RAVENNA RISARCIMENTO Morte prossimo congiunto – Danno parentale
RAVENNA RISARCIMENTO Morte prossimo congiunto – Danno parentale – Privazione di un valore non economico ma personale – Irreversibile perdita del godimento del congiunto – Quantum – Determinazione – Criteri utili Tribunale|Ravenna|Civile|Sentenza|31 maggio 2018| n. 556 RAVENNA RISARCIMENTO Morte prossimo congiunto
SENTENZA CASS. 11.11.2019 N. 28989: IL RISARCIMENTO AL CONGIUNTO DEL DANNO DA PERDITA DEL RAPPORTO PARENTALE ESCLUDE CHE POSSA VENIRE RISARCITO ANCHE UN DANNO ESISTENZIALE
SENTENZA CASS. 11.11.2019 N. 28989: IL RISARCIMENTO AL CONGIUNTO DEL DANNO DA PERDITA DEL RAPPORTO PARENTALE ESCLUDE CHE POSSA VENIRE RISARCITO ANCHE UN DANNO ESISTENZIALE
La Cassazione evidenzia che il danno da perdita del rapporto parentale comprende anche quello esistenziale e ne costituisce una componente intrinseca e precisa quali sono le poste di danno di cui il danneggiato può chiedere (anche cumulativamente) il risarcimento; la perdita della vita, è un bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, non trasmissibile agli eredi.
Il danno parentale per la morte di un prossimo congiunto, consistente nella privazione di un valore non economico ma personale costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare, si colloca nell’area dell’art. 2059 c.c. e riguarda la lesione di due beni della vita, ovvero il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, ed il bene della solidarietà familiare, riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia. Nella determinazione del quantum rilevano, pertanto, criteri quali il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, l’età del congiunto (il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite), l’età della vittima, il rapporto di convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite (dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite) e la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi. Il danno derivante dalla perdita, invero, è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.
A seguito dell’arresto delle (cfr. 11.01.2008, n. 577), la giurisprudenza ha sempre ritenuto che l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario – ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, in base al quale la stessa è tenuta a una prestazione complessa, che non si esaurisce nell’effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche, ma si estende a una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle latu sensu alberghiere.
La responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente, di conseguenza, ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico – professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato; anche in tale caso, infatti, sussiste un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (cfr. Cassazione civile, sez. III, 30/09/2015, n. 19541; Tribunale Milano, sez. I, 02/12/2014, n. 14320).
RAVENNA RISARCIMENTO Morte prossimo congiunto – Danno parentale – Privazione di un valore non economico ma personale – Irreversibile perdita del godimento del congiunto – Quantum – Determinazione – Criteri utili Tribunale|Ravenna|Civile|Sentenza|31 maggio 2018| n. 55 RAVENNA RISARCIMENTO Morte prossimo congiunto
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito – con orientamento oramai consolidato – come debba essere ripartito l’onere probatorio tra le parti: incombe infatti, in ossequio al principio di vicinanza della prova, sul danneggiato l’onere di prova del titolo dell’obbligazione, nonché l’allegazione dell’inadempimento delle stesse, ovvero dell’inesattezza dell’adempimento dovuta a negligenza o imperizia, e il danno che ne sia derivato, mentre grava sulle strutture provare il proprio esatto adempimento e dunque la mancanza di colpa nell’esercizio della prestazione (ex pluribus Cass. civ., n. 11488/2004).
In particolare il paziente deve provare l’esistenza del contatto e allegare l’inadempimento consistente nell’insorgenza della situazione patologica lamentata per l’effetto dell’intervento, ovvero l’infezione ed il decesso; mentre resta a carico del presidio sanitario la prova della diligenza della prestazione e che l’esito letale sia stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile, non evitabile anche avendo osservato le regole tecniche e precauzionali del caso ovvero da concause preesistenti o sopravvenute idonee ex se alla determinazione dell’evento, tali da elidere ogni contributo causale dell’operato medico nell’evento occorso (Cass. civ., n. 10297/2004).
Orbene nel caso in esame gli attori hanno dimostrato per tabulas il titolo da cui emerge l’obbligazione della struttura sanitaria ovvero il ricovero di (…) presso la struttura convenuta a partire dal 18 luglio 2013; in via ulteriore è stato dimostrato che durante il ricovero il paziente ha contratto un’endocardite infettiva nosocomiale con setticemia determinata da un duplice agente etiologico (inizialmente da pesudomonas aeruginosa e poi sa staphilococcus epidermidis).
