CAPARRA CONFIRMATORIA RISOLVI BOLOGNA

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CAPARRA CONFIRMATORIA RISOLVI BOLOGNA :CORTE  di CASSAZIONE sentenza n. 11307 depositata il 31 maggio 2016 TRIBUTI – IRPEF – PLUSVALENZE IMMOBILIARI – CONTRATTO PRELIMINARE DI VENDITA – CLAUSOLA PENALE – MANCATO ADEMPIMENTO DELL’ACQUIRENTE – TASSAZIONE – ART. 6, TUIR Svolgimento del processo P.G.P. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi ed illustrato con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Calabria che, rigettandone l’appello, ha confermato la legittimità dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IRFEF per l’anno 2005, relativo all’incameramento della somma di euro 457.158 a titolo di caparra penitenziale, convenuta con il preliminare di compravendita – non seguito dalla stipula del definitivo – sottoscritto con la spa E.I., ed avente ad oggetto terreni agricoli in Crotone al prezzo pattuito di euro 22.857.915. Secondo il giudice d’appello, premesso che la caparra andava inquadrata nella previsione dell’art. 6, comma 2, del tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti”, andava affermata la tassabilità della caparra incamerata, che costituiva il risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del tuir.

RICONOSCIMENTO PATERNiTA’ ATTENZIONE AVVOCATO ESPERTO BOLOGNA OBBLIGHI AVVOCATO ESPERTO Per quanto attiene dunque alla violazione degli obblighi
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L’Agenzia delle entrate si è limitata a depositare atto di costituzione ai fini della partecipazione all’udienza di discussione.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente, denunciando “nullità della sentenza che ha confermato la decisione di primo grado per aver ritenuto legittimo l’accertamento originariamente impugnato, pur in presenza di un difetto di motivazione per intrinseca contraddittorietà”, ravvisa nella sentenza errores in iudicando ed in procedendo dolendosi, segnatamente, della “emessa pronuncia sul motivo di appello con il quale il contribuente lamentava il vizio di una sentenza di primo grado appiattita/fotocopia delle tesi erariali, limitandosi a rilevare che “i giudici di prime cure, condividendo l’operato dell’ufficio impositore, hanno applicato alla fattispecie in esame l’art. 6, comma 2, in correlazione all’art. 67 (redditi diversi), comma 1, lettera a), del dPR 917/1986.

Il motivo è infondato.

Il Collegio anzitutto rileva come secondo l’insegnamento del giudice della nomofilachia, “nel processo civile ed in quello tributario, la sentenza la cui motivazione si limiti a riprodurre il contenuto di un atto di parte (o di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari), senza niente aggiungervi, non è nulla qualora le ragioni della decisione siano, in ogni caso, attribuibili all’organo giudicante e risultino in nodo chiaro, univoco ed esaustivo, atteso che, in base alle disposizioni costituzionali e processuali, tale tecnica di redazione non può ritenersi, di per sé, sintomatica di un difetto di imparzialità del giudice, al quale non è imposta l’originalità né dei contenuti né delle modalità espositive, tanto più che la validità degli atti processuali si pone su un piano diverso rispetto alla valutazione professionale o disciplinare del magistrato” (Cass., sez. un. 16 gennaio 2015, n. 642).

Nella specie, poi, il giudice d’appello – dopo aver rilevato che la Commissione provinciale “condividendo l’operato dell’Ufficio aveva applicato alla fattispecie l’art. 6, comma 2, in correlazione all’art. 67 (redditi diversi), comma 1, lettera a), del d.P.R. 917/1986 – ha sottoposto nelle pagine seguenti (pagg. 4, 5 e 6) ad argomentato esame critico quanto affermato dal giudice di primo grado, pervenendo alla conclusione che “la penale è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell’immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell’art. 67, comma 1, del tuir, ed ha così puntualizzato che “il Collegio condivide quindi le asserzioni dell’ufficio circa la tassabilità della caparra incamerata costituendo la stessa il risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura e in base a quanto sopra considerato avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del tuir”.

E’ perciò assorbito l’esame degli ulteriori profili del complesso motivo con i quali, per un verso, in ragione dell’asserito “appiattimento” della sentenza di primo grado sulle tesi erariali, il contribuente aveva dubitato della legittimità costituzionale del sistema della giustizia tributaria per “mancanza di terzietà e indipendenza degli organi giurisdizionali tributari di merito, derivanti dalla dipendenza economica e funzionale delle segreterie e dei giudici dal MEF”; e, per altro verso, aveva censurato l’esame compiuto dal giudice d’appello per aver ritenuto legittimo “l’accertamento viziato da motivazione intrinsecamente contraddittoria”.

