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Il danno parentale
consiste nella privazione di un valore non economico ma personale, che “va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono,” costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della lesione dell’interesse protetto1.
Viene valutato il “vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti”
Questo è collocato dell’art. 2059 c.c. e ristora un interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad un risarcimento, ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 c.p., in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in tema di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.
Quanto alla lesione del rapporto parentale nel caso di morte del prossimo congiunto, in presenza di un afflatus familiare, il danno da perdita del rapporto parentale risulta in re ipsa, proprio a causa dell’evento morte, nel caso di lesioni personali del congiunto, il danno parentale riflesso appare ravvisabile solo laddove, come sopra detto, abbia tale gravità e connotazione tali da incidere sulla relazione familiare o coniugale.
Affinché ricorra la tipologia del danno per lesione del rapporto parentale è necessario che la vittima abbia subito lesioni seriamente invalidanti e che si sia determinato uno sconvolgimento delle normali abitudini dei superstiti, tali da imporre scelte di vita radicalmente diverse (cfr. Cass. 8827/2003 e, più recentemente, Cass. 25729/2014). Il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, da luogo a danno non patrimoniale, consistente nella perdita del rapporto parentale, quando colpisce soggetti legati da un vincolo parentale stretto, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la vita familiare nucleare. Mentre, affinché possa ritenersi leso il rapporto parentale di soggetti al di fuori di tale nucleo (nonni, nipoti, genero, nuora) è necessaria la convivenza, quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità dei rapporti parentali, anche allargati, caratterizzati da reciproci vincoli affettivi, di pratica della solidarietà, di sostegno economico. Solo in tal modo il rapporto tra danneggiato primario e secondario assume rilevanza giuridica ai fini della lesione del rapporto parentale, venendo in rilievo la comunità familiare come luogo in cui, attraverso la quotidianità della vita, si esplica la personalità di ciascuno. (Cass. civ., sez. III, 16 marzo 2012, n. 4253; Cass. civ., sez. III, 23 giugno 1993, n. 6938). In caso di non convivenza tra il congiunto e la vittima, ben può essere riconosciuto il danno da lesione del rapporto parentale ove sia provato lo sconvolgimento della vita del parente, prova che può essere data anche in via presuntiva. Un danno patrimoniale consistente nella necessità di dovere retribuire personale medico od infermieristico per l’assistenza ad una persona invalida non può ovviamente essere patito sia dall’assistito (chi riceve assistenza) che dall’assistente (chi presta assistenza). La liquidazione alla vittima primaria d’una somma di denaro per spese di assistenza futura, pertanto, rende teoricamente inconcepibile la necessità di assistenza da parte dei familiari, e di conseguenza l’esistenza d’un danno patrimoniale da forzosa rinuncia al lavoro a carico di questi ultimi” (Cass. civ., n. 23778/2014). (Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto che lo sconvolgimento della vita del fratello della vittima a causa dall’evento lesivo, presumibile alla luce della gravità e dell’irreversibilità delle lesioni subite dalla sorella, è dimostrato dalle scelte compiute dall’attore, oggi amministratore di sostegno della macrolesa, il quale, all’epoca dei fatti, risiedeva e lavorava negli Stati Uniti ed ha deciso di tornare in Italia e di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente all’accudimento della sorella – in favore della quale presta anche l’ufficio di amministratore di sostegno. Tale elemento ha consentito di ritenere provato, per presunzioni, il totale sconvolgimento delle abitudini di vita dell’attore in conseguenza di quanto accaduto alla sorella. Considerati tutti i profili di lesività non patrimoniale, valutata l’intensità del legame esistente tra i due fratelli, il grave perturbamento d’animo subito dall’attore a causa dei gravissimi danni subiti dalla sorella, la gravissima alterazione dell’esistenza del predetto – tutti elementi che hanno consentito di superare il requisito dell’assenza di convivenza, elemento puramente indiziario superabile alla presenza di dati concreti ben più significativi, tutti dimostrati nel caso di specie dalla difesa degli attori – il Tribunale ha ritenuto di liquidare, in via equitativa, un importo maggiore a quello previsto dalla tabelle milanesi per un fratello in caso di perdita del congiunto – valori variabili tra un minimo di 23.740,00 ed un massimo di euro 142.420,00 – e, segnatamente, la somma di euro 200.000,00. (F.R.).
