RISOLVI BOLOGNA DIVISIONE EREDITARIA
Divisione – Divisione ereditaria – Operazioni divisionali – Formazione dello stato attivo dell’eredita’ – Collazione ed imputazione – Oggetto – In genere – Donazioni fatte in vita dal “de cuius” – Obbligo di collazione – Insorgenza automatica con l’apertura della successione – Domanda dei condividenti – Necessità – Esclusione – Deduzione di un fatto ostativo alla collazione – Onere probatorio del deducente.
In presenza di donazioni fatte in vita dal “de cuius”, la collazione ereditaria – in entrambe le forme previste dalla legge, per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione – è uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del “relictum” e del “donatum” al momento dell’apertura della successione , e quindi garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. Ne consegue che l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione (salva l’espressa dispensa da parte del “de cuius” nei limiti in cui sia valida) e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione. Incombe in tal caso sulla parte che eccepisca un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti.
DIVISIONE EREDITARIA OBBLIGO RENDITONTO
La ratio dell’obbligo del rendiconto risiede nel fatto che chiunque svolga attivita’ nell’interesse di altri deve portare a conoscenza di questi, secondo il principio della buona fede, gli atti posti in essere e, in particolare, quegli atti da cui scaturiscono partite di dare e avere.
Pertanto, tra coeredi, la resa dei conti, di cui all’articolo 723 c.c., oltre che operazione inserita nel procedimento divisorio e quindi finalizzata a calcolare nella ripartizione dei frutti le eventuali eccedenze attive o passive della gestione e di definire conseguentemente tutti i rapporti inerenti alla comunione, puo’ anche costituire obbligo a se’ stante, fondato, pari di quanto puo’ avvenire in qualsiasi stato di comunione, sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da alcuno dei partecipanti, in base ad assunzione volontaria o ad un mandato ad amministrare (Cass. 30 dicembre 2011, n. 30552; Cass. 7 giugno 1993, n. 6358; Cass. 13 novembre 1984, n. 5720).
Ne consegue che l’azione di rendiconto puo’ presentarsi distinta e autonoma rispetto alla domanda di scioglimento della comunione, ancorche’ l’una e l’altra abbiano dato luogo a un unico giudizio, di modo che – tranne che per la comunanza di eventuali questioni pregiudiziali, attinenti, ad esempio, all’individuazione dei beni caduti in successione o all’identita’ delle quote dei coeredi, da risolvere incidenter tantum o con efficacia di giudicato (articolo 34 c.p.c.) – le due domande possono essere scisse e ciascuna puo’ essere decisa separatamente senza reciproci condizionamenti (Cass. 30 dicembre 2011, n. 30552).
Da cio’ consegue quindi che l’azione di rendiconto puo’ essere anche autonomamente proposta anche ove siano definite le questioni pertinenti alla divisione ereditaria.
In proposito va per contro ripetuto che all’atto di scioglimento della comunione il possessore del cespite ereditario ha l’obbligo di rendere il conto in relazione ai frutti maturati prima della divisione (Cass. 21013/2011), giacche’ il coerede che abbia goduto in via esclusiva dei beni ereditari e’ obbligato, per il fatto oggettivo della gestione, sia al rendiconto che a corrispondere i frutti agli altri eredi a decorrere dalla data di apertura della successione (o dalla data posteriore in cui abbia acquisito il possesso dei beni stessi), senza che abbia rilievo la sua buona o mala fede (Cass. 2148/2014). Il presupposto della resa dei conti e’ la gestione di affari altrui condotta da uno dei partecipanti, restando irrilevante, quanto al relativo obbligo, la condotta disinteressata del coerede escluso dal possesso.
6) I principi teste’ enunciati conducono all’accoglimento anche del settimo motivo di ricorso nella parte in cui viene lamentato che sia stato negato l’obbligo dei coeredi convenuti “di pagare i frutti e/o l’indennita’ di occupazione per l’uso esclusivo di beni comuni”.
Con sommaria argomentazione la Corte d’appello e’ giunta a tale conclusione affermando che ciascun coerede aveva diritto di godere delle cose comuni e che la (OMISSIS) non aveva mai chiesto di utilizzarle e inoltre aveva goduto in via esclusiva dell’appartamento in Milano.
Queste proposizioni, al di la’ forse di considerazioni equitative che ne sono il fondamento, sono giuridicamente errate, poiche’ diverso e’ il trattamento, quanto ai frutti e al godimento, dei beni entrati nella massa perche’ comuni e indivisi – che sono quelli goduti dai convenuti – e dei beni soggetti a collazione, appartenenti gia’ all’erede al momento della successione.
Nel diritto romano classico la designazione dell’erede non poteva essere fatta che mediante l’attribuzione formale del titolo di erede: “heres esto”, con esclusione di qualsiasi equipollente, talché non sarebbe valso dire “lascio a Ti. i miei beni”, ma occorreva nominarlo espressamente erede: ed il principio era conseguenza non solo del formalismo che per lungo tratto ha caratterizzato l’esperienza giuridica romana, da anche della concezione dell’eredità come successione da parte dell’erede nella sovranità familiare, in cui il profilo dell’acquisto dei beni era secondario e consequenziale. Attualmente, venuto meno il formalismo sistematico, che oggi non avrebbe più senso, non viene dato peso al modo in cui l’intento viene espresso, ma alla sostanza dell’espressione: e ciò nel senso che non rileva l’uso, da parte del testatore, di espressioni sacramentali purché, e questo è essenziale, si possa desumere con certezza la sua volontà di attribuire beni e/o sostanze non già come “cose singole”, sebbene, ed al contrario, come “totalità o quota del suo patrimonio”: in tal caso, come dispone il richiamato art. 588 2 comma c.c., la disposizione è a titolo universale ed attribuisce la qualità di erede, e ciò è possibile in quanto, come si è detto, dal momento che oggi l'”heredis institutio” è divenuta un mero fatto negoziale alieno da formalità che non siano quelle relative alla forma del testamento, come non è inconciliabile, nella mente del testatore, la vocazione universale con la attribuzione di una quota, così, egualmente, non è affatto inconciliabile la sostituzione di un bene in funzione di quota, onde la differenza si riduce a questo:
- a) – nel primo caso è determinata la quota e resta indeterminato, ma determinabile l’apporzionamento;
- b) – nel secondo caso, viceversa, è determinato l’apporzionamento, ed è indeterminato, ma determinabile, il rapporto di quota.
AZIONE DI RIDUZIONE
L’azione di riduzione, ex artt. 553 e ss. c.c., è un’azione personale di accertamento costitutivo, alla quale consegue l’inopponibilità, al legittimario che l’abbia esperita, delle disposizioni ridotte. Essa si rivolge contro le disposizioni testamentarie (a titolo universale o particolare) e contro le donazioni effettuare in vita dal de cuius, in favore di eredi o di terzi. All’azione di riduzione può accompagnarsi quella di condanna alla restituzione ed i relativi presupposti, ai sensi dell’art. 563 c.c., sono il passaggio in giudicato della sentenza che dispone la riduzione, ovvero l’avvenuta alienazione, da parte del beneficiario, del bene oggetto della disposizione, o la preventiva escussione del soggetto contro cui è stata esercitata l’azione di riduzione. Viceversa, la collazione è istituto peculiare alla divisione ereditaria ed è l’atto con cui i discendenti ed il coniuge, che accettano l’eredità, conferiscono nell’asse ereditario (in natura o per imputazione) quanto ricevuto dal defunto in donazione. La collazione è obbligatoria per legge, salvo che il donatario ne sia dispensato dal donante nei limiti della quota disponibile. Se la collazione mira ad assicurare tra i discendenti ed il coniuge del de cuius la parità di trattamento, la riduzione ha lo scopo di rendere inefficaci le liberalità del de cuius che abbiano leso il diritto del legittimario in modo da reintegrare la quota di riserva.
COLLAZIONE
L’articolo 558 c.c., comma 2, in particolare, con riferimento al modo di ridurre le disposizioni testamentarie, stabilisce che “se il testatore ha dichiarato che una sua disposizione deve avere effetto a preferenza delle altre, questa disposizione non si riduce, se non in quanto il valore delle altre non sia sufficiente a integrare la quota riservata ai legittimari”. Tale norma fa, dunque, riferimento ad una volonta’ del testatore di deroga alla regola generale della proporzionale riduzione fra tutti gli eredi e tutti i legatari e deve essere necessariamente espressa in forma testamentaria. E’ dunque evidente l’inapplicabilita’ alla fattispecie per cui e’ causa (ove si discute della riduzione di una donazione in conto di legittima, con dispensa da collazione) dell’articolo 558 c.c., comma 2: quest’ultimo presuppone, come visto, di individuare una volonta’ del testatore diretta ad attribuire ad una disposizione testamentaria un effetto preminente rispetto alle altre, in maniera da limitare la possibilita’ di sua riduzione in caso di esercizio dell’azione di reintegrazione da parte dei legittimari lesi, volonta’ che, seppur non debba risultare da formule solenni, va comunque desunta dal complesso delle espressioni usate nel testamento (Cass. Sez. 2, 24/05/1962, n. 1206).