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Con il secondo motivo denuncia, sotto il profilo dell’error in iudicando e dell’ error in procedendo, la nullità della sentenza impugnata per aver ritenuto legittimo l’accertamento che ha assoggettato a tassazione la somma trattenuta dal contribuente, “soggetto privato, non considerandone la natura puramente di pena privata stabilita convenzionalmente a fronte del recesso di parte premissaria acquirente, non rientrando la stessa in alcuna delle categorie reddituali previste dall’art. 6 del d.P.R. n. 917 del 1986, non essendoci quindi alcun reddito da assoggettare a tassazione separata”.

Il motivo è infondato, in quanto non vengono contestate in modo idoneo le ragioni dell’ imponibilità della somma convenuta, e percepita dal contribuente, alla luce della disciplina delle imposte sui redditi, ed a ben vedere non viene individuato l’errore o gli errori di diritto connessi dal giudice d’appello.

La Commissione regionale ha infatti condiviso la ritenuta tassabilità della caparra incassata dal contribuente, per inadempimento della parte promissaria acquirente, in ragione della sua riconosciuta “natura risarcitoria, in applicazione della disciplina tributaria prevista dall’art. 6, comma 2, e 67, comma 1, lettera a), del tuir”.

Ha osservato infatti, che l’inquadramento della clausola penale rientra pienamente nel disposto dell’art. 6, comma 2, del tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti “le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti”, concordando la dottrina nell’ affermare che, in caso di inadempimento dell’obbligazione principale, la rilevanza dell’imposizione diretta della corresponsione della penale ha per base la visione civilistica della fattispecie come essenzialmente risarcitoria.

“In questa prospettiva – prosegue il giudice di merito – in seno all’incremento patrimoniale che si verifica a vantaggio della parte non inadempiente, con l’introito della penale, sono state individuate, ai fini tributari, una componente risarcitoria della perdita subita ed una componente risarcitoria del mancato guadagno; quest’ultima “è assimilata a reddito, e quindi assoggettata ad imposizione diretta, in quanto surrogatoria del mancato reddito a causa dell’inadempimento dell’altro contraente. Per l’individuazione di tali componenti all’interno della prestazione risarcitoria si è fatto ricorso al criterio riferito all’attitudine a produrre reddito della prestazione principale rimasta ineseguita. In caso affermativo, l’introito della penale viene a sua volta considerato reddito per la parte afferente a tale mancato reddito. … Ne consegue che la penale è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell’immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell’art. 67, comma 1, tuir. Il Collegio condivide quindi le asserzioni dell’Ufficio circa la caparra incamerata costituendo la stessa il risarcimento della perdita di proventi che, per loro natura e in base a quanto sopra considerato avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell’art. 67 del tuir”.

Con il terzo motivo il ricorrente si duole dell’omessa pronuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., e dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. e con riguardo all’incidenza sulla tassazione in discorso della rivalutazione del terreno secondo la previsione degli artt. 7 e 5 della legge 28 dicembre 2001, n. 448.

Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

E’ infondato sotto il primo profilo, in quanto il giudice d’appello ha esaminato il rilievo, affermando in proposito che “il principio della tassabilità della caparra effettivamente incamerata dal venditore promissario non può essere eluso a causa e per effetto dell’avvenuta “rivalutazione” dei terreni da parte dei venditori (e conseguente pagamento delle maggiori imposte, asserendo il verificarsi di una doppia imposizione della plusvalenza, in caso di conclusione dell’operazione di trasferimento del bene, non emergendo un collegamento funzionale tra l’invocata disciplina favorevole ai proprietari dei terreni rivalutati e il trattamento fiscale della penale (contrattuale)”; ed è invece inammissibile alla stregua di quanto previsto dal n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., nel testo come sostituito dall’art. 54 del d.l, 22 giugno 2012, come convertito, in quanto il fatto è stato esaminato dal giudice.

Il ricorso deve essere pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese, liquidate in euro 5.000 per compensi di avvocato, oltre alle spese prenotate a debito.

