572 CODICE PENALE BOLOGNA TRIBUNALE PROCESSO
L’articolo 572 del Codice Penale italiano disciplina il reato di “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”. La norma punisce chiunque maltratti una persona della famiglia o convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia. La pena prevista è la reclusione da tre a sette anni.
umentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Inoltre, se dal fatto derivano conseguenze più gravi, sono previste ulteriori aggravanti:
- Lesione personale grave: reclusione da quattro a nove anni.
- Lesione gravissima: reclusione da sette a quindici anni.
- Morte: reclusione da dodici a ventiquattro anni.
È importante sottolineare che il reato di maltrattamenti in famiglia è considerato un reato abituale, caratterizzato dalla reiterazione di condotte lesive dell’integrità fisica o morale della vittima. Tali condotte possono essere sia commissive (azioni) che omissive (omissioni).
- Inoltre, il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti è considerato persona offesa dal reato.
- La normativa ha subito modifiche nel corso degli anni, con l’obiettivo di rafforzare la tutela delle vittime e inasprire le pene per i colpevoli. Ad esempio, la Legge 19 luglio 2019, n. 69, ha introdotto modifiche significative, aumentando le pene e prevedendo nuove circostanze aggravanti.
- Per una lettura completa e aggiornata dell’articolo 572 del Codice Penale, si può consultare il testo disponibile sulla Gazzetta Ufficiale.
- Il reato di maltrattamenti in famiglia, disciplinato dall’articolo 572 del Codice Penale italiano, è oggetto di frequente analisi da parte della Corte di Cassazione, che ne chiarisce gli elementi costitutivi e le circostanze applicative.
- Abitualità della condotta
- La Cassazione ha ribadito che il reato di maltrattamenti richiede una condotta abituale, caratterizzata da una serie di atti vessatori ripetuti nel tempo, tali da creare un clima di sofferenza e umiliazione per la vittima. In una recente sentenza, la Corte ha sottolineato che episodi isolati o sporadici non sono sufficienti a configurare il reato; è necessaria una reiterazione delle condotte lesive che instaurino un regime di vita persecutorio ed avvilente.
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- Distinzione tra maltrattamenti e liti familiari
- La Suprema Corte ha chiarito la linea di demarcazione tra il reato di maltrattamenti e le semplici liti familiari. Secondo la giurisprudenza, si configura il delitto di maltrattamenti quando un soggetto, con condotte reiterate, impedisce all’altro di esprimere un proprio autonomo punto di vista, ricorrendo a violenza fisica o psicologica, coartazione e offesa, creando un clima di paura e soggezione. Al contrario, le liti familiari, caratterizzate da posizioni paritarie e confronti reciproci, non integrano il reato.
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- Rilevanza della convivenza
- La Cassazione ha affrontato il tema della convivenza ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti. In una pronuncia, ha stabilito che il reato può sussistere anche in assenza di convivenza materiale, purché vi sia una relazione abituale tra l’agente e la vittima, caratterizzata da un legame affettivo stabile e continuativo. Pertanto, anche in assenza di coabitazione, condotte vessatorie reiterate possono integrare il reato di maltrattamenti.
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Reciproche offese e umiliazioni
La Corte ha precisato che, in presenza di offese e umiliazioni reciproche tra i coniugi, il reato di maltrattamenti può essere escluso. In particolare, quando le condotte offensive sono bilaterali e non vi è una posizione di predominio di un coniuge sull’altro, si potrebbe non configurare il reato, mancando l’elemento dell’abitualità della condotta vessatoria unilaterale.
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È importante sottolineare che ogni caso presenta peculiarità specifiche e che le decisioni della Cassazione si basano sull’analisi dettagliata delle circostanze concrete. Pertanto, per una valutazione accurata, è consigliabile consultare un professionista legale esperto in materia.
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maltrattamenti in famiglia elementi costituienti del rweato
Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi è disciplinato dall’articolo 572 del Codice Penale italiano. Ecco i principali elementi costitutivi di questo reato, così come chiariti dalla giurisprudenza e dottrina:
- Soggetto attivo
Può essere chiunque abbia una relazione di:
- Famiglia (coniugi, figli, parenti).
- Conviventi (partner conviventi more uxorio).
- Autorità o affidamento (es. tutori, educatori, operatori in case di cura).
- Soggetto passivo
Può essere:
- Un familiare (coniuge, discendenti, ascendenti).
- Un convivente.