A fronte di ciò, il nosocomio avrebbe dovuto fornire la prova, rigorosa, di aver posto in essere tutto il possibile per evitare l’insorgenza dell’infezione stessa in quanto solo se avesse soddisfatto tale onere, si sarebbe potuto valutare l’eventuale rilevanza, in suo favore, del rappresentare, l’infezione in questione, una complicanza di intervento. In altri termini, l’ospedale avrebbe dovuto dimostrare, attraverso la prova “positiva” di aver fatto tutto quanto la scienza del settore ha, allo stato, escogitato, per evitare, o quanto meno ridurre, il rischio di contaminazione, che l’evento dannoso, cioè il contagio da batterio nosocomiale, era possibile e prevedibile, bensì non prevenibile, rientrando in quell’area di casi che la scienza medica ha enucle quali eventi che possono sfuggire ai controlli di sicurezza apprestati dalle strutture sanitarie.
In realtà, la convenuta non ha assolto all’onere probatorio che le incombeva non avendo provato di avere posto in essere ogni cautela e precauzione, funzionale, strutturale e di metodo, al fine di realizzare e mantenere costante un’ottimale sanificazione della struttura, dei locali, degli ambienti, dei mezzi e del personale addetto in quanto ha prodotto unicamente un documento interno della casa di cura di procedure operative riguardante la “Bonifica dei dispositivi medici”, la “Pulizia degli ambienti” e la “Prevenzione e cura delle infezioni del sito chirurgico”, con riferimenti anche alle Linee Guida americane, e altro documento che riporta i cicli di sterilizzazione avvenuti su alcuni strumenti in data 18 luglio 2013, ossia il giorno prima del primo intervento (cfr. allegati n. 4 alla memoria ex art. 186 c.p.c. depositata in data 20.06.2016 e n. 3 alla comparsa di costituzione e risposta).
In primo luogo, tale documentazione, in mancanza di un report di effettivo adeguamento alle procedure indicate e di controllo della loro applicazione, ha un valore solo teorico essendo rappresentato da un protocollo astratto, nel senso di programmatico, e quindi deve ritenersi che sia mancata la prova di quali siano state, in concreto, le condotte poste in essere dalla convenuta per un’efficace e consapevole opera di sanificazione (che implica, da parte del management ospedaliero a ciò deputato, ad esempio del Comitato per le I. O., l’adozione di tutta una serie di attenzioni e misure organizzative, effettive e non meramente burocratiche). In secondo luogo, è riduttiva in quanto la convenuta ha prodotto solo i protocolli di sterilizzazione relativi alla sala operatoria, potendo essere stata diffusa l’infezione in altro momento (rispetto all’intervento chirurgico) e luogo dell’ospedale.
Accertata la responsabilità della convenuta, che non ha fornito la prova liberatoria a cui era tenuta, ed avendo tra l’altro il CTU riscontrato diversi profili di colpa dei sanitari che ebbero in cura (…), quanto al danno, le attrici hanno innanzitutto richiesto il risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio derivante dalla perdita del rapporto parentale, nella misura massima prevista dalle Tabelle del Tribunale di Milano vigenti al momento dell’instaurazione del presente giudizio e quindi Euro 327.990,00 per ciascuna di loro.
Il danno parentale per la morte di un prossimo congiunto consiste nella privazione di un valore non economico ma personale costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo la varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare.
Eloquente, al riguardo, appare una nota sentenza della Cassazione (09/05/2011 n. 10107) la quale afferma testualmente che il danno da perdita del rapporto parentale è rappresentato “dal vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nella irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti fra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nella alterazione che una scomparsa del genere irreversibilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti”.
Il danno parentale si colloca nell’area dell’art. 2059 c.c. e riguarda, in definitiva, la lesione di due beni della vita: 1) il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, che trova il suo supporto costituzionale negli artt. 2, 3, 29, 301, 31, 36; b) il bene della solidarietà familiare riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia.
I criteri che rilevano nella determinazione del quantum possono essere così riassunti:
1) il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, dovendosi presumere che, secondo l’id quod plaerunque accidit, il danno è tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto;
2) l’età del congiunto: il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite; tale danno infatti è destinato a protrarsi per un tempo maggiore, soprattutto quando si tratta di minori di età, la cui perdita di un familiare può pregiudicare il loro sviluppo psicofisico;
3) l’età della vittima: anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita;
4) la convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite.
5) la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi in quanto il danno derivante dalla perdita è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.
Ciò premesso, tenuto conto dell’età del defunto al momento dell’intervento pari a 78 anni, dell’eguale età della moglie, dell’età delle figlie E., A. ed A., rispettivamente di anni 44 la prima e 41 le altre due, nonché del fatto che quest’ultime non convivessero con il padre, appare equo riconoscere alla moglie la somma di Euro 165.960,00, pari al minimo previsto dalle Tabelle del Tribunale di Milano pubblicate il 14.03.2018 e, a ciascuna delle figlie, la somma di Euro 200.000,00 (nella forbice da Euro 165.960,00 a Euro 331.920,00).
