche presso qualsiasi concessionario operante sul territorio nazionale, va applicato il criterio sussidiario del luogo dell’accertamento del reato indicato dall’art. 18, comma primo, d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74, prevalente, per la sua natura speciale, rispetto alle regole generali dettate dall’art. 9 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 44274 del 24/09/2014, Tirabasso, Rv. 260801).
Nella motivazione di detta condivisibile sentenza, che del pari consapevolmente si discosta dal diverso precedente affermato con la decisione Sxxxxx sopra citata, si legge che tale ultima pronuncia «riconosce che “formalmente” il reato di cui all’art. 10 ter non è soggetto alla regola di cui all’art. 18, comma 2, perché inserito nel capo 2″ del titolo 1^, ma ravvisa profili di analogia con i reati di dichiarazione e ritiene di poter applicare lo stesso criterio di collegamento per la determinazione della competenza territoriale in assenza di una puntuale analisi delle fattispecie criminose, che per la verità soltanto all’apparenza sono accomunate nelle caratteristiche fattuali, mentre divergono quanto alla condotta materiale non compiuta, – da un lato la presentazione di una dichiarazione o di una dichiarazione veritiera negli elementi attivi o passivi esposti, dall’altro il versamento all’Erario degli importi dovuti a titolo di imposta sul valore aggiunto» (Sez. 1, n. 44274 del 24/09/2014, Tirabasso). Dovendo farsi applicazione dell’art. 18, comma 1, d.lgs. 74 del 2000, la sentenza prosegue affermando che «va dunque ricercato il luogo di consumazione del reato secondo le indicazioni dettate dall’art. 8 c.p.p. Nel caso specifico l’omissione si è perfezionata alla scadenza del termine prescritto nel luogo ove avrebbe dovuto eseguirsi l’obbligazione tributaria sotto forma di versamento dell’importo spettante all’Erario, che però, secondo la regolamentazione introdotta dal D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3 avrebbe potuto avvenire in via telematica mediante intermediari appositamente incaricati, oppure presso qualsiasi concessionario operante sul territorio nazionale, stante l’avvenuta eliminazione dell’obbligo di effettuare il versamento all’esattoria nella cui circoscrizione il contribuente ha il domicilio fiscale… Tali rilievi impediscono di individuare con certezza il luogo di consumazione del reato, per cui va applicato il criterio sussidiario di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 1, prevalente per la sua natura speciale rispetto alle regole generali dell’art. 9 c.p.p.» (Sez. 1, n. 44274 del 24/09/2014, Tirabasso).
La disciplina fiscale di riferimento al momento della commissione dei fatti, tuttora vigente, è quella di cui all’art. 37, comma 49, dl. 4 luglio 2006, n. 223, conv., con modiff., in l. 4 agosto 2006, n. 248, secondo cui, «a partire dal 1° ottobre 2006, i soggetti titolari di partita IVA sono tenuti ad utilizzare, anche tramite intermediari, modalità di pagamento telematiche delle imposte, dei contributi e dei premi di cui all’articolo 17, comma 2, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e delle entrate spettanti agli enti ed alle casse previdenziali di cui all’articolo 28, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 241 del 1997». Questa disciplina – che ha integrato il disposto contenuto nell’art. 38 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – prevede dunque il pagamento delle imposte unicamente a mezzo del c.d. modello F24 telematico, direttamente dal contribuente, attraverso qualsiasi sportello delle aziende di credito abilitate, oppure, come ricorda la sentenza Tirabasso, attraverso gli intermediari di cui all’art. 3 d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, che, oltre a provvedere all’inoltro delle dichiarazioni, sono altresì autorizzati ad effettuare i versamenti (cfr. art. 2, comma 10-bis, d.l. 30 settembre 2005, n. 203, conv., con modiff., in l 2 dicembre 2005, n. 248)
In particolare, quanto alla confisca per equivalente del profitto del reato all’epoca dei fatti stabilita dall’art. 322 ter cod. pen. in forza dell’art. 1, comma 143, l 24 dicembre 2007, n. 244 – che, diversamente da quanto si opina in ricorso, richiamando la citata disposizione penale sia nel primo, sia nel secondo comma, imponeva la confisca per equivalente del profitto anche anteriormente alle modifiche apportate a detta disposizione dalla l. 190 del 2012 (cfr., di recente, Sez. 6, n. 10598 del 30/01/2018, Cristaudo, Rv. 272720) – basti richiamare il principio secondo cui, il giudice, nel dichiarare la estinzione del reato per intervenuta prescrizione, non può disporre, atteso il suo carattere afflittivo e sanzionatorio, la confisca per equivalente delle cose che ne costituiscono il prezzo o il profitto (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264435). La confisca del profitto per equivalente, dunque, non era nella specie consentita.