- Una persona sottoposta alla autorità o affidata per motivi di:
- Educazione
- Istruzione
- Cura
- Vigilanza
- Custodia
- Condotta
La condotta è caratterizzata da:
- Atteggiamenti vessatori reiterati.
- Violenza fisica e/o psicologica.
- Atteggiamenti lesivi della dignità e della libertà del soggetto passivo.
Questi atti devono essere:
- Reiterati nel tempo (non è sufficiente un singolo episodio).
- Umilianti e oppressivi, tali da generare un clima di paura e sofferenza.
- Abitualità della condotta
- Il reato di maltrattamenti è un reato abituale.
- È necessario un comportamento ripetuto che crei una situazione di costante sopraffazione.
- L’abitualità non si basa su un numero preciso di episodi, ma sulla continuità e sistematicità delle azioni vessatorie.
- Elemento psicologico (dolo generico)
- È richiesto il dolo generico, ovvero la consapevolezza e volontà di infliggere sofferenza e di instaurare un clima di umiliazione e paura.
- Non è necessario uno scopo specifico, ma solo la volontà di mantenere il soggetto passivo in una condizione di soggezione.
- Evento
L’evento consiste:
- Nel pregiudizio psicologico o fisico subito dalla vittima.
- Nel clima di umiliazione, paura o sofferenza permanente.
- Circostanze aggravanti
- Se il reato è commesso contro una persona:
- Minore di 18 anni.
- In stato di gravidanza.
- Con disabilità.
- Se il fatto è commesso:
- Con l’uso di armi.
- In presenza di lesioni gravi, gravissime o morte.
Esempi di condotte integranti il reato di maltrattamenti
- Insulti e denigrazioni costanti.
- Aggressioni fisiche ripetute.
- Controllo ossessivo e limitazione della libertà.
- Minacce continue.
- Umiliazioni pubbliche e private.
Esclusione del reato
Non si configura il reato di maltrattamenti in caso di:
- Discussioni familiari sporadiche o conflitti reciproci, purché non si instauri un regime vessatorio abituale.
Il reato di maltrattamenti è punito con una pena da 3 a 7 anni di reclusione, con aggravamenti in caso di lesioni gravi, gravissime o morte.
Art. 572 c.p., che disciplina il delitto, non richiede infatti che la vittima sia effettivamente soggiogata dall’autore del reato, ma basta che la condotta sia idonea a provocare sofferenza o umiliazione.
La Suprema Corte, con la sentenza in commento così come in quella successiva sopracitata, ha adottato l’interpretazione più ristretta sia del concetto di “famiglia”, che di quello di “convivenza”, di cui all’art. 572 c.p., ritenendo quest’ultima una “condizione di fatto” che, pertanto, deve assumere rilievo per le sole condotte che si instaurano nelle famiglie “di fatto”, “in relazione ai maltrattamenti di persona “comunque convivente””.
Per i casi di cessazione della convivenza “more uxorio”, la ormai sedimentata giurisprudenza di legittimità, venendo meno qualsivoglia obbligo giuridico, ha ritenuto che le condotte moleste, persecutorie e vessatorie possano al più, sussistendo i requisiti strutturali di fattispecie, essere ricondotte entro i lineamenti di tipicità del delitto di atti persecutori.
La Sezione III Penale, con la sentenza di legittimità in commento, si è però espressa su casi particolari di cessazione della convivenza, specificando che deve ritenersi “configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia e non invece quello di atti persecutori, quando tra i soggetti permanga, comunque, un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337 ter cod. civ.”
In tal modo, la Corte ha precisato i confini da adottare al termine dei rapporti di mera convivenza, lasciando, però, irrisolte situazioni analoghe, soprattutto di condivisione del rapporto genitoriale, nei casi di intervenuto divorzio, che sono rimaste escluse da entrambi i principi di diritto sopra menzionati.
In altre parole, anche qualora la vittima reagisca o risponda a detti maltrattamenti adottando lo stesso livello che l’autore del reato sta tenendo, questa circostanza non dovrebbe essere valutata a scapito della vittima, prescindendo l’atteggiamento reattivo dalla sussistenza del reato de quo, avendo esso la sola necessità di risultare “abituale”.
Questa interpretazione si distacca dalle pronunce di alcuni tribunali di merito, come la Corte d’Appello nella vicenda oggetto della sentenza, che avevano escluso il reato di maltrattamenti in assenza di una palese sottomissione psicologica.
La Cassazione, invece, sottolinea come tale approccio sia in contrasto con il principio di tipicità del reato: la normativa non prevede come requisito lo stato di assoggettamento della vittima, ma solo l’idoneità delle condotte a cagionare sofferenza.