Sussistono ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in euro 5.000 per compensi di avvocato oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a noma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

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Cio’ posto, si rammenta che, in tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, la parte non inadempiente che abbia esercitato il potere di recesso riconosciutole dalla legge e’ legittimata, ai sensi dell’articolo 1385 c.c., comma 2, a ritenere la caparra ricevuta o ad esigere il doppio di quella versata: in tal caso, la caparra confirmatoria assolve la funzione di liquidazione convenzionale e anticipata del danno da inadempimento. Qualora, invece, detta parte abbia preferito, ai sensi del dell’articolo 1385 c.c., comma 3, domandare la risoluzione (o l’esecuzione del contratto), il diritto al risarcimento del danno rimane regolato dalle norme generali, onde il pregiudizio subito dovra’, in tal caso, essere provato nell’an e nel quantum, giacche’ la caparra conserva solo la funzione di garanzia dell’obbligazione risarcitoria (Cass. 22-2-2011 n. 4278; Cass. 23-8-2007 n. 17923). I due rimedi rispettivamente disciplinati dall’articolo 1385 c.c., commi 2 e 3, a favore della parte non inadempiente per il caso di inadempimento della controparte, pertanto, hanno carattere distinto e non cumulabile, fermo restando che, in entrambe le ipotesi, l’inadempimento si identifica con quello che da luogo alla risoluzione, di cui il giudice e’ tenuto comunque a sindacare gravita’ e imputabilita’ (v. Cass. 19-2-1993 n. 2032; Cass. 23-1-1989 n. 398; Cass. 21-8-1985 n. 4451).

Tali principi sono stati di recente ribaditi dalle Sezioni Unite di questa Corte, la quale ha affermato che l’azione di risoluzione e di risarcimento integrale del danno e l’azione di recesso e di ritenzione della caparra si pongono in termini di assoluta incompatibilita’ strutturale e funzionale, venendo la finalita’ di liquidazione anticipata, forfetaria e stragiudiziale, tipica della richiesta di ritenzione della caparra, irrimediabilmente esclusa dalla pretesa giudiziale di un maggior danno da risarcire, conseguibile secondo le normali regole probatorie (v. Cass. Sez. Un. 14-1-2009 n. 553). Nella stessa pronuncia, e’ stato puntualizzato che la domanda di ritenzione della caparra e’ legittimamente proponibile, nell’incipit del processo, a prescindere dal nomen iuris utilizzato dalla parte nell’introdurre l’azione “caducatoria” degli effetti del contratto: se quest’azione dovesse essere definita “di risoluzione contrattuale” in sede di domanda introduttiva, sara’ compito del giudice, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi di interpretazione e qualificazione in iure della domanda stessa, convenirla formalmente in azione di recesso, mentre la domanda di risoluzione proposta in citazione, senza l’ulteriore corredo di qualsivoglia domanda “risarcitoria”, non potra’ essere legittimamente integrata, nell’ulteriore sviluppo del processo, con domande “complementari”, ne’ di risarcimento vero e proprio ne’ di ritenzione della caparra, entrambe inammissibili perche’ nuove (Cass. Sez. Un. 14-1-2009 n. 553). Bologna caparra confirmatoria iva, caparra confirmatoria e penitenziale, caparra confirmatoria acconto, caparra confirmatoria codice civile La finalità della caparra confirmatoria è di incentivo all’adempimento poiché penalizza l’inadempimento: infatti se chi ha dato la caparra è inadempiente, egli rischia di perderla, dato che l’altra parte può recedere dal contratto trattenendo la caparra; mentre se inadempiente è la parte che ha ricevuto la caparra, chi l’ha data può recedere ed esigere il doppio della caparra (art. 1385 comma 2 c.c.). Se invece entrambi adempiono, la caparra viene restituita oppure imputata alla prestazione dovuta (art. 1385 comma 1 c.c.). 

contratto preliminare di compravendita

PRELIMINARE DI VENDITA – RISOLUZIONE PER INADEMPIMENTO DEL VENDITORE

Cassazione, sentenza 29 maggio 2008, n. 14424, sez. II civile

In tema di preliminare di compravendita immobiliare, l’inadempimento del promittente venditore all’obbligo di provvedere alla cancellazione di una ipoteca iscritta sul bene oggetto del contratto, anche agli effetti del regolamento della caparra confirmatoria (articolo 1385 cod. civ.), non viene meno per la sola circostanza del pagamento del debito garantito in quanto il permanere dell’iscrizione ipotecaria determina un intralcio al commercio giuridico del bene non potendo, il promissario acquirente, invocare il pagamento come fatto estintivo della garanzia reale.