Quanto alla confisca dei beni sottoposti a sequestro conservativo – ciò che, a ben vedere, risulta essere stato effettuato nel caso di specie in difetto di diversa argomentazione, senza che possa in questa sede porsi in discussione la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro conservativo, semmai da contestarsi a suo tempo ai sensi dell’art. 318 cod. proc. pen. – reputa il Collegio che si tratti di misura illegittima. Non solo non v’è alcuna norma di legge che imponga – o consenta – la confisca dei beni sottoposti a sequestro conservativo, ma tale conclusione contrasta con la lettera e con la ratio della specifica disciplina.
Ed invero, l’art. 320, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che «il sequestro conservativo si converte in pignoramento quando diventa irrevocabile la sentenza di condanna al pagamento di una pena pecuniaria ovvero quando diventa esecutiva la sentenza che condanna l’imputato e il responsabile civile al risarcimento del danno in favore della parte civile» e in tali casi – aggiunge il capoverso della disposizione – «l’esecuzione forzata sui beni sequestrati ha luogo nelle forme prescritte dal codice di procedura civile». Si comprende, pertanto, come il legislatore – implicitamente, ma chiaramente – escluda che il sequestro conservativo, a differenza di quello preventivo disposto ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., abbia il suo naturale epilogo nella confisca dei beni sottoposti a vincolo, ciò che impedirebbe il soddisfacimento degli interessi a tutela dei quali la cautela reale viene disposta. Il trasferimento dei beni confiscati in favore dello Stato, di fatti, impedirebbe che sugli stessi possano soddisfarsi, ad es., i danneggiati costituiti parte civile, ai quali, ex art. 316, comma 3, cod. proc. pen., il sequestro conservativo giova anche laddove sia stato richiesto dal pubblico ministero.
Nel caso di specie viene proprio in rilievo la situazione da ultimo descritta, poiché lo stesso ricorrente riferisce (p. 8 ricorso) che il sequestro dei beni immobili dell’imputato è stato concesso esclusivamente a garanzia del credito dell’Agenzia delle Entrate in relazione all’ipotesi delittuosa di evasione fiscale per l’anno 2007 imputabile alla N. Sri. La sentenza di primo grado ha disposto la condanna generica dell’imputato in favore dell’Agenzia delle Entrate costituita parte civile e, ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen., il giudice d’appello, nel dichiarare i reati estinti per prescrizione, ha nel resto confermato la sentenza appellata, facendo dunque riferimento anche a tale statuizione, senza che ciò abbia peraltro formato oggetto di specifico motivo di ricorso in questa sede. Le doglianze al proposito proposte dall’imputato, di fatti, si limitano a contestare la legittimità di tale statuizione con riguardo alla dedotta – e già esclusa – nullità della sentenza per incompetenza territoriale, nonché ad un generico riferimento al fatto che, trattandosi di debito tributario della società, l’imputato non sarebbe in proprio obbligato, così trascurando il fatto che Eugenio Lupo è stato condannato al risarcimento del danno derivante dal reato di omesso versamento dell’IVA a lui imputabile non già in forza di una preesistente obbligazione civile fondata sulla disciplina tributaria, ma, ai sensi dell’art. 185, secondo comma, cod. pen., quale autore della condotta illecita delittuosa da cui il danno è derivato.
La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata senza rinvio limitatamente alla disposta confisca – qui da eliminarsi – dei beni in sequestro, i quali, pertanto, rimarranno sottoposti a vincolo sino alla sentenza definitiva del giudice civile, operando soltanto in tal momento la conversione laddove sia accertato e liquidato il danno. Ed invero, ai sensi del già richiamato art. 320, comma 1, cod. proc. pen., la conversione del sequestro conservativo in pignoramento, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna al risarcimento in favore della parte civile, presuppone che la pronuncia abbia dichiarato l’esistenza di un credito certo, liquido ed esigibile, così da costituire titolo esecutivo; di talché, nel caso di condanna generica, detta conversione si verifica solo in seguito al passaggio in giudicato della sentenza del giudice civile, il quale, sulla base della certezza del danno acquisita in sede penale, abbia proceduto alla sua liquidazione. (Sez. 4, n. 9851 del 19/01/2015, Biagini, Rv. 262439).