(1)Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia(2) o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi(3).
[La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici.](4)
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni(5
Maltrattamenti in famiglia – Art. 572 cp – Azioni omissive – Degrado dell’accudimento dei minori
AVVOCATO ESEPRTO DIFES A IMPUTATI MALTRATTAMENTO IN FAMIGLIA .-
Corte di Cassazione Sezione 6 Penale Sentenza 27 febbraio 2024 n. 8617
La Corte di appello ha dato atto che, a seguito di un intervento dei Carabinieri avvenuto nel 2018 su richiesta dei figli dell’imputata, venivano avviate le indagini sulle condizioni dei minori, nell’ambito delle quali emergevano fatti sicuramente qualificabili in termini di maltrattamenti in famiglia.
In particolare, i minori riferivano di essere frequentemente picchiati dalla madre, aggiungendo che spesso erano costretti a dormire nel pomeriggio, per poi seguirla nei bar durante il corso della serata, fino a tarda notte. Inoltre, si verificava anche che la madre, per effetto dell’abuso di alcolici, non era in grado di occuparsi dei minori, né della gestione della casa, al punto che i minori rimanevano sostanzialmente privi di assistenza e del tutto abbandonati a sé stessi.
I giudici di appello, con motivazione immune da censure rilevabili in questa sede, hanno ritenuto che il quadro complessivo risultante dalle dichiarazioni dei minori e, in parte, confermato anche dalle annotazioni di servizio redatte in occasione di due interventi delle forze dell’ordine presso l’abitazione dell’imputata, nonché dagli accertamenti svolti dai servizi sociali (cui era seguita la sospensione della potestà genitoriale), era dimostrativo della sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia.
Nel giungere a tale conclusione, la Corte di appello si è espressamente fatta carico di fornire specifiche risposte alle diverse conclusioni cui era giunto il giudice di primo grado, sottolineando in primo luogo come il profilo della genericità delle dichiarazioni rese dai minori non era in alcun modo ravvisabile, né occorreva acquisire elementi di riscontro oggettivo che, in parte, erano comunque sussistenti.
La diversità di conclusioni tra la sentenza assolutoria e quella di condanna non dipende, pertanto, dalla diversa valutazione circa l’attendibilità delle dichiarazioni rese dai minori, bensì dalla qualificazione giuridica che è stata data alla condotta.
A tal riguardo si ritiene pienamente condivisibile la soluzione recepita dalla Corte di appello, secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia ben può essere commesso anche imponendo ai familiari – nel caso di specie i figli minori in tenera età – un regime di vita connotato non solo dal frequente ricorso a violenze fisiche, ma più in generale improntato a un generale degrado nell’accudimento (sia pur con riferimento a diversa fattispecie, si veda Sez.6, n. 12866 del 25/1/2018, Rv. 272737).
Data udienza 24 gennaio 2024
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta da
Dott. DE AMICIS Gaetano – Presidente
Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere
Dott. ROSATI Martino – Consigliere
Dott. DI GERONIMO Paolo – Relatore
Dott. DI GIOVINE Ombretta – Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
Ay.Sp., nata in N il omissis
avverso la sentenza dell’8/3/2023 emessa dalla Corte di appello di Palermo
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;
udita la relazione del consigliere Paolo Di Geronimo;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha chiesto l’annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste;
lette le conclusioni formulate dall’avvocato Fr. Od., il quale chiede l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
- La Corte di appello di Palermo, riformando la sentenza assolutoria resa nel giudizio abbreviato svoltosi in primo grado, condannava l’imputata per il reato di maltrattamenti in famiglia, commesso ai danni dei due figli minori.
- Nell’interesse della ricorrente è stato presentato un unico motivo, con il quale si deduce violazione di legge e vizio di motivazione.
La difesa dell’imputata ricostruisce l’intera vicenda, ponendo in contrapposizione la sentenza di primo grado e quella di appello, valorizzando la valutazione probatoria contenuta nella prima.
Si sostiene, infatti, che la prova dei maltrattamenti sarebbe stata erroneamente dedotta dalle dichiarazioni rese dai figli dell’imputata.
La Corte di appello, inoltre, avrebbe erroneamente ritenuto sussistente una condotta maltrattante, mentre l’istruttoria aveva fatto emergere un mero quadro di disagio familiare, nell’ambito del quale emergevano le difficolta dell’imputata, essenzialmente a causa della sua dipendenza dall’alcol, di occuparsi adeguatamente dei figli minori. Ciononostante, non emergevano condotte abituali e volte ad imporre condizioni di vita familiari vessatorie, tanto più che i minori avevano riferito di sporadici ricorsi alla violenza fisica da parte della madre, essenzialmente legati ai momenti di maggiore criticità che si verificavano a causa dell’abuso di alcolici.