Cassazione, sentenza 22 maggio 2008, n. 13225, sez. II civile

In tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, non può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo prevista dall’art. 2932 cod. civ. in assenza della dichiarazione, contenuta nel preliminare, o successivamente prodotta in giudizio, degli estremi della concessione edilizia, trattandosi di un requisito richiesto a pena di nullità dall’art. 17 legge n. 47 del 1985, ora sostituita dall’art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001.
(Nella fattispecie è stata cassata la sentenza del giudice di merito che aveva disposto il trasferimento ex art. 2932 cod. civ. di appartamento con annesso box nonostante la mancanza del certificato di abitabilità, la realizzazione dell’edificio in difformità della concessione edilizia e l’assenza di sanatoria, respinta dalla P.A.).

Cassazione, sentenza 16 aprile 2008, n. 9970, sez. III civile

Non sono soggetti a revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. gli atti compiuti in adempimento di un’obbligazione (cosiddetti atti dovuti) e, quindi, anche i contratti conclusi in esecuzione di un contratto preliminare o di un negozio fiduciario, salvo che sia provato il carattere fraudolento del negozio con cui il debitore abbia assunto l’obbligo poi adempiuto, essendo la stipulazione del negozio definitivo l’esecuzione doverosa di un “pactum de contrahendo” validamente posto in essere (“sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
(Nella specie la S.C., in applicazione del riportato principio, ha confermato la sentenza impugnata di rigetto della domanda ex art. 2901 cod. civ. proposta in relazione ad un contratto di vendita di un immobile stipulato in esecuzione di un precedente contratto preliminare, evidenziando che la verifica della sussistenza dell'”eventus damni” va compiuta con riferimento alla stipulazione definitiva mentre il presupposto soggettivo del “consilium fraudis” va valutato con riferimento al contratto preliminare).

Cassazione, sentenza 16 giugno 2008, n. 16216, sez. II civile

La consegna del certificato di abitabilità dell’immobile oggetto del contratto, ove questo riguardi un appartamento da adibire ad abitazione, pur non costituendo di per sé condizione di validità della compravendita, integra un’obbligazione legalmente incombente sul venditore ai sensi dell’art. 1477, ultimo comma, c.c., attenendo ad un requisito essenziale della cosa venduta, in quanto incidente sulla possibilità di adibire legittimamente la stessa all’uso contrattualmente previsto.
(Nel caso di specie sulla scorta della testimonianza del notaio davanti al quale il promissario acquirente era stato convocato per la stipulazione dell’atto pubblico, a tale stipula non si addivenne, non essendo stato ancora ottenuto dal costruttore il suddetto certificato di abitabilità).

Cassazione, sentenza 9 giugno 2008, n. 15198, sez. II civile

  1. I) L’interpretazione dell’atto negoziale costituisce un accertamento di fatto che, come tale, è demandato in via esclusiva alla competenza del giudice di merito e che appare censurabile nel giudizio di cassazione soltanto sotto il profilo della violazione delle regole ermeneutiche e dell’obbligo di motivazione. La denunzia della violazione delle regole di ermeneutica contrattuale richiede la specifica indicazione dei canoni in concreto inosservati e del modo attraverso cui si è realizzata la violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione esige la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento svolto dal giudice di merito e che, per sottrarsi a censura, quella data dal giudice non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni. Contrapporre a quella fornita dal giudice di merito una diversa ed opposta interpretazione del contratto si risolve in una mera richiesta di nuova interpretazione, vale a dire di un nuovo accertamento di fatto, che non è ammessa dinanzi alla Corte di Cassazione, che è giudice del diritto e non del fatto.

    II) L’interpretazione dei documenti sottoposti alla Corte di merito, volti a dimostrare che il promissario acquirente non intendeva destinare l’immobile ad un’attività commerciale in via esclusiva, che sola avrebbe richiesto il mutamento di destinazione d’uso, deve essere sia rispondente a dati di fatto che giuridicamente corretta. In tal senso deve essere tenuto in considerazione anche il comportamento complessivo delle parti contraenti, anche successivo al contratto, che, ai sensi dell’art. 1362 c.c., integra una canone interpretativo necessario ed indefettibile per determinare la comune intenzione delle parti manifestatasi nel testo contrattuale.