Il danno parentale per la morte di un prossimo congiunto, consistente nella privazione di un valore non economico ma personale costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare, si colloca nell’area dell’art. 2059 c.c. e riguarda la lesione di due beni della vita, ovvero il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, ed il bene della solidarietà familiare, riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia. Nella determinazione del quantum rilevano, pertanto, criteri quali il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, l’età del congiunto (il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite), l’età della vittima, il rapporto di convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite (dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite) e la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi. Il danno derivante dalla perdita, invero, è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.
La prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità della famiglia o avrebbe comunque apportato utilità economiche (così Cass. n. 18490 del 25/08/2006).
Ai prossimi congiunti di un soggetto deceduto in conseguenza del fatto illecito di un terzo compete, dunque, il risarcimento del danno patrimoniale futuro, nel caso in cui il defunto svolgesse attività lavorativa remunerata ed a condizione che preesistesse una situazione di convivenza ovvero una concreta pratica di vita, in cui rientri l’erogazione di provvidenze all’interno della famiglia allargata, in mancanza della quale, non essendo altrimenti prevedibile con elevato grado di certezza un beneficio durevole nel tempo, non può sussistere perdita che si risolva in un danno patrimoniale (cass. n. 4253 del 16/03/2012).
La liquidazione del danno patrimoniale da perdita delle contribuzioni di persona defunta deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito della vittima, al netto sia di tutte le spese per la produzione dello stesso prudentemente stimabili, sia del prelievo fiscale (in tal senso Cass. n. 10853 del 28/06/2012).
Tale danno deve essere liquidato sulla base di una valutazione equitativa circostanziata, a carattere satisfattivo, che tenga conto della rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale, dall’altro (Cass. n. 3966 del 13/03/2012). Pertanto, versandosi in tema di danno patrimoniale regolato dal principio dell'”id quod interest” (e, cioè, di una valutazione soggettiva del danno delineata dall’emergere di un interesse del creditore – danneggiato dotato di una veste costituzionalmente garantita), del tutto legittimo appare, nella specie, il ricorso a criteri ispirati a prudente apprezzamento equitativo, secondo una equità “circostanziata” che assicuri la reintegrazione anche patrimoniale del danno gravissimo subito.
I prossimi congiunti del soggetto deceduto in conseguenza di un sinistro stradale da altri causato hanno diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per lesione del vincolo parentale, in quanto l’altrui condotta illecita lede i diritti della persona costituzionalmente qualificati fondati sugli artt. 2, 29, 30 della Costituzione. L’esistenza del danno deve ritenersi provata in via presuntiva, sulla base del vincolo familiare degli istanti con la vittima, e la sua entità deve essere valutata secondo criteri di equità. In tale contesto non è invece risarcibile come autonoma voce di danno il pregiudizio esistenziale e morale, quale alterazione della vita di relazione dei congiunti del de cuius; al contrario opinando si determinerebbe una duplicazione di risarcimento poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente e unitariamente ristorato.
Il danno parentale per la morte di un prossimo congiunto consiste nella privazione di un valore non economico ma personale costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo la varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare.
Eloquente, al riguardo, appare una nota sentenza della Cassazione (09/05/2011 n. 10107) la quale afferma testualmente che il danno da perdita del rapporto parentale è rappresentato “dal vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nella irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti fra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nella alterazione che una scomparsa del genere irreversibilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti”.
Il danno parentale si colloca nell’area dell’art. 2059 c.c. e riguarda, in definitiva, la lesione di due beni della vita: 1) il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, che trova il suo supporto costituzionale negli artt. 2, 3, 29, 301, 31, 36; b) il bene della solidarietà familiare riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia.
I criteri che rilevano nella determinazione del quantum possono essere così riassunti:
1) il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, dovendosi presumere che, secondo l’id quod plaerunque accidit, il danno è tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto;
2) l’età del congiunto: il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite; tale danno infatti è destinato a protrarsi per un tempo maggiore, soprattutto quando si tratta di minori di età, la cui perdita di un familiare può pregiudicare il loro sviluppo psicofisico;
3) l’età della vittima: anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita;
4) la convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite.
5) la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi in quanto il danno derivante dalla perdita è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.
Il danno parentale, detto anche edonistico, è rappresentato dall’impossibilità di continuare a godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno, ossia dall’irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti fra il de cuius ed i suoi congiunti, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere irreversibilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti. Esso rappresenta, dunque, la privazione di un valore non economico ma personale costituito dall’irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali. Trattandosi di lesione di valori inerenti alla persona e come tali privi di contenuto economico, ai fini della determinazione del quantum debeatur non può che tenersi conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.