- Il ricorso è stato trattato in forma cartolare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- Il ricorso è manifestamente infondato.
- Il ricorso si sostanza in una lettura contrapposta delle decisioni di primo e secondo grado, volta a dimostrare la correttezza della sentenza assolutoria, chiedendo una sostanziale rilettura nel merito del quadro probatorio.
A ben vedere, infatti, non viene in alcun modo specificato quale sarebbe il profilo di manifesta illogicità o contraddittorietà della sentenza di appello, proponendosi esclusivamente una rivalutazione del fatto, non consentita in sede di legittimità.
La Corte di appello ha dato atto che, a seguito di un intervento dei Carabinieri avvenuto nel 2018 su richiesta dei figli dell’imputata, venivano avviate le indagini sulle condizioni dei minori, nell’ambito delle quali emergevano fatti sicuramente qualificabili in termini di maltrattamenti in famiglia.
In particolare, i minori riferivano di essere frequentemente picchiati dalla madre, aggiungendo che spesso erano costretti a dormire nel pomeriggio, per poi seguirla nei bar durante il corso della serata, fino a tarda notte. Inoltre, si verificava anche che la madre, per effetto dell’abuso di alcolici, non era in grado di occuparsi dei minori, né della gestione della casa, al punto che i minori rimanevano sostanzialmente privi di assistenza e del tutto abbandonati a sé stessi.
I giudici di appello, con motivazione immune da censure rilevabili in questa sede, hanno ritenuto che il quadro complessivo risultante dalle dichiarazioni dei minori e, in parte, confermato anche dalle annotazioni di servizio redatte in occasione di due interventi delle forze dell’ordine presso l’abitazione dell’imputata, nonché dagli accertamenti svolti dai servizi sociali (cui era seguita la sospensione della potestà genitoriale), era dimostrativo della sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia.
Nel giungere a tale conclusione, la Corte di appello si è espressamente fatta carico di fornire specifiche risposte alle diverse conclusioni cui era giunto il giudice di primo grado, sottolineando in primo luogo come il profilo della genericità delle dichiarazioni rese dai minori non era in alcun modo ravvisabile, né occorreva acquisire elementi di riscontro oggettivo che, in parte, erano comunque sussistenti.
La diversità di conclusioni tra la sentenza assolutoria e quella di condanna non dipende, pertanto, dalla diversa valutazione circa l’attendibilità delle dichiarazioni rese dai minori, bensì dalla qualificazione giuridica che è stata data alla condotta.
A tal riguardo si ritiene pienamente condivisibile la soluzione recepita dalla Corte di appello, secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia ben può essere commesso anche imponendo ai familiari – nel caso di specie i figli minori in tenera età – un regime di vita connotato non solo dal frequente ricorso a violenze fisiche, ma più in generale improntato a un generale degrado nell’accudimento (sia pur con riferimento a diversa fattispecie, si veda Sez.6, n. 12866 del 25/1/2018, Rv. 272737).
A tal riguardo, infatti, deve precisarsi che il reato di maltrattamenti può essere commesso anche in forma omissiva, lì dove il genitore non provveda ad assicurare al minore, specie se in tenera età, tutte quelle condotte di cura, assistenza e protezione a fronte di esigenze cui il minore non può altrimenti provvedere (Sez.6, n.4904, del 18/3/1996, Rv. 205035; Sez.6, n. 9724 del 17/1/2013, Rv. 254472).
Né è condivisibile la tesi del giudice di primo grado, secondo cui nella condotta dell’imputata non sarebbe ravvisabile la volontà di avvilire e sottoporre le persone offese ad un contesto di vita familiare degradante.
Invero, il reato di maltrattamenti, presupponendo il dolo generico, non implica l’intenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria (Sez.3, n. 1508 del 16/10/2018, Rv. 274341-02).
La reiterazione nel ricorso alla violenza nei rapporti con i figli, nonché l’abituale deficit di accudimento emerso, sono elementi di per sé dimostrativi della reiterazione di condotte idonee ad integrare il reato di maltrattamenti in famiglia, sia sotto il profilo oggettivo che dell’elemento soggettivo del reato.
- Alla luce di tali considerazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 24 gennaio 2024.
Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2024.