Cassazione, sentenza 5 giugno 2008, n. 14938, sez. II civile

Il promissario acquirente di immobile oggetto di contratto preliminare di compravendita può rinunciare alla condizione sospensiva convenuta nel suo esclusivo interesse e detta rinuncia non deve necessariamente risultare da atto scritto, ma può essere desunta anche da “facta concludentia”.
(Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva implicitamente desunto, dalle conclusioni rassegnate nell’atto di appello dal promissario acquirente di un appezzamento di terreno, la rinuncia della medesima parte ad avvalersi della condizione sospensiva stipulata nel suo esclusivo interesse, avendo questi chiesto il trasferimento dell’immobile indipendentemente dalla verificazione dell’evento dedotto in condizione e cioè dell’acquisto da parte del promissario alienante di una particella di terreno di proprietà di una Comunità Montana al fine di adempiere all’assunto obbligo spostare il percorso di una strada vicinale).

Come precisato dalla Corte di Cassazione sentenza n. 11012 depositata il 8 maggio 2018

FATTO

Con contratto preliminare dell’11 settembre 2008 C.P. prometteva di vendere a D.M.L. un appartamento in (omissis), al prezzo di Euro 115.000,00, prevedendo la stipula del definitivo entro il 31 marzo 2009.

Contestualmente era versata dal promissario acquirente una caparra di Euro 35.000,00.

In seguito però il C. alienava lo stesso immobile promesso in vendita, ai coniugi C.M. e T.A..

Per l’effetto, il D.M. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Larino il promittente venditore ed i successivi acquirenti del bene, chiedendo accertarsi la simulazione del contratto di compravendita, e che fosse quindi disposto il trasferimento in suo favore della proprietà del bene ex art. 2932 c.c..

In subordine chiedeva pronunziarsi la risoluzione del contratto per inadempimento del promittente venditore.

Il Tribunale adito con la sentenza n. 198 dell’8 giugno 2010 rigettava la domanda di simulazione, ma accoglieva la domanda di trasferimento coattivo della proprietà del bene, condannando l’attore al pagamento del residuo prezzo e C.P. al risarcimento dei danni quantificati in Euro 18.150,00, di cui Euro 3.150,00 per rimborso di spese di agenzia ed Euro 15.000,00 quale ristoro per il mancato godimento del bene.

A seguito di appello principale dei convenuti ed appello incidentale dell’attore, la Corte d’Appello di Campobasso con la sentenza n. 156 del 30 giugno 2015, rigettava la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre, atteso che C.M. e T.A. erano proprietari del bene promesso in vendita; per l’effetto condannava il D.M. al rilascio del bene in favore dei proprietari; rigettava la domanda risarcitoria correlata al mancato godimento del bene, ed in parziale accoglimento dell’appello incidentale, dichiarava risolto il preliminare per inadempimento di C.P., che era altresì condannato alla restituzione della somma di Euro 77.850,00 nonché al risarcimento del danno pari ad altri Euro 3.150,00 per spese di agenzia, in aggiunta a quelle già riconosciute in primo grado.

La Corte d’Appello, in primo luogo confermava il rigetto della domanda di simulazione promossa dall’attore (statuizione questa che non è investita dai motivo di ricorso, ed è quindi coperta dal giudicato), e tenuto conto quindi della validità della vendita, riteneva erroneo l’accoglimento della domanda proposta ex art. 2932 c.c., da parte del D.M., non essendo possibile adottare una pronuncia costitutiva del trasferimento della proprietà nel caso in cui il bene sia stato alienato dal promittente venditore.

Tuttavia l’alienazione de qua costituiva un grave inadempimento del C. che giustificava quindi la risoluzione del contratto.

Passando alla quantificazione dei danni, riteneva che non potesse essere confermata la condanna del convenuto alla restituzione del doppio della caparra, atteso che il D.M. non aveva esercitato il recesso di cui all’art. 1385 c.c., ma aveva agito per la risoluzione del contratto, istando per il riconoscimento di un danno di entità ben più considerevole dell’ammontare del doppio della caparra.

Ne derivava quindi che, una volta accolta la domanda di risoluzione, al D.M. andava restituita la complessiva somma di Euro 77.850,00 corrispondente a quanto versato a titolo di saldo del prezzo.