In secondo luogo, le attrici hanno chiesto il riconoscimento del danno biologico sofferto dal padre per i due mesi di sopravvivenza (il ricovero è avvenuto il 18 luglio 2013, l’intervento il giorno successivo ed il decesso il 18 settembre 2013), trasmissibile agli eredi.
Il danno che la giurisprudenza di legittimità riconosce risarcibile per il periodo di tempo intercorso tra il sinistro e il decesso deve ritenersi sussistente nel caso in esame in quanto nei predetti due mesi (…) è rimasto cosciente ed ha dunque ragionevolmente avuto consapevolezza della gravità delle proprie lesioni, essendo anche stato sottoposto ad ulteriore intervento chirurgico, e del progressivo peggioramento delle proprie condizioni di salute fino a giungere alla morte.
Secondo la Suprema Corte (v. Cass. n. 18163/2007 e Cass. n. 1877/2006) il danno terminale sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed è tale da sfociare nella morte. La stessa Corte ha evidenziato la necessità di tener conto di fattori di personalizzazione, escludendo pertanto che la liquidazione possa essere effettuata attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso e non piuttosto in via equitativa tenendo conto delle circostanze del caso concreto.
Tenendo conto dell’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze gemelle Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972-3-4-5 e n. 15350/2015) nella nozione di “danno terminale” deve essere ricompreso ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente.
Nel caso in esame, risulta che a partire dal 4 settembre 2013 vi sia stato un effettivo peggioramento delle condizioni del paziente, come emerge dal diario clinico dove viene evidenziato un “quadro nettamente scaduto…”, il quale poi in data 6 settembre 2013 veniva sottoposto ad un ulteriore intervento chirurgico, che, tuttavia, non era in grado di scongiurare l’evento morte. Alla luce di tali considerazioni si deve ritenere che, a partire da tale momento e fino al decesso del 18 settembre 2013, (…) sia stato consapevole dell’evolversi in senso peggiorativo delle proprie condizioni di salute temendo la morte e quindi si ritiene equo riconoscere, per ciascuno dei 14 giorni che lo hanno separato dal decesso, la somma di Euro 1.440,00, pervenendo così all’importo complessivo di Euro 20.160,00, già calcolato all’attualità, da suddividersi in parti uguali unicamente tra le tre figlie (per Euro 6.720,00), avendo la moglie dichiarato di avere rinunciato all’eredità.
Infine, alla sola (…) deve essere riconosciuto il risarcimento del danno patrimoniale dovuto al fatto che appare verosimile, stante il dovere di ciascun coniuge di contribuire al manage familiare, che il marito, che percepiva un reddito pari ad Euro 26.662,00 all’anno, destinasse 1/3 dello stesso al soddisfacimento dei vari bisogni della famiglia composta da lui e la moglie, per un importo complessivo, tenuto conto che la prospettiva media di vita di un soggetto maschile è pari a 80 anni, di Euro 17.774,66 (cfr. allegato n. 15 al fascicolo di parte attrice). Alla stessa inoltre devono essere rimborsate le spese funerarie, documentate per Euro 3.334,04 (cfr. allegati n. 17, 18, 19 e 20 al fascicolo di parte attrice).
In sintesi, quindi, a ciascuna delle figlie spetta al somma di Euro 200.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio ed Euro 6.720,00 quale risarcimento del danno patrimoniale iure ereditario conseguenti alla morte del padre (…), mentre alla moglie (…) deve essere riconosciuta la somma di Euro 165.960,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio e la somma di Euro 21.108,70 (Euro17.774,66 + Euro 3.334,04) a titolo di risarcimento del danno patrimoniale subitoRAVENNA RISARCIMENTO Morte prossimo congiunto
Le somme dovute quale risarcimento del pregiudizio non patrimoniale, già calcolate al valore attuale della moneta in applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano pubblicate il 14.03.2018, così come le somme riconosciute alle figlie iure ereditario, devono essere maggiorate unicamente degli interessi legali, da calcolarsi sulle somme riconosciute, devalutate all’epoca del fatto (18.09.2013) e rivalutate di anno in anno fino alla data di pubblicazione della presente sentenza. Sulla somme così ottenute dovranno poi essere calcolati gli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo saldo.
Danno da perdita del congiunto: risarcimento
Il danno da perdita del congiunto deve essere commisurato al valore che la persona perduta aveva rispetto al danneggiato, e non alle conseguenze economiche del risarcimento che il danneggiato ne ritrarrà. Il valore di ogni persona è intrinseco alla sua umanità, per cui non può subire alcuna deminutio in base ad elementi che su tale umanità non incidono, come il luogo di residenza della stessa.
Cassazione civile sez. III, 07/10/2016, n.20206