Il modo di operare la riduzione e’, piuttosto, dettato dagli articoli 554, 555 e 559 c.c., per i quali, basandosi sull’ordine cronologico in cui sono stati posti in essere i vari atti di disposizione, l’azione non puo’ essere sperimentata rispetto alle donazioni se non dopo esaurito il valore dei beni di cui sia stato disposto per testamento, cominciando, comunque, sempre dall’ultima donazione (sotto il profilo temporale), per l’intero suo valore, e risalendo eventualmente via via alle anteriori (Cass. Sez. 2, 29/10/1975, n. 3661; Cass. Sez. 2, 23/07/1964, n. 1971).
La dispensa dalla collazione e la volonta’ del donante di attribuire il donatum in conto di legittima sono disposizioni tra loro del tutto conciliabili. La dispensa dalla collazione agisce nei rapporti tra coeredi, mentre cosa del tutto diversa e’ la dispensa dall’imputazione, la quale e’ destinata ad operare nei confronti di altri legittimari e serve a spostare il limite che la legittima rappresenta per i poteri di disposizione del de cuius. La dispensa dalla collazione non ha affatto, di per se’, lo scopo di attribuire la liberalita’ alla disponibile, ma e’ volta ad esonerare il donatario dal conferimento del donatum, con l’effetto che la successione si svolge, e la determinazione delle quote di eredita’ si attua, come se la donazione non fosse stata fatta e il bene, che ne fu l’oggetto, non fosse uscito dal patrimonio del de cuius a titolo liberale. L’azione ex art. 737 c.c. invero è finalizzata solo all’accertamento dell’obbligo del coerede che ha ricevuto beni in donazione a procedere alla collazione, in natura o mediante imputazione, e costituisce, come detto, atto evidentemente strumentale almeno alla divisione ereditaria (Cass. 23.10.2008 n. 25646).
Si rammenta in tal senso che “in presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius, la collazione ereditaria – in entrambe le forme previste dalla legge, per conferimento del bene in natura ovvero per imputazione – costituisce uno strumento giuridico volto alla formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare l’equilibrio e la parità di trattamento tra i vari condividenti, così da non alterare il rapporto di valore tra le varie quote, da determinarsi, in relazione alla misura del diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del donatum al momento dell’apertura della successione, e quindi garantire a ciascuno degli eredi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. Ne consegue che l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione (salva l’espressa dispensa da parte del “de cuius” nei limiti in cui sia valida) e che i beni donati devono essere conferiti indipendentemente da una espressa domanda dei condividenti, essendo sufficiente a tal fine la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione” (Cass. 14.4.2011 n. 8507, Cass. 18.7.2005 n. 15131).
E’ vero che, l’acquisto di un immobile con denaro del disponente e intestazione ad altro soggetto (che il primo intende, in tal modo, beneficiare), costituendo lo strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, integra una donazione indiretta del bene stesso, e non del denaro (giurisprudenza consolidata, a partire da Cass. sez. unite, 5 agosto 1992, n. 9282; cfr. e plurimis, Cass., sez. 2, 26 agosto 2002, n. 12.486; Cass., sez. 1, 6 aprile 2001, n. 5122). Tuttavia, alla riduzione delle liberalita’ indirette non si puo’ applicare il principio della quota legittima in natura, connaturale invece all’azione nell’ipotesi di donazione ordinaria d’immobile (articolo 560 cod. civ.); con la conseguenza che l’acquisizione riguarda il controvalore, mediante il metodo dell’imputazione, come nella collazione (articolo 724 cod. civ.). La riduzione delle donazioni indirette non mette, infatti, in discussione la titolarita’ dei beni donati, ne’ incide sul piano dalla circolazione dei beni.