Non poteva invece trovare accoglimento la domanda di risarcimento dei danni correlata al mancato incasso dei ratei mensili del reddito che l’attore avrebbe potuto trarre dal bene, laddove fosse stato concluso il definitivo (danno che invece il Tribunale aveva liquidato nell’importo di Euro 15.000,00, e ciò perché laddove la parte adempiente agisca per la risoluzione del contratto, tra i danni non è possibile includere anche quelli correlati al mancato reddito del bene per il periodo successivo alla proposizione della domanda di risoluzione giudiziale.

Quanto alla diversa domanda di risarcimento del danno corrispondente alla differenza di valore commerciale del bene al momento del definitivo, riteneva che non fosse stata offerta la prova circa l’effettivo incremento di valore del bene tra la data della stipula del preliminare e quella in cui si era realizzato l’inadempimento del promittente venditore.

La Corte d’Appello riteneva poi di dover riconoscere all’attore l’intero importo delle provvigioni richieste dalle agenzie di mediazione, sia in relazione al contratto preliminare oggetto di causa che in ordine al diverso contratto con il quale il D.M. si era impegnato a vendere un proprio immobile, al fine di procurarsi i mezzi economici per far fronte alle obbligazioni scaturenti dal contratto concluso con il C..

In relazione invece alla diversa somma di Euro 80.000,00, richiesta dall’attore quale conseguenza della risoluzione del preliminare concernente il bene di sua proprietà sito in (omissis), la sentenza osservava che il rigetto era stato motivato dal Tribunale sulla base di una pluralità di rationes, ognuna delle quali doveva essere autonomamente contestata con l’atto di appello.

Ed, infatti, la considerazione secondo cui non vi era prova del fatto che il D.M. avesse effettivamente dovuto corrispondere il doppio della caparra al promissario acquirente del suo bene, non era stata in alcun modo oggetto di contestazione.

In ordine alla diversa richiesta concernente l’acquisto del mobilio destinato all’appartamento oggetto del contratto preliminare, i giudici di appello rilevavano che l’ordinativo era avvenuto allorquando l’attore era già al corrente della volontà del C. di sottrarsi al preliminare il che escludeva la risarcibilità di tale pregiudizio.

Quanto infine alla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, la domanda era rigettata, non ricorrendo i presupposti dettati dall’art. 2059 c.c..

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso D.M.L. sulla base di tre motivi.

C.P., C.M. e T.A. resistono con controricorso.

  1. Il primo motivo di ricorso denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c., comma 2, artt. 1453, 1455, 1458, 1218, 1223 e 1224 c.c..

Si evidenzia che la sentenza impugnata ha escluso il diritto dell’attore ad ottenere il doppio della caparra versata, avendo agito con l’azione di risoluzione ordinaria, ed ha condannato la controparte alla restituzione della sola somma versata quale saldo del prezzo, omettendo altresì di disporre la restituzione della somma di Euro 15.000,00 versata a titolo di caparra confirmatoria.

A tale deduzione in controricorso si replica che correttamente la somma de qua non è stata inclusa nella condanna, posto che la sua restituzione non era mai stata richiesta dall’attore.

IL RAGIONAMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Il motivo è fondato.

Non ignora il Collegio che secondo la pacifica opinione della giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. n. 10953/2012) in tema di caparra confirmatoria, qualora la parte non inadempiente, invece di recedere dal contratto, preferisca domandarne la risoluzione, ai sensi dell’art. art. 1385, terzo comma, cod. civ., la restituzione di quanto versato a titolo di caparra è dovuta dalla parte inadempiente quale effetto della risoluzione stessa, in conseguenza della caducazione della sua causa giustificativa, trattandosi di statuizione (così Cass. n. 8881/2000) ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione (conf. Cass. n. 8630/1998; Cass. n. 11356/2006).

Tuttavia non appare possibile sostenere che, laddove la richiesta di pagamento del doppio della caparra sia stata comunque avanzata dalla parte, sebbene erroneamente cumulata con la domanda di risarcimento del danno e con la pronuncia della risoluzione del contratto, la condanna presupponga la specifica proposizione di una domanda di indebito che sia supportata dal richiamo alle obbligazioni restitutorie scaturenti dall’intervenuta declaratoria di inefficacia del contratto, ritenendo il Collegio di dover assicurare continuità al più recente orientamento di questa Corte che valorizza la verifica in punto di omogeneità della richiesta della parte rispetto a quanto in concreto accordato.

In tal senso Cass. n. 23490/2009 ha appunto affermato che non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, così che, proposta in primo grado una domanda di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare, e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia “ultra petita” il giudice il quale ritenga che il contratto si sia risolto non già per inadempimento del convenuto, ma per impossibilità sopravvenuta di esecuzione derivante dalle scelte risolutorie di entrambe le parti (ex art. 1453, secondo comma, cod. civ.) e condanni il promittente venditore alla restituzione della sola caparra (la cui ritenzione è divenuta “sine titulo”) e non del doppio di essa.

Ed, infatti, va considerato che la restituzione della caparra, costituisce un effetto inevitabile della risoluzione, comunque motivata, del contratto, essendo venute meno le finalità alle quali assolveva (v., tra le altre, Cass. 8310/03, 13828/00, 8630/98, 10217/94), sicché la sua pronuncia costituisce un minus rispetto alla domanda del controricorrente, che nonostante avesse chiesto la risoluzione del contratto, aveva indebitamente richiesto la restituzione del doppio, significando in ogni caso che non sussisteva più alcun titolo per la controparte per trattenere la caparra già versata.

In termini analoghi si è poi di recente pronunciata Cass. n. 19502/2015 che ha, infatti, affermato che non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicché, proposta azione di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia “ultra petita” il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il promittente venditore alla restituzione della caparra stessa, producendo, del resto, la risoluzione e la nullità effetti diversi quanto alle obbligazioni risarcitorie, ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni (in termini analoghi, Cass. n. 20965/2017, non massimata).

Facendo applicazione di tali principi al caso di specie, appare quindi possibile affermare che, pur avendo il giudice di merito correttamente qualificato la domanda come di risoluzione ordinaria, ritenendo quindi non legittima la pretesa di ottenere il doppio della caparra, tuttavia avrebbe dovuto altresì disporre la restituzione della caparra versata, trattandosi del riconoscimento di un bene della vita omogeneo rispetto a quanto ab initio richiesto, essendo peraltro pacifico che non sussista più alcun diritto della controparte a trattenerla.

Per l’effetto la sentenza deve essere cassata in parte qua, ma non essendo necessari accertamenti in fatto, può essere decisa nel merito, disponendo che le somme al cui pagamento deve essere condannato a titolo restitutorio C.P. in favore del ricorrente, ammontano ad Euro 92.850,00 (Euro 77.850,00 già oggetto della condanna della Corte d’Appello oltre Euro 15.000,00 pari all’importo della caparra versata) con interessi al tasso legale dalla domanda al saldo.

  1. Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, in combinato disposto con gli artt. 1453 e 1455, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

In primo luogo ci si duole del mancato riconoscimento del danno correlato alla mancata percezione dei frutti che il bene avrebbe prodotto, ove fosse stato concluso il definitivo, e precisamente in misura pari ai canoni che sarebbero stati incassati per la locazione dell’immobile nei mesi estivi.

Il motivo è infondato avendo i giudici di appello fatto corretta applicazione dei principi espressi da questa Corte nella sentenza n. 5063/1993, citata anche in motivazione, a mente della quale il danno da risarcire al compratore adempiente che ha chiesto la risoluzione del contratto per inadempimento del venditore non può comprendere i frutti della cosa venduta successivi alla domanda di risoluzione perché questa, comportando la rinuncia definitiva alla prestazione del venditore (art. 1453 c.c., comma 3), preclude anche al compratore di lucrare i frutti ulteriori che dalla cosa avrebbe tratto dopo la rinuncia (conf. Cass. n. 894/1981).

In secondo luogo si contesta il rigetto della domanda risarcitoria legata alla differenza del valore commerciale del bene tra la data del preliminare e quella del definitivo inadempimento della controparte.

La doglianza non appare meritevole di accoglimento, atteso che la Corte di merito, oltre a richiamare il pacifico principio secondo cui la prova del danno incombe su chi lo richiede, ha ritenuto con accertamento in fatto che l’attore non avesse fornito la dimostrazione dell’incremento di valore dell’immobile sottolineando anche il breve lasso di tempo intercorso tra la conclusione del preliminare e la successiva vendita a terzi del bene, circostanza questa che non consentiva nemmeno di poter far riferimento al notorio per giustificare una lievitazione del valore del bene.

In terzo luogo si contesta il mancato accoglimento della domanda risarcitoria correlata alle somme versate, quale restituzione del doppio della caparra, in conseguenza dell’inadempimento del diverso preliminare concluso dal D.M. in relazione ad un proprio immobile in (omissis).

Il motivo, che contiene essenzialmente censure in fatto circa il corretto apprezzamento della relazione causale tra l’inadempimento del convenuto e la risoluzione del secondo preliminare, non si confronta tuttavia con la ratio effettiva della sentenza appellata che, sul punto, ha ritenuto inammissibile il motivo di appello formulato dal ricorrente, rilevando che non risultava contestata una delle plurime, ed autonome, motivazioni adottate dal Tribunale a sostegno della propria decisione, costituita appunto dalla mancata prova dell’effettivo esborso delle somme richieste.

Ne consegue che il ricorso per risultare ammissibile in parte qua avrebbe dovuto a monte confutare la correttezza della soluzione in rito adottata dal giudice di appello, ma di tale doglianza non si rinviene traccia nel motivo in esame.

In quarto luogo si contesta il mancato riconoscimento delle somme spese per l’acquisto del mobilio destinato ad arredare l’appartamento nel caso di conclusione del definitivo, lamentandosi un’errata valutazione delle risultanze istruttorie nella parte in cui la Corte di merito ha ritenuto che tale acquisto fosse avvenuto allorquando il D.M. era già a conoscenza della volontà del C. di sottrarsi agli impegni scaturenti dal definitivo.

Anche tale deduzione non appare meritevole di accoglimento.

Il giudice di merito ha ritenuto di escludere il diritto al risarcimento di tali pretesi danni ravvisando nella sostanza gli estremi della fattispecie di cui all’art. 1227 c.c., comma 2, sostenendo che, essendo noto al ricorrente l’effettivo intento della controparte, avrebbe dovuto astenersi dal comprare dei mobili destinati ad arredare un bene che era fortemente dubbio o addirittura quasi certo potesse essere effettivamente acquistato per la recisa resistenza del promittente venditore.

A tal fine va ricordato che, in linea con il costante principio per il quale l’accertamento del nesso di causalità costituisce oggetto dell’insindacabile accertamento del giudice di merito, la giurisprudenza di questa Corte a più riprese ha affermato che (cfr. Cass. n. 5511/2003) in tema di risarcimento del danno, l’art. 1227 c.c., comma 1, attiene all’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso, mentre il secondo comma ha riguardo a situazione in cui il danneggiato sia estraneo alla produzione dell’evento ma abbia omesso, dopo la relativa verificazione, di fare uso della normale diligenza per circoscriverne l’incidenza; l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della suindicata disciplina integra indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità se assistita da motivazione congrua (conf., con specifico riferimento all’art. 1227 c.c., comma 1, Cass. n. 774/14969; Cass. n. 2141/1970, e con riferimento al comma 2, dello stesso articolo, Cass. n. 15231/2007; Cass. n. 6735/2005).

  1. Infine il terzo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2059, e degli artt. 1174, 1218 e 1226 c.c., nonché dell’art. 115 c.p.c., nella parte in cui è stato negato il diritto al ristoro del danno non patrimoniale.

Si sostiene che atteso l’oggetto del preliminare, rappresentato da un immobile in località balneare, la mancata stipula del definitivo ha pregiudicato aspetti esistenziali, legittimando quindi la richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale. Il motivo deve essere disatteso, dovendosi a tal fine far richiamo a quanto precisato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26972/2008, con la quale, oltre ad escludersi l’autonoma risarcibilità del cd. danno esistenziale, sono state poste le condizioni per la risarcibilità del danno in oggetto, condizioni che nel caso di specie non è dato ravvisare.

  1. Atteso il parziale accoglimento del ricorso, si ritiene che sussistano le condizioni per confermare la compensazione delle spese dei giudizi di merito e di quelle di legittimità tra il ricorrente e C.P..

Quanto invece ai rapporti tra il ricorrente ed i controricorrenti C.M. e T.A., deve ritenersi che, non essendo stata posta in discussione la decisione di rigetto della domanda di simulazione, la notificazione del ricorso sia avvenuta solo ai sensi ed agli effetti dell’art. 332 c.p.c., rivelandosi quindi superflua la loro costituzione in questo grado, il che legittima anche la compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, e rigettati il secondo ed il terzo, cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, condanna C.P. alla restituzione in favore di D.M.L. della somma di Euro 92.850 con gli interessi legali dalla domanda al saldo; compensa integralmente tra le parti le spese di lite dei vari gradi di